Intervista a Mons. Brunero Gherardini. Risposta a don Cantoni tra teologia e amarezza
Ringrazio Dante Pastorelli per questa preziosa intervista ad uno dei nostri più autorevoli Maestri. Tanto più importante quanto più è nota l'estrema riservatezza con la quale Mons. Gherardini si è sempre sottratto ad ogni disputa.
Davvero lieta di poter dare il mio contributo da questa Agorà.
Davvero lieta di poter dare il mio contributo da questa Agorà.
Da quando nel 2009 apparve il primo libro sul Vaticano II (Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Frigento, Casa Mariana Editrice), in cui Mons. Brunero Gherardini iniziava una disamina attenta e puntuale dei documenti conciliari, fra larga messe di consensi anche ad altissimo livello, s’è levata qualche rara voce critica, legittima certo, ma per lo più alquanto superficiale e ripetitiva. Né diversa accoglienza ha ricevuto il successivo Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Torino, Lindau, 2011.
Il proceder del Concilio nel solco della Tradizione va dimostrato. Se non si vuole dimostrar con argomentazioni se non esaustive almeno credibili, si dogmatizzi in modo inequivocabile l’ultima assise ecumenica o almeno una parte dei suoi documenti o capitoli d’essi, dato il loro diverso valore magisteriale da inquadrar sempre nel livello “più modesto”, pastorale, su cui dall’alto s’è voluto por quest’importante evento ecclesiale.
Non è mia intenzione polemizzar con nessuno in questa sede, poiché già a certe critiche ho risposto sul mio bollettino “Una Voce dicentes”, Gennaio-Aprile 2011.
Ma molto di recente un’altra voce s’è aggiunta alla sparuta ma sgomitante schiera dei contestatori. Mi son fatto coraggio, allora, e mi son rivolto all’antico Maestro che m’onora della sua amicizia, chiedendogli di risponder finalmente almeno a qualcuno di questi dissenzienti - soprattutto all’ultimo che, sapevo, con le sue pagine gli avrebbe procurato amarezza -, pur conoscendo la sua ritrosia, il disagio che gl’impediscon di scender nell’agone di vacue dispute. E con mia viva sorpresa m’ha rilasciato un’ampia ed accorata intervista destinata al mio sopra citato bollettino, ma che, ne sento il dovere, volentieri affido in anticipo a qualche blog.
Assieme all’affetto di sempre, a don Brunero il mio più profondo ringraziamento, nell’attesa del terzo testo sul tema Vaticano II. E che Maria Santissima, tanto da lui venerata ed amata, lo sostenga e lo illumini nella santa battaglia in difesa della vera Fede e dell’unica Chiesa di Cristo.
Dante Pastorelli
Dante Pastorelli
D – Caro don Brunero, in questi giorni, come saprà, il Suo nome è oggetto d’un attacco pesantissimo da parte d’un prete che si dichiara Suo ex-alunno. Non gli risponde?
R – Per le rime, no. Anzi, se si trattasse solo della mia persona, manterrei ancor il silenzio che in tutta la mia vita ho mantenuto. Questa volta, tuttavia, ho intenzione di farmi sentire in qualche modo, se pur con molta riluttanza. Non scriverò direttamente una risposta articolata sulle singole tematiche ed accuse, ma complessiva, breve e sostanziale. Ho già in mente dove e come inserirla, al solo scopo di fornire opportuni chiarimenti e quella che mi offri, nonostante la mia idiosincrasia al genere Intervista, è un’occasione d’oro. Non risponderò per le rime, perché rifuggo dall’uso del vetriolo che m’è stato scaraventato in faccia. E vorrei aggiungere che la mia risposta, così come tutta la mia analisi del Vaticano II, parte da quel gesto rivoluzionario che il 13 ottobre del 1962 dette al Concilio un orientamento prima imprevisto. Son convinto che chi non parte di lì non può esser in grado di capirci qualcosa.
D – Se accetta di rispondere, comunque lo faccia, mi par di capire che c’è rimasto male.
R – Certamente non bene, specie perché si tratta d’un attacco portato contro di me da un mio ex alunno, come hai ricordato. Incontro spesso qualcuno che fu alla mia scuola. Son tanti: laici, suore, preti, vescovi e perfino qualche cardinale. Ogni volta è una gioia reciproca ed a me non fa certamente dispiacere sentirmi dire: quando devo parlare sulla Chiesa, prendo in mano i suoi manuali e gli appunti delle sue lezioni. Recentemente un parroco di Roma, rivolto a me dall’altare, ha detto: si tremava un po’ dinanzi al suo rigore, ma non la ringrazieremo mai abbastanza per quello che ci ha dato. L’uscita di don Piero Cantoni, l’alunno di cui mi parli, e dal quale mi sarei aspettato ben altro che vetriolo in faccia, ha rotto l’incantesimo.
