Come si deve, o si dovrebbe regolare, la Chiesa cattolica nei confronti del nazionalismo? A seconda che lo giudichi un bene o un male, evidentemente dovrebbe accettarlo oppure combatterlo. Di fatto, ciò che ci mostra il corso della storia come quella recente e recentissima, è che la Chiesa ha sempre dovuto prendere atto che tale sentimento esiste, ed è così profondo e radicato che risulta difficile, se non impossibile, combatterlo apertamente; tutt’al più essa può sforzarsi di mitigarne gli eccessi. Ma che accade quando il nazionalismo in questione non è quello degli Stati ma quello delle minoranze che vivono all’interno degli Stati, e rispetto ai quali esso si pone oggettivamente come un fattore d’indebolimento e perciò tale da attirar contro di sé l’azione politica governativa?
Ricordiamo che l’arcivescovo di Trieste, Antonio Santin, rischiò di essere ucciso allorché volle visitare le sue parrocchie che la linea di confine provvisoria aveva lasciato in territorio jugoslavo, alla fine della Seconda guerra mondiale; né ci risulta che il clero sloveno abbia sollevato obiezioni all’aggressione e alle intimidazioni e minacce di morte che gli furono rivolte dai suoi connazionali, con e senza l’uniforme. A titolo di esempio, e per poter sviluppare una più ampia riflessione, citiamo una pagina del libro di Vittorio De Marco dedicata alla questione del clero sloveno, percepito come un grave problema politico dai questori e dalle autorità statali, nelle due province di Gorizia e di Udine, negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, Le barriere invisibili. La Chiesa in Italia tra politica e società, 1945-1978 (Congedo Editore, 1994, pp. 120-122):
Nell’agosto del ’53 l’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, dietro pressione dei ministeri degli Esteri e Interni interveniva su mons. Montini affinché il Vaticano appuntasse la sua attenzione sul clero slavo di confine. Non era certo la prima volta che ci si rivolgeva direttamente alla segreteria di Stato: l’anno precedente l’ambasciata era già intervenuta sul Vaticano per far cessare le troppo palesi manifestazioni di filo slavismo da parte del parroco di Stregna; in questo specifico caso l’ambasciatore aveva avuto assicurazioni che «la Segreteria di Stato di Sua Santità [aveva] a suo tempo fatto fare le opportune comunicazioni al vescovo di Udine, affinché tali manifestazioni non avessero a ripetersi». Nel 1951 la nunziatura apostolica, sollecitata dagli stessi ministeri, aveva chiesto al vescovo di Udine una relazione su alcuni elementi del clero allogeno della sua diocesi che a detta delle autorità italiane più si distinguevano per il loro oltranzismo. Il nunzio apostolico Borgoncini Dica aveva poi girato la relazione, tale e quale come gli era pervenuta dal vescovo di Udine, al ministro Scelba. Mons. Nogara gettava molta acqua sul fuoco cercando di tranquillizzare il ministro e soprattutto le questure locali. Il prelato faceva una importante premessa: bisognava distinguere tra nazionalità, lingua e razza. Gli abitanti della Valle del Natisone si sentivamo italiani a tutti gli effetti, «ciò che non è di Gorizia», ed anche il clero sloveno del luogo stava in prima fila «in questo attaccamento all’Italia». Questo per quanto concerneva il primo aspetto relativo alla nazionalità. Per quanto riguardava la razza e la lingua mons. Nogara faceva notare: «Queste popolazioni sentono la loro origine e non la dimenticano. Perciò non si può pretendere che l’italianità di queste valli sia in tutto eguale a quelle delle popolazioni anche etnicamente italiane». Più che di lingua slovena poi, doveva parlarsi di un dialetto sloveno frammisto al dialetto friulano. Anche il prelato di Udine giudicava deleteria la precedente politica del fascismo che aveva portato come estrema conseguenza ad un risveglio del sentimento e dell’orgoglio nazionale degli sloveni alloglotti, trovando ancora una volta come capofila il clero che certo, lo riconosceva lo stesso presule, era caduto in qualche eccesso. (…)
L’arcivescovo di Trieste, Antonio Santin
Insomma mons. Nogara sembrava rilanciare risolutamente la palla allo Stato, affermando in maniera non tanto implicita che la colpa della situazione, almeno in quella zona di confine, non era tanto da imputar al clero sloveno quanto ad una politica governativa sbagliata prima, durante e dopo il fascismo, fatta più che di scarsa conoscenza dei problemi, di sostanziale disattenzione, avendo lasciato alle autorità governative locali una grande libertà d’azione che aveva dato sempre frutti opposti a quelli sperati. «Concludendo mi pare che non ci sia alcun motivo di preoccupazione e di dubbio sull’italianità del clero delle Valli del Natisone; altrettanto si dica, parlando in generale, per la lingua italiana. Attualmente questo Clero attraversa un periodo di calma e di serenità: non sarebbe prudente metterlo in agitazione: lo dovrebbero comprende anche coloro che provocarono ed alimentarono la passata agitazione».
