ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 2 dicembre 2011

QUELLE IDIOSINCRASIE DEL GIRO MONTINIANO

Certe idiosincrasie del giro montiniano. Il card. Pellegrino: carriera di un mancato senatore.


QUELLE IDIOSINCRASIE DEL GIRO MONTINIANO
Carriera di un mancato senatore:
Michele Pellegrino, cardinale di Torino, rosso fuori e dentro.
Il card.Pellegrino col vescovo rivoluzionario brasiliano Camara
Il mondo di Montini e Pellegrino: il catto-democraticismo. Il gesto brutto di Paolo VI verso suor Lucia. Quel “marianesimo” così antiestetico per i raffinati montiniani. La Torino dove il fedele divenne “operaio” e l’altare “strada”. Rosso fuori e dentro: il card. Pellegrino fa della porpora gonne “rosso cardinale”.

E anche su quelle storie “marianocentriche” così come sulle profezie, i luoghi potenti del marianesimo e la povera suor Lucia, sul “devozionismo”, su tutte queste cose aveva le sue se non conclamate almeno sottocutanee orticarie, Paolo. Inutile, non era questo l’ambiente, la sensibilità, il mondo intellettuale di Paolo VI, non c’è niente da fare! Gli erano estranee queste cose, e non le capiva davvero, né aveva la disponibilità a capirle oltre quel certo limite che la sua formazione culturale gli imponeva. Così si spiega quel gesto “brutto” di Paolo VI verso suor Lucia…


di Antonio Margheriti Mastino

 IL MONDO DI MONTINI E PELLEGRINO: IL CATTO-DEMOCRATICISMO
Pellegrino fra ragazzi anni '70. Una tara del progressismo: il giovanilismo
Michele Pellegrino fu il cardinale di Torino negli anni epocali della “rottura” dopo il concilio, “rottura” da nessuno proclamata men che meno dall’Assise, ma di fatto nella vulgata dichiata non si sa bene da chi e perchè, e creduta, sistematicizzata persino in “ermeneutica della discontinuità”. Un’eresia orrenda, praticamente, che accolta (come da amplissimo clero, superficiale modaiolo e ideologizzato, è stata accolta), è negazione dell’intera natura della Chiesa: dopodiché sarebbe evaporata la sua essenza apostolica, trasmutando la Chiesa in un’assemblea parlamentare qualsiasi.
Pellegrino, dunque. Le sue predilezioni erano fin troppo note. Ed erano le stesse di Paolo VI, che come lui dal mondo catto-democratico veniva, e tutto ne era invaso e saturo. E amò sino a tal punto quell’ambiente da raggiungere, giunto al termine della sua corsa, il parossismo estremo nel caso drammatico del sequestro dell’ “amico, buono, innocente, giusto” Aldo Moro; sino a scegliere, lui, il Papa, capo della Chiesa universale, la prima linea nelle trattative per la liberazione del leader DC. Mi convinco sempre più che Paolo VI soltanto per opera dello Spirito Santo fece, disse e scrisse le cose che disse e scrisse, cose da papa, come per esempio la Humanae Vitae, e lo fece nel momento meno propizio per la mondanità, serenamente, giocandosi tutto, anche l’applauso del mondo, e questo basta per togliersi tanto di cappello dinanzi a lui; perchè, diversamente, avesse dovuto attingere solo alla sua formazione e ai suoi gusti avrebbe detto, fatto e scritto tutt’altro. Di qui l’amarezza e l’ira funesta dei suoi antichi “amici”, al varo di quell’enciclica che era la voce di Dio stesso, e che da allora gli fecero guerriglia, Paolo restando inerte, sorpreso, addolorato. Ma sereno. Tradito, ma fino a un certo punto: quelli andavano verso lo sbocco naturale delle loro insane teorie: chi mancava all’appello era Paolo, non gli “amici”, e gli amici degli “amici”.
Michele Pellegrino era quel tipo di personaggio, come SuenensGiulio BevilacquaLercaro… che era in tutto congeniale a Paolo VI: è sotto il suo pontificato, ad esempio, che ci fu la più grossa e nefasta infornata di vescovi ultraprogressisti, maggiormente concentrata laddove c’erano stati regimi a suo parere (conclamato antifascista per tradizione di famiglia e per partito preso, e ancora per affinità ideologica e di “sensibilità”) più o meno “fascisti”, più o meno con qualche connivenza ecclesistica, come in Spagna, e si sa che i suoi accapigliamenti col Generalissimo erano cominciati da prima che Montini fosse persino arcivescovo. Franco lo detestava, ricambiato abbondantemente da Montini. A Francisco Franco ancora regnante, da Paolo giunse la direttiva al primate di SpagnaTarancon, perchè si avviasse lo “sganciamento” dal regime delle gerarchie spagnole, e al suo prefetto dei vescovi e nunzio fece giungere il bigliettino in cui diceva, occhio e croce, “d’ora in poi, per la Spagna si scelgano solo candidati all’episcopato progressisti”. I risultati ultimi poi di queste infornate “progressiste”, catto-democratiche ai vertici delle diocesi, specie in Spagna, li abbiamo sotto gli occhi tutti.