D - Se non son indiscreto: c’è qualche motivo per dire che da lui non se l’aspettava?
R – Ce n’è più d’uno e mi trovo un po’ a disagio nel metterli in vetrina. Si tratta soprattutto d’uno stato d’animo. Quando si presentò al Laterano, proveniva da Écone e bastava questo, allora più di oggi, a provocare non poca diffidenza. Seppi da lui le difficoltà che incontrava nella diocesi nella quale si sarebbe incardinato. Aveva il volto triste; non lo vidi mai sorridere. Con lui c’era un suo collega austriaco, egli pure atteggiato a perenne tristezza e, come lui, proveniente da Écone. Mi guardai bene dal fare un sola domanda sui motivi del loro abbandono del ben noto Seminario lefebvriano: fossero transfughi o espulsi, non cambiava le carte in tavola: due esseri umani da aiutare. Così feci, con tutt’i miei limiti, ma con sincerità. Ricordo d’averli portati pure a pranzo insieme. Quanto a Cantoni, anche dopo l’adempimento accademico, lo rivedevo quando ritornava a Roma, m’interessavo alla sua vicenda, mi compiacevo nel costatare il graduale assestarsi della sua situazione. Ho tra i miei ricordi che fu parroco, insegnante e responsabile del Seminario interregionale, fondatore d’un’opera mariana, e varie altre cose. Lo rividi una decina d’anni or sono in un comune del pisano (Fauglia) per un incontro mariano: fu una gioia enorme passare qualche ora insieme, ascoltarlo, ma soprattutto costatare il seguito che riscuoteva da parte di numerosi giovani, di sacerdoti, del Vescovo presente. Tutto confermava il mio giudizio di persona d’altissima intelligenza ed ottima preparazione teologica, lodevolmente impegnata nel servizio ecclesiale. Quando incominciò a mandarmi richieste d’aiuto per la sua opera mariana, sia pur con la consapevolezza della mosca che tira il calcio che può, non me lo feci ripetere. Ora capisci da te perché “non me l’aspettavo”.
D – Certo che capisco. Ma voglio immaginare che non ci sia stato un ribaltamento di posizioni improvviso ed imprevisto. Possibile che non abbia mai intuito qualche discrepanza, qualche riserva, qualche eccezione?
R – Mai, perché mai me ne aveva manifestato neanche un piccolo sintomo. In ultim’analisi, però, non è questo il punto. Dante, di cui tu porti il nome e che conosci molto meglio di me per la tua specializzazione letteraria, direbbe: “…e ’l modo ancor m’offende” (I, 5, 102). I precedenti ai quali ho fatto un sommario riferimento avrebbero consigliato a chiunque, prima di prender la clava in mano e scagliarmela addosso, di sentirmi, di chieder chiarimenti, di contestarmi, riservando un eventuale attacco a dopo che le mie risposte non l’avessero soddisfatto. Ha fatto esattamente il contrario. Contraddetto, peraltro, dal suo collega austriaco che, all’oscuro di tutto, poco prima che la bomba esplodesse, mi scrisse: “E’ un grande onore l’essere stato suo discepolo”.
D – Che si senta offeso dal modo è comprensibile, ma immagino che abbia anche qualche cosa da eccepire nel merito.
R – Sì, e non poco. Se dovessi risponder puntualmente a tutto quanto mi vien rimproverato sia attraverso labussolaquotidiana ed altri siti, sia soprattutto con un intero volume scritto nel modo dottorale e definitorio del “so io ogni cosa e zitti tutti”, dovrei venir meno all’impegno assunto con una pubblicazione che uscirà a marzo 2012 per i tipi di Lindau, nella quale dichiaro che quello è il mio ultimo intervento sul Vaticano II: quanto, infatti, dovevo e volevo dire, l’ho detto; ho avuto riscontri sulla serietà della mia iniziativa da varie e non poche parti; ciò mi basta. Risponderò, dunque, soprattutto per chiarire l’equivoco nel quale don Cantoni è caduto e nel quale potrebbero cader i suoi lettori. Contrapponendo alcuni miei giudizi di oggi ad altri di ieri, o viceversa, egli dimostra la mia doppiezza e la mia contraddittorietà. E’, questa, una conclusione estremamente superficiale; ma potrebb’esser pure estremamente cattiva.