Non è certo facile capire fino a che punto le questure e la stampa tendevano ad esagerare la situazione locale, quanto realmente il clero sloveno si sentisse in qualche modo perseguitato e quale fosse il suo effettivo ruolo di “agitatore” che le autorità italiane gli imputavano. Questo ruolo per le stesse autorità, passava attraverso l’uso indiscriminato e ingiustificato della lingua slovena anche dove la popolazione italiana la rifiutava, e le questure in molte occasioni avevamo denunciato l’intolleranza del clero sloveno rispetto alle esigenze diverse delle popolazioni cattoliche italiane. Quello che si rimproverava al clero sloveno era la sua politicizzazione, il suo appoggio all’Unione Democratica Slovena - un partito di ispirazione cattolica – ed in una certa misura anche al Fronte Democratico Sloveno di ispirazione comunista. Il clero allogeno, secondo le autorità, affermava pubblicamente che «Tito ed il comunismo passano, la Jugoslavia è eterna; un giorno ci uniremo alla madre patria». Dunque la lingua e la politica funzionavano da una parte come collante per tenere viva una parvenza di irredentismo e dall’altra come elemento di cesura con la realtà italiana circostante.
La gerarchia locale vedeva in maniera diversa le cose e soprattutto non tendeva a generalizzare l’atteggiamento degli elementi ecclesiastici più fanatici. Per la Chiesa di Udine e di Gorizia, le autorità italiane rischiavano cioè di fare di tutta un’erba un fascio, tale da spingere verso una politica di repressione dagli oscuri esiti sociali religiosi e politici. Tuttavia le autorità centrali si appoggiavano ai dispacci dei prefetti, dei questori e del Sifar che continuavano a spedire allarmanti notizie.
Mons. Giuseppe Zaffonato
Questa citazione, ripetiamo, ha solo valore di esempio; potevamo scegliere altri luoghi e altri momenti storici; per esempio, sempre restando in Italia, potevamo parlare del clero allogeno tedesco nella provincia di Bolzano prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale; anzi prima ancora, cioè dagli anni del Risorgimento e poi del (nostro) irredentismo, fino a quelli che hanno preceduto la Prima guerra mondiale. Oppure avremmo potuto parlare della situazione della Venezia Giulia annessa dall’esercito di Tito nel 1945 e definitivamente assegnata alla Jugoslavia dal Trattato di Pace del 1947, comprese le zone interamente o quasi interamente italiane dell’Istria, come Pola, Capodistria, Pirano, fino a Zara, passando per Fiume e le isole di Cherso e Lussino. Ma il risultato sarebbe stato sempre lo stesso: il clero cattolico, di qua e di là delle frontiere, a partire dall’epoca dei nazionalismi, ossia dal XIX secolo, si è sempre schierato compattamente per la propria etnia, indipendentemente dalla sovranità di questo o quello Stato. E la stessa cosa è accaduta e accade in tutte le regioni etnicamente e linguisticamente miste e politicamente contese: dall’Alsazia alla Transilvania, e dalla Slesia alla Galizia. Abbiamo scelto la pagina di Vittorio De Marco relativa al clero sloveno delle province di Udine e Gorizia (quest’ultima enormemente mutilata dall’esito del conflitto) subito dopo la Seconda guerra mondiale, perché conosciamo meglio quella situazione e perché ci è sembrata esemplare della problematica sulla quale vogliamo riflettere. Se in Alto Adige il clero tedesco, sostenuto dallo stesso vescovo di Bressanone, mons. Geisler, costituiva un elemento sciovinista compatto e assolutamente indisponibile a qualsiasi accomodamento, e guardava concretamente all’Austria come alla patria cui desiderava essere ricongiunto, i preti sloveni del Friuli potevano contare, sì, sulla comprensione e talvolta sull’aperta simpatia degli arcivescovi italiani di Udine e Gorizia, specie di mons. Margotti di Gorizia e dal suo braccio destro, lo sloveno Federico Brumat, ma era oggettivamente indebolito dal fatto che la Jugoslavia comunista di Tito era e non era il referente ideale dei nazionalisti, oltre che dalla povertà complessiva di quelle parrocchie, ben diverse in questo dalle ricche parrocchie sudtirolesi, e infine dai giuochi internazionali che facevamo del confine italiano l’avamposto dell’Occidente atlantico verso il blocco comunista, e questo anche dopo la rottura clamorosa di Tito con Stalin, avvenuta nel giugno 1948. Se a ciò si aggiunge la minore consistenza numerica rispetto a quella tedesca in Alto Adige, e il fatto che sia nella provincia di Udine, sia nella stessa (ridottissima) provincia di Gorizia l’elemento sloveno non si avvicinava neanche lontanamente a costituire la maggioranza della popolazione, si capirà come la tendenza separatista e irredentista degli sloveni nel Friuli orientale non giunse mai ad assumere le proporzioni inquietanti che ebbe il separatismo sudtirolese. Essa cominciò a declinare fin dagli anni ’50, per poi spegnersi lentamente e naturalmente, senza drammi, talché era morta del tutto quando la Slovenia si distaccò dalla federazione jugoslava nel giugno 1991, dando inizio alla dissoluzione di quel Paese.