IL “GESTO BRUTTO” DI PAOLO VI VERSO SUOR LUCIA
Paolo e Lucia a Fatima
In assoluta sintonia con l’entourage montiniano e di un po’ tutta quella che possiamo definire per sintesi “nouvelle theologie” (ossia: con tutto il pattume scaricato dalla Francia allora e riciclato a Roma), che stava incubandosi in quegli anni per esplodere a papa Pacelli morto, i tipi come Pellegrino avevano in uggia quel certo, magari “eccessivo”, “devozionismo” mariano. Pari pari come i protestanti, diciamo pure. Una “sensibilità” non del tutto estranea a Montini, per la verità. Penso a quel video di Paolo VI a Fatima, sarà stato il ’68, dove fa un gesto brutto nei confronti di suor Lucia, la quale gli si era avvicinata durante la cerimonia pubblica e, si vede chiarissimo sullo schermo, voleva confidare qualcosa al papa: presumibilmente sulle profezie mariane raccordate alla scatafascio della Chiesa di quegli anni di contestazione e all’ubriacatura filo-marxista delle teste d’uovo dell’accademia cattolica, per tacer della “Chiesa del Silenzio” decisa dall’ostpolitik. Papa che però fa quel gesto sgradevole, così inconsueto per quel suo stile civilissimo e mansueto con tutti: quasi l’allontana, e si capisce che dice “quelle cose le racconti pure al suo vescovo”. Così la liquida, lei, l’ultima grande Veggente. Oddio, carattere “mansueto” sino a un certo punto, quello di Paolo; tale era almeno finché non si sfioravano le corde di argomenti intoccabili per lui, o che fossero del tutto estranei al suo mondo intellettuale. Ecco, su Lefebvre, sulla liturgia, per fare un esempio, su questa roba era meglio non soffermarcisi con lui, qui perdeva l’equilibrio serafico; veniva fuori l’antico monsignor Montini, parziale e partigiano com’era sempre stato, protettore anche di quelle categorie politiche ed ecclesiali le più invise a Pio XII. “Protettore” di questi a costo di piccole disobbedienze quotidiane verso il suo papa, ma il gioco per lui valeva la candela; perchè certi tipi gli erano congeniali, spesso utili, soprattutto amici: fu il caso dei preti operai francesi negli anni ’50, condannati da Pio XII, e al contempo in segreto benedetti e, appunto, protetti dal sostituto Montini, che li invitò ad attendere “tempi migliori” per esprimersi pienamente (la morte di Pio XII). Cosa non si fa per gli “amici”… E Paolo con gli amici era condiscendente, così come era troppo poco guardingo nello sceglierseli: bastava la simpatia e la comunanza intellettuale, ambientale, come lasciapassare. E ne “passò” di gente!… molta della quale rischiò alla fine di “passare” dalle Sacre Stanze alle patrie galere: fu il caso di Marcinkus, per dirne uno, il più famigerato… e in realtà l’ultima ruota del carrozzone montiniano. Figurarsi le ruote motrici che potevano essere!

