Nel mistero delle dodici notti sante l’anima si prepara alla rivelazione dell’Essere
di Francesco Lamendola - 23/12/2011 «Epifania», dal greco, significa «manifestazione»; e, se nel linguaggio cristiano designa il riconoscimento e l’adorazione di Gesù Bambino da parte dei Magi, più in generale essa indica la manifestazione di ciò che è nascosto, e ciò sia in un contesto di tipo religioso, sia nella dimensione della vita profana.
«La dodicesima notte» è anche il titolo di quella che, a giudizio di molti critici, è la più perfetta commedia di Shakespeare (titolo originale: «Twelfh Night»; sottotitolo: «Quel che volete», «What You Will»), il cui titolo ha fatto letteralmente impazzire generazioni di studiosi dell’opera shakespeariana: che relazione vi è tra esso e il contenuto della commedia stessa, anche considerato che questa pare sia stata rappresentata proprio il giorno dell’Epifania del 1601?
L’interpretazione più largamente accettata è che la notte dell’Epifania, cioè la dodicesima notte dopo quella del Natale, non abbia alcun significato in senso religioso; ma che l’epifania, intesa nel senso profano, alluda alla sarabanda di avvenimenti inconsueti, imprevisti e imprevedibili, che caratterizzano l‘azione scenica.
Tempeste, separazioni, scambi di persona, situazioni erotiche ambigue (una ragazza che si traveste da paggio e che, in tale veste, suscita la passione irrefrenabile di una gentildonna, a sua volta amata dal padrone della ragazza), agnizioni (la ragazza e il suo fratello gemello si ritrovano, dopo essersi creduti morti l’uno per l’altra), buffonate intrise di saggezza e saggezza che degenera in follia, inganni, macchinazioni e tradimenti: tutto corre allegramente, come una perfetta macchina teatrale, verso lo scioglimento finale, dove ogni cosa torna al suo posto e si risolve nell’immancabile, ma non banale, “happy end” della riconciliazione conclusiva.
Eppure, per noi Europei del terzo millennio, nonostante la concezione laica e immanente del teatro di Shakespeare e il suo impatto sul pubblico da quattro secoli a questa parte, la notte dell’Epifania rimane essenzialmente quella cristiana, con l’immagine dei tre misteriosi personaggi venuti dal lontano Oriente per adorare il Salvatore del mondo ancora avvolto nelle fasce, e con quella particolare atmosfera di sospensione, di trepidante attesa, che sa di infanzia e che ha il profumo inconfondibile delle cose antiche, da sempre sapute ma non del tutto spiegabili razionalmente.
Noi sentiamo che in quella notte, così come nelle undici notti precedenti, si consuma un grande mistero; sentiamo che il tempo sembra fermarsi, forse anche per il fenomeno astronomico del solstizio d’inverno che, appunto poco prima del Natale, pone fine al progressivo, inesorabile accorciarsi del dì e segna l’inizio del lento, dapprima quasi impercettibile, allungarsi delle ore quotidiane di luce.
Sentiamo che, in quelle dodici notti colme di stupore, qualche cosa di grandioso accade nel mondo della natura, e anche al di sopra di esso; che un evento indicibile, inesprimibile, ineffabile, aleggia su ogni cosa e pervade l’atmosfera con il suo alito impalpabile, avvolgendo noi e tutto il creato in una dimensione sacrale.
Esistono delle tradizioni popolari, diffuse specialmente nell’Europa centrale, secondo le quali, nelle dodici notti sante, la natura si rivela agli uomini in una maniera assolutamente nuova e misteriosa, dopo che il ciclo vitale, a partire dalla notte di San Giovanni (24 giugno), è giunto nella sua fase cruciale, mentre l’autunno non è che la preparazione graduale a quella pienezza finale; si dice anche che gli animali, le piante e persino le pietre non rimangano estranei a questo soffio di vita segreta, il quale percorre come un fremito tutta la creazione.
Si sa inoltre che, in numerose tradizioni iniziatiche, dodici è un numero magico, che indica il ritorno al punto di partenza e il completamento di un ciclo cosmico, così come i dodici mesi dell’anno scandiscono l’orbita della Terra nello spazio intorno al Sole.