Ogni persona umana, infatti, è in un ininterrotto processo di maturazione. Ho detto altrove che solo le cariatidi non s’evolvono. Ieri ero quello che sono oggi e che sarò domani, ma non allo stesso modo né allo stesso livello di maturazione. Quello che oggi percepisco restava in ombra, o forse era del tutto inavvertito, ieri. E’ avvenuto in me quello che avviene in tutti: è maturata l’età, si son avvicendati impegni e responsabilità che lascian il segno, l’esperienza tocca oggi livelli ieri nemmeno intuiti. Nessuna meraviglia se il giudizio d’ieri non collima, o in parte o in tutto, con quello d’oggi; l’importante è che quello d’oggi indichi i motivi per cui non ripete quello d’ieri. E’ importante, cioè, la fondazione. Dalla quale si potrà sempre dissentire, sempre però riconoscendo la serietà del procedimento fondativo. E’ superficiale il critico che non ne tien conto, ma è cattivo quello che ne fa la premessa per giustificare la conclusione con cui m’addita alla pubblica esecrazione: è un doppiogiochista, è in contraddizione con se stesso. E detta così, sarebbe quasi una carezza, la realtà essendo ben altra.
Oltre alla maturazione, c’è una ragione anche più determinante che non sfiora nemmeno l’anticamera del mio accusatore: da una parte, la “missio canonica” per la quale ero “mandato” ad insegnare la dottrina della Chiesa, non le mie idee; dall’altra, la necessità di non turbare la coscienza della personalità “in fieri” d’ogni mio discepolo. Ebbi la mia bella crisi, che superai solo perché un eminentissimo personaggio e il mio direttore spirituale mi dissero di non abbandonar il mio posto, ma di continuare l’insegnamento con opportune precisazioni, se del caso, tratte dall’ininterrotta Tradizione della Chiesa su quei punti che mi fossero apparsi meritevoli di precisazioni siffatte. E tutt’i miei alunni sanno quanti puntini sulle “i” ho messo: sul “subsistit in” che, invece di condannare come non pochi facevano, giustificai sul piano metafisico; sulla collegialità dei vescovi, ricondotta nell’alveo del primato petrino mentre tutti ne facevano un organo di governo accanto ed analogo a quello del Papa; sull’ecumenismo per strapparlo all’alea del dialogo fine a se stesso e ricondurlo nella sfera dell’ “Unam sanctam”, e così via dicendo.
D – Quindi, Lei afferma che la Sua posizione critica nei confronti del Vaticano II non è di data recente.
R – Sicuramente. Pur non essendo ufficialmente un “perito”, seguivo giornalmente i lavori conciliari come uomo di fiducia (insieme con un collega dell’allora Congregazione dei Seminari e delle Università degli studi, Mons. R. Pozzi) di S. E. Mons. D. Staffa e gl’interrogativi s’affacciavano e crescevano durante gli stessi lavori conciliari. Posso rivelare a questo riguardo che, qualche tempo dopo, un’alta personalità dell’allora sant’Uffizio e pochi anni dopo il suo successore, oltretutto mio conterraneo, mi convocarono per chiedermi se fosse vero che criticassi il Vaticano II. Al primo risposi che insegnavo ciò ch’egli stesso aveva insegnato a me; al secondo ed al suo invito alla prudenza per non compromettere il mio domani, risposi che dovevo risponder al presente della mia coscienza e che l’unico mio domani era quello di Dio. E già allora sostenevo ciò che ho sostenuto oggi: che il Vaticano II è un autentico e legittimo Concilio ecumenico, il più grande dei 20 che l’han preceduto, con un suo magistero supremo e solenne, ancorché non dogmatico, ma pastorale, e con non pochi interrogativi sulla sua continuità con la Tradizione di sempre.
D – Ma, tutto sommato, di che cosa viene oggi accusato?
R – Un po’ di tutto, dalla disinformazione alla contraddittorietà, dal non aver capito il Concilio alla volontaria manomissione del suo insegnamento, e di questo passo s’arriva fino alla conclusione del “formalmente eretico”.