Le preoccupazione e le lamentele dei questori e dei prefetti italiani circa l’atteggiamento del clero sloveno riflettono una situazione di tensione comunque reale e potenzialmente pericolosa. Era vero che i preti sloveni erano numericamente troppo numerosi rispetto alla popolazione delle parrocchie che dovevano assistere: ce n’era uno ogni 41 connazionali, contro un prete italiano ogni 200 fedeli di etnia italiana. Ed è vero che molti di essi erano accesi nazionalisti e propagandisti dell’unione con la madrepatria slava, benché questa all’epoca fosse dominata da un regine comunista tutt’altro che tenero verso la religione cattolica (anche perché invelenito dal sostegno dato dalla Chiesa agli ustascia croati); ma questo dimostra solo che in essi lo spirito irredentista era perfino più forte delle loro avversioni ideologiche: era meglio per essi la Jugoslavia comunista che l’Italia democratica, dove pure nessuno attentava alla loro libertà religiosa, né pretendeva un allineamento ideologico o imponeva un controllo poliziesco. Perciò, se l’allarme delle autorità civili italiane appariva giustificato rispetto alla lealtà dei cittadini di etnia slovena, l’atteggiamento delle autorità ecclesiastiche delle due diocesi appare un po’ troppo fiducioso e influenzato da un ottimismo non del tutto giustificato sul piano dei fatti. La relazione di monsignor Giuseppe Nogara, arcivescovo di Udine, inoltrata dalla Santa Sede al governo italiano, si direbbe viziata da una sorta di buonismo e di pacifismo venati di grande indulgenza e resi possibili, forse, da un certo non voler vedere quel che realmente facevano e dicevamo i preti sloveni di quelle due archidiocesi, altrimenti quei prelati si sarebbero accorti che non era cosa affatto normale, né condivisibile, che i preti sloveni imponessero nella liturgia e nel catechismo la propria lingua, anche in presenza di una maggioranza di parrocchiani di etnia e di lingua italiana. La distinzione fra nazionalità, razza e lingua, fatta da mons. Nogara, appare in larga misura astratta e artificiosa; e la sua convinzione che gli sloveni delle Valli del Natisone fossero pienamente soddisfatti della propria cittadinanza italiana lascia un po’ perplessi. A ciò si aggiunga che Nogara, nativo di Bellano (oggi in provincia di Lecco e allora di Como) evidentemente non conosceva troppo bene neppure la cultura e la mentalità dei suoi fedeli di etnia e di lingua italiana, visto che parlava della lingua friulana come di un semplice dialetto. Ciò mostra che egli ignorava del tutto l’esistenza di una ”questione friulana” che era sempre esistita e che sarebbe esplosa poco dopo di lui, investendo in pieno il suo successore, il vicentino mons. Giuseppe Zaffonato, negli anni ’60 e ‘70.
La Chiesa è cattolica perché vuole essere universale; ma come può esserlo, se accetta un aspetto tipico della modernità come "il nazionalismo": il caso dei cattolici cinesi.