Herbert Hahn, professore, conferenziere e saggista del circolo antroposofico, così esprimeva questo concetto in forma di piccola leggenda (in: H. Hahn, «Pedagogia e religione. La sorgente delle forze dell’anima»; titolo originale: «Von den Quellkräften der Seele», 1948; traduzione italiana di Mario Tabet, Filadelfia Editore, Milano,1974, pp. 71-72):
«Chi si inoltra in un bosco nella notte di San Giovanni può incontrare in luoghi determinati delle grosse pietre, massi erratici caduti in epoche preistoriche o macigni abbandonati lì dopo essere stati estratti dalle cave. Essi giacciono, immobili e pesanti, e non possono raccontare alla gente ciò che provano durante i mesi freddi dell’inverno o nell’afa estiva. Neppure tra loro possono parlare. Solo una volta all’anno lo possono fare, nella notte di S. Giovanni. Se arriviamo in uno di questi luoghi non avendo mentito neppure una volta nell’ultima settimana, potremo intendere le parole sussurrate dalle pietre e ne saremo tanto commossi da non potere ripetere a nessuno ciò che abbiamo udito.
Chi attraversa il bosco in autunno, nel silenzio rotto solo dal fruscio delle foglie secche, tra gli alberi ormai spogli, potrà sentire, nell’attimo in cui cade l’ultima foglia, che l’albero comincia a tremare sommessamente lungo il tronco e a dire una parola. Chi ode questa parola sa che essa è sacra e la chiuderà nel suo cuore senza poterla comunicare a nessuno.
Ed ora ascoltiamo gli uccelli di passo: ciò che essi dicono durante l’estate fischiando e cinguettando è bello, rallegrante ed esaltante. Ma la parola sacra, il grande mistero non vive in quel canto, gli uccelli non lo conoscono ancora e lo apprenderanno soltanto in autunno quando si solleveranno per il grande volo verso il sud. Allora essi grideranno giubilanti, scomparendo in lontananza.
Ed ecco che arriva dicembre, il mese che porta l’inverno e il Natale. L’uomo si accosta al presepio sotto le luci radiose dell’albero. Quando, la vigilia di Natale, vedrà il sorriso di Gesù Bambino e udrà il canto di gloria degli angeli, allora finalmente sarà in grado di esprimere ciò che le pietre, le piante e gli animali avevano detto.
Si erano rallegrati per la nascita del Bambino nella scura notte invernale: LE PIETRE A SAN GIOVANNI, LE PIANTE IN AUTUNNO, GLI ANIMALI NEL TARDO AUTUNNO.
Se le pietre, le piante e gi animali hanno bisogno di tanto tempo per prepararsi alla gioia della notte santa, anche voi, cari bambini, non dovete farvi cogliere impreparati. Condividete l’attesa con le pietre, a S. Giovanni, con le piante, in autunno, con gli animali nel tardo autunno e pensate al Bambino che verrà nella notte di Natale; accoglietelo non solo per voi ma anche per la pietra, per la pianta e per l’animale.»
In questa pagina di prosa vi è un concetto importante, che merita una riflessione: nel corso dell’anno solare vi sono dei momenti “magici”, di cui non vi è traccia nel calendario profano e nell’agenda di chi misura il tempo solamente in base alle scadenze lavorative, espressione di una logica di tipo economico.
Le recenti mode New Age, con tutto il loro ciarpame lezioso e confusionario di matrice più o meno dichiaratamente neopagana, hanno riportato in auge questo concetto, ma piegandolo alla loro logica, che è una logica esteriore, frequentemente mescolata a interessi economici ben precisi: le cosiddette tradizioni del New Age trovano la loro realizzazione in oggetti che si vendono bene, tant’è vero che un giro industriale e commerciale miliardario ruota intorno ad esse.
L’umanità ha sempre saputo che esistono dei momenti del giorno, e dei giorni (o delle notti) dell’anno, nei quali, a determinate condizioni, prime delle quali la purezza di spirito e l’apertura coscienziale - e non semplicemente praticando un rito a sfondo consumista, come avviene appunto nella “liturgia” New Age -, si apre una fessura nella gabbia spazio-temporale in cui siamo rinchiusi e ci è dato intravedere, con timore e tremore, qualche scintilla o frammento del grande mistero cosmico, di cui siamo parte integrante e non osservatori esterni e distaccati, come vorrebbe il modello conoscitivo del paradigma scientifico moderno, da Galilei e Cartesio ai nostri giorni.
Allo stesso modo, esistono dei luoghi “magici”, ossia dei luoghi nei quali, sempre a ben precise condizioni, è possibile che si sollevi il velo della realtà esteriore, condizionata, contingente - il “fenomeno”, nel linguaggio kantiano - e si verifichi l’epifania della “cosa in sé”, del Noumeno: il cuore vivo del reale, che palpita al di sotto della superficie.