Mi si dice che ignoro le ripetute asserzioni conciliari di continuità con la grande Tradizione ecclesiale; non è vero, ho detto soltanto che altro è una declamazione ed altro una dimostrazione. E questa, fin ad oggi, è mancata. Mi s’accusa di non conoscere, o non riconoscere, la Tradizione/soggetto, là dove ho solo rilevato, con i grandi storici del dogma e della Tradizione stessa, che questo è solo uno sviluppo della teologia moderna e che, comunque, la Tradizione soggettiva resta costitutivamente legata a quella oggettiva, dalla quale non può allontanarsi né d’un apice né d’un iota; può solo approfondire illustrare precisare senza apporti sostanziali e solo nella linea d’uno sviluppo omogeneo. Si dice equivoca, per questo, la mia posizione sul Magistero vivente della Chiesa, come se ad impedirne la capacità e possibilità d’intervento oltre il limite d’una novità omogenea fossi io e non Gv 14,26 e 16,13-14, nonché il cap. IV dell’ “Æterrni Patris” del Vaticano I. Si ha anzi il coraggio d’appellarsi al Lerinense e al beato Newman la cui dottrina sul progresso dogmatico è quella appena accennata. Si prendon poi, uno ad uno, i testi conciliari che ho criticamente analizzato per negarne la mia interpretazione, con ragionamenti che non stanno né in cielo né in terra. P. es., il famoso GS 22/c (“con l’incarnazione il Figlio di Dio s’unì in certo modo ad ogni uomo”) non dichiarerebbe, sia pur “quodammodo”, il Figlio di Dio unito ad ogni persona, ma alla natura umana d’ogni persona: bel modo di svicolare da una difficoltà, come se il testo non dicesse “cum omni homine” e non chiudesse in tal modo lo spazio ad interpretazioni di comodo: “ogni uomo” è ogni persona umana, il supposito, il soggetto, non la sua natura. Mi si dà sulla voce anche per le mie analisi di DH: chissà se, leggendo domani il libro che ho prima annunciato, nel quale dimostro la non corrispondenza di non poche citazioni bibliche ai testi di DH e di NÆ, ch’esse dovrebbero suffragare, non si ricreda anche un don Cantoni.
Non dico nulla sul giudizio, almeno implicito, ch’egli dà della mia produzione scientifica, di cui sembra degnare d’una qualche considerazione solo quella d’indole ecumenica, perché dovrei parlare di me e non della mia posizione dinanzi al Vaticano II, ch’è invece il vero tema. Può darsi, inoltre, che abbia ragione il mio oppositore a definire involuta, oscura ed ambigua la mia scrittura; perché dovrei preoccuparmene più di tanto, dal momento che son infinitamente più numerosi coloro che mi lodano del contrario? A proposito di lode, non mi son mai lodato d’appartenere alla gloriosa Scuola Romana, come dichiara don Cantoni, pur essendo grato a chi in essa mi riconosce. No, su me in quanto me, “ne verbum quidem”.
Aggiungo un’osservazione. Nella storia il “conciliarismo” è conosciuto come l’eresia che sottomette il Papa al Concilio ecumenico; nel sottotitolo del libro che mi tartassa, Cantoni scrive: “riflessioni sul Vaticano II e sull’anticonciliarismo”, ovviamente pensando a me come “anticonciliarista”. Stando all’accennato significato storico della parola “conciliarismo”, son fiero d’essere “anticonciliarista”.
D – Caro don Brunero, mi pare che un quadro come quello che ha descritto meriti molto più d’una semplice intervista. E’ proprio dell’avviso di non volerci rimetter le mani sopra?
R – Sì, caro Dante. Spero che altri portino avanti il discorso iniziato. Gl’indizi non mancano. Son già in cantiere due congressi per il cinquantenario del Vaticano II: l’uno, nel 2012 per celebrar i cinquant’anni dall’inizio e l’altro per il 2015 per i cinquant’anni dalla fine. Chissà che non sia l’occasione buona per rimetter in sesto una situazione che, sotto l’azione della famigerata volgata, s’è ammalata d’elefantiasi, fin a fare del Vaticano II o l’unico Concilio della Chiesa, o la sintesi del magistero ecclesiale di tutti gli altri. Io ho fiducia. Se è vero, come sembra, che già si comincia a concedere d’interpretare “con libertà” qualche dichiarazione conciliare, vuol dire che siamo sulla strada buona e ne ringrazio il buon Dio. Così come ringrazio te, per la tua intervista.
D – No, sono io che ringrazio Lei per avermela concessa.
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