In ogni caso, se la situazione poteva apparire abbastanza rassicurante vista dal palazzo arcivescovile di Udine, ben diversa doveva apparire da quello di Gorizia, perché qui la componente slovena era proporzionalmente più numerosa rispetto all’elemento italiano; la frontiera jugoslava era talmente vicina da tagliare in due il capoluogo; e lo sciovinismo del clero locale di lingua slovena era decisamente più radicale. A ciò si aggiunga che Gorizia, a differenza di Udine, aveva conosciuto gli orrori di una sia pur breve occupazione da parte dei partigiani jugoslavi, nel 1945; che aveva vissuto nel terrore di vedersi assegnata definitivamente alla Jugoslavia, come era toccato a Pola, Fiume, Zara; che nella sua provincia, come in quella di Trieste, erano avvenuti centinaia d’infoibamenti, i quali avevano lasciato una scia di ostilità e insopprimibile diffidenza fra le due etnie; e che il suo arcivescovo Margotti era stato arrestato e imprigionato dai titini e aveva rischiato la fucilazione, ed era stato rilasciato solo per l’intervento congiunto del Vaticano e degli Alleati. Alla luce di questi ed altri fatti, che qui non è possibile riassumere neppure brevemente, perché troppo complessi, l’ottimismo di mons. Nogara e la sua minimizzazione del problema slavo appaiono un po’ forzati, tanto più che egli avrebbe dovuto ben sapere quale terribile ricordo avessero lasciato nella sua regione le atrocità perpetrate dai partigiani sloveni, e anche da quelli comunisti italiani che agivano di concerto, e in sostanza in via subordinata, al comando sloveno, come era accaduto nel caso dell’eccidio di Porzûs, del quale abbiamo altrove parlato (cfr. L’eccidio di Porzûs del 1945 visto da un “osovano” e da un “garibaldino”, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 04/11/17). Così pure, il fatto che mons. Nogara addossi tutta la responsabilità del nazionalismo, talora esasperato – per sua stessa ammissione - degli sloveni alla politica italiana, sia durante il fascismo, sia prima di esso, sia dopo, vale a dire al tentativo di snazionalizzare quella minoranza imponendo la lingua e la toponomastica italiane, ci sembra decisamente semplicistico. Il nazionalismo sloveno anti-italiano esisteva nella Venezia Giulia ancor prima che la regione venisse annessa all’Italia dopo la Prima guerra mondiale; era stato deliberatamente favorito dall’Austria e anche se non ci fossero stati né il fascismo, né la guerra persa, le autorità italiane avrebbero dovuto comunque fare i conti con esso, in una maniera o nell’altra. Si pensi, per fare un confronto, a come la Francia ”risolse” il problema tedesco in Alsazia sia nel 1918 che nel 1945, ossia deportando tutti gli elementi inaffidabili o politicamente sospetti e francesizzando la scuola, la cultura, la stampa, ecc, ossia rimuovendo sistematicamente tutto ciò che era tedesco; o a come lo affrontò, in maniera radicale, la Cecoslovacchia nel 1945, espellendo puramente e semplicemente tre milioni e mezzo di tedeschi dei Sudeti, per vendicarsi della Conferenza di Monaco del 1938, che su quella minoranza aveva fatto leva per dissolvere la compagine nazionale, e per evitare che ciò potesse mai ripetersi. È certo comunque che l’esito infausto della Seconda guerra mondiale e la situazione di debolezza politica dell’Italia nel contesto internazionale scaturito dal 1945 ebbero il loro peso nella gestione del problema delle due minoranze del Nord-Est, quella tedesca in Alto Adige e quella slovena nel Friuli e nella Venezia Giulia (e mettiamoci pure la Val d’Aosta di madrelingua francese, che per poco De Gaulle non riuscì ad annettere alla Francia, e che per tale ragione ottenne velocemente l’autonomia amministrativa, già dal 1948). Sorprende semmai che monsignor Nogara non accenni neppure a uno sforzo da lui compiuto per ridurre a più miti consigli i preti nazionalisti sloveni della sua diocesi; anzi risulta che proprio nel seminario (allora) prestigioso di Udine, tenesse l’insegnamento della filosofia Ivan Trinko, forse la figura più nota e autorevole del nazionalismo culturale sloveno del Friuli, che fu anche eletto consigliere provinciale.