Lasciando ora da parte questo secondo aspetto, ossia quello spaziale, e tornando alla dimensione temporale, l’”homo religiosus” - ossia l’uomo quale è stato per migliaia e migliaia d’anni, prima della modernità - ha sempre avuto la consapevolezza che esiste una fondamentale distinzione fra tempo profano e tempo sacro, l’ha sempre presa estremamente sul serio e ha sempre uniformato i suoi ritmi, il suo lavoro, il suo modo di porsi nei confronti della natura, in base a tale consapevolezza, che non è di ordine razionale, ma sovra-razionale.
Le dodici notti sante fra il Natale e l’Epifania sono il momento sacro per eccellenza e un concetto simile era già presente nell’antichità pagana: basti pensare ai Saturnali, che duravano dal 17 al 23 dicembre (calendario stabilito dal’imperatore Domiziano), ma sopratutto al Dies Natalis Solis Invicti, il giorno della nascita del Sole Invitto, il cui tempio venne consacrato dall’imperatore Aureliano il 25 dicembre del 274. E si tenga presente che la festa del dio d’origine persiana Mithra, connessa, attraverso una serie di passaggi di natura sincretista, con il culto di Dioniso, veniva celebrata in Oriente la notte del 24 dicembre, la vigilia del Natale cristiano.
La fusione delle tre tradizioni- solare, mitraica e cristiana - si deve a Costantino; vale peraltro la pena di ricordare che nei Paesi cristiani ortodossi, che seguono tuttora il calendario giuliano, la nascita del Signore viene celebrata il giorno stesso dell’Epifania, per la differenza di tredici giorni che intercorre rispetto al calendario gregoriano.
Al di là del fatto che la decisione di Costantino fu dettata certamente da ragioni politiche e cioè da una voluta ambiguità fra la solennità principale del culto del Sole Invitto e quella dei seguaci di Gesù Cristo, resta il fatto che il periodo compreso fra il solstizio d’inverno e la prima settimana di gennaio (che, nell’antico calendario romano di Romolo, non era il primo mese dell’anno, poiché il primo era marzo) è stato considerato dai nostri antichi progenitori, da tempi immemorabili, un periodo sacro, legato al mistero della morte e della rinascita e, quindi, al ciclo eternamente rinnovantesi delle forze vitali in seno alla natura.
Il cristianesimo, però, non è una religione naturalistica; esso non divinizza la natura e le sue forze, ma riconduce tutto ciò che esiste al disegno sapiente e benevolo di un Dio che si prende cura di ogni singola creatura vivente, e che per ciascuna ha preparato, fin da prima che il mondo cominciasse a esistere, un percorso dalla tenebra verso la luce, dalla fugacità del relativo alla pienezza dell’Assoluto.
Per quel frammento della vita universale che è rappresentato dalla creatura umana, ma forse - come suggerisce Herbert Hahn - anche per altre creature viventi e non viventi (ammesso che nel cosmo vi sia realmente qualche cosa di totalmente inerte, il che è molto dubbio), il periodo corrispondente alle dodici notti sante riveste, in questa luce, un significato particolare, nel quale le forze della natura non vengono, come semplicisticamente talora si afferma, sminuite o disprezzate e tanto demo desacralizzate, ma piuttosto ricondotte al loro legame originario e necessario con la Fonte luminosa e inesauribile da cui tutte derivano.
E quel significato particolare è che, nella dimensione della storia, si verifica un evento inaudito, inconcepibile, che è al di sopra della storia; e che nell’ambito della natura si manifesta una realtà che non appartiene alla natura, ma che sta al di là di essa: una apertura della gabbia spazio-temporale non operata dall’uomo, e perciò fuggevole e quasi casuale, ma operata dall’Essere che è all’origine di tutto.
Certo: nei rari momenti in cui l’uomo riesce a domare il proprio io, abbandonandosi al flusso della vita cosmica, la prigione si apre ed egli intravede l’unità originaria con il Tutto; salvo poi ritrarsene spaventato, per il timore di “perdersi”, che è, semplicemente, attaccamento compulsivo alle cose e la forma mentale da cui nasce la tendenza aggressiva, delirante della scienza moderna.
Perché l’uomo, da solo, non riesce ad accogliere la semplice verità che egli e il Tutto sono una cosa sola; perciò ha bisogno che ciò gli venga manifestato, nel trepido mistero delle dodici notti sante.
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