Insomma, e qui ci avviciniamo al cuore del discorso, è abbastanza chiaro che le stesse autorità ecclesiastiche avevano ben poca possibilità si esercitare un efficace influsso moderatore sulle intemperanze nazionaliste del clero di etnia e di lingua slovena; e lo stesso discorso si potrebbe fare, a maggior ragione, per il clero di etnia e lingua tedesca dell’Alto Adige, che anzi nel vescovo di Bressanone e nella stampa ispirata e controllata da quella diocesi trovava il massimo sostegno ed incoraggiamento nell’affermare il proprio nazionalismo intransigente e le mai sopite, né dissimulate nostalgie asburgiche, legate anche al mito dell’Austria Felix. Appare evidente che i vescovi locali, così come la Santa Sede, considerassero il nazionalismo del clero e delle popolazioni alloglotte come un elemento non estirpabile e non modificabile, tutt’al più suscettibile di essere addolcito e incanalato entro limiti ragionevoli, vale a dire evitando che sfociasse nell’aperta istigazione alla ribellione e della secessione dallo Stato italiano. Questa è una cosa che deve far riflettere. Il nazionalismo è realmente un fattore ineliminabile dal sentire profondo e dalla vita dei popoli, molto più del fattore classista, come si è visto nella dissoluzione e nelle guerre civili della ex Jugoslavia, nel decennio dal 1991 al 2001; infatti il nazionalismo delle minoranze costituisce oggettivamente un fattore di divisione e instabilità per gli Stati nei quali esse vivono e si agitano. Come si possa risolvere il problema dal punto di vista delle autorità politiche; se la via migliore sia quella adottata dalla Francia con gli alsaziani, o addirittura dalla Cecoslovacchia coi sudeti, oppure quella nel complesso paziente e tollerante seguita dall’Italia (sconfitta) verso i tedeschi dell’Alto Adige e gli sloveni della Venezia Giulia e del Friuli orientale, è cosa che esorbita dalla prospettiva che qui ci siamo posta.
Ci eravamo chiesti se la Chiesa cattolica debba assumere una linea ben definita nei confronti del fenomeno nazionalista, tenendo presente che esso riguarda anche il clero, e che anzi un clero fortemente nazionalista, specie nelle zone miste di frontiera, è proprio l’elemento principale che sostiene e fa progredire il nazionalismo delle popolazioni, con tutte le conseguenze politiche che possono derivarne. E il fatto che il clero non riesca assolutamente a contrastare i nazionalismi aggressivi, oppure non lo voglia, ci sembra un tipico portato della modernità. Il nazionalismo, infatti, è un fenomeno tipicamente moderno: nasce con lo Stato nazionale, che era sconosciuto alla civiltà cristiana medievale. Il primo nazionalismo europeo è quello che nasce dalla prima guerra “nazionale” moderna, la Guerra dei Cent’anni: da essa nascono il nazionalismo inglese e il nazionalismo francese. Ora, come è noto, la Chiesa ha canonizzato Giovanna d’Arco, considerata la santa guerriera e martire della causa francese; e ciò in linea con la teoria tomista, e non solo tomista, della guerra difensiva come guerra giusta. Da allora, la Chiesa cattolica, secondo le linee di frattura della modernità, di fronte alle questioni nazionali si è divisa secondo la sensibilità delle chiese locali: se nel Medioevo era ancora possibile imporre una pace, o almeno una mediazione, ai contendenti, in nome della comune appartenenza alla cristianità, nei secoli moderni questo è divenuto anacronistico e impensabile. Ciascuna chiesa locale ha benedetto le guerre del proprio Stato, e spesso non solo quelle difensive, ma anche quelle offensive: tipico esempio quel che accadde nel 1914 in Francia, in Austria, in Germania, in Italia, Paesi prevalentemente o parzialmente cattolici.
La Chiesa è cattolica perché vuole essere universale; ma come può esserlo, se accetta un aspetto tipico della modernità come il nazionalismo, che per sua natura tende ad essere esclusivista, e che se si vede frustrato nelle sue aspirazioni - ed è il caso delle minoranze che vivono all’interno degli Stati nazionali – cerca di affermarsi anche a costo di sovvertire l’ordine sociale e la pace delle più vaste comunità entro le quali vivono le minoranze? Anche da questo punto di vista appare chiaro che quando la Chiesa cattolica imbocca la via dell’accettazione dei dogmi della civiltà moderna, si mette su una strada sdrucciolevole e malfida, che prima o poi la pone di fronte a dolorosi dilemmi e a drammatiche alternative. Come sta oggi accadendo ai cattolici cinesi, lasciati soli dalla Chiesa di Roma che, pur di giungere a un accordo con il regime di Pechino, non ha esitato ad abbandonarli in balia di una tirannia spietata, la quale pretende da essi che smettano di essere ‘cattolici’ per divenire anche loro, come tutti gli altri, dei nazionalisti cinesi.
Il nazionalismo del clero: una faccia della modernità
di Francesco Lamendola
Vedi anche:
L'ECCIDIO DI PORZUS - L’eccidio di Porzûs del 1945 visto da un “osovano” e da un “garibaldino”
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