QUEL “MARIANESIMO” COSì ANTIESTETICO PER I RAFFINATI MONTINIANI
Il card. Montini
E anche su quelle storie “marianocentriche”, dicevamo, così come sulle profezie, i luoghi potenti del marianesimo e la povera suor Lucia, sul “devozionismo”, su tutte queste cose aveva le sue se non conclamate almeno sottocutanee orticarie, Paolo. Inutile, non era questo l’ambiente, la sensibilità, il mondo intellettuale di Paolo VI, non c’è niente da fare! Gli erano estranee queste cose, e non le capiva davvero, né aveva la disponibilità a capirle oltre quel certo limite che la sua formazione culturale gli imponeva. Così si spiega quel gesto “brutto” di Paolo VI verso suor Lucia. Non è neppure un caso che fra tutti i papi degli ultimi secoli, forse in questo appena appena accompagnato dal predecessore Giovanni XXIII, è quello che meno di tutti nelle sue omelie e nel suo magistero ha parlato della Madonna, e meno di tutti ha manifestato pubblica devozione mariana. Dico questo perchè anche Michele Pellegrino era di questa “sensibilità”, e alle stesse medesime “predilezioni” montiniane aggiungeva le stesse “idiosincrasie”. Premurandosi, nel suo caso, meno sofisticato e più naif di Paolo, di portarle alle estreme conseguenze. Ecco, la devozione mariana, era una delle “idiosincrasie”, sue come del suo entourage intellettuale, “idiosincrasia” che, incosciente e contenta, si trovava a suo agio, nello sfacelo e nell’anacronistico macchiettismo ideologico del clero anni ’70.
Non fu un caso dunque la scelta di Pellegrino a Torino, a succedere a quel cardinale Maurilio Fossati, mite e forte figura tipica dell’era rattiana prima e pacelliana poi. Non è un caso neppure che nella Torino operaia, già luccicante di sinistri bagliori brigatisti, capitale del laicismo fanatico, trombonesco e spocchioso spoltronato su tutte le sue cattedre da Bobbio (capo delle legioni trombonesche) in giù, persino il cattolicesimo fosse diventato sociologia e si muovesse per categorie marxiste nell’approccio sociale, dove, nell’anacronismo modaiolo dell’ecclesialese, il cristiano cessava di essere tale e diventava “salariato”, dove persino i preti erano “operai” ma non nella Vigna del Signore ma nelle anticamere dei partiti marxisti a mendicare benevolenza a costo di svendere tutto, l’individuo che solo interessava al Cristo diventava “massa”, il peccato individuale autoassolutorio e astratto (quando non in malafede politicizzato) “peccato sociale”, e la Giustizia di Dio giustizia politica e parolaia e, qui pure, secondo gli schemi marxisti (proprio mentre franavano ovunque li si era imposti: l’anacronismo clericale del quale si diceva), la carità barattata col sindacalismo, mentre pian piano la conversione veniva sostituita con la rivoluzione, per quanto dissimulata da parole melense e stucchevoli, alla De Amicis di 1°Maggio (ecco un altro prodotto eminentemente torinese), col suo socialismo declamatorio, romantico, bucolico, dalle lacrime di coccodrillo.

LA TORINO DOVE IL FEDELE DIVENNE “OPERAIO” E L’ALTARE “STRADA”
Una "frutto" dell'albero di Pellegrino: don Ciotti. La "strada" ha sostituito l'altare. Che poi a sua volta sarà soppiantata dal talk-show
Ebbene, in questo contesto Pellegrino fu anche quell’arcivescovo di Torino che scoraggiò in tutti i modi la devozione alla Madonna di Lourdes, in questo senso convincendo la Fiat a far cessare il consueto pellegrinaggio annuale dei suoi dipendenti: ci volle un Pellegrino per cessare il pellegrinaggio, che neppure gli operai organici al PCI avevano mai osato contestare. Questo per gli operai; per preti e preti-operai (i suoi prediletti), fu molto più risoluto: proibì espressamente ai sacerdoti di accompagnare gli operai in pellegrinaggio a Lourdes. E lo fece con parole che tuttora risultano agghiaccianti: “I preti e gli operai sono più utili alla società lavorando in fabbrica che andando in una grotta da una statua”. 
Perchè lo fece? Per le solite storie: “idiosincrasia”, “sensibilità”, e un buona dose di paraculismo dacaptatio benevolentie verso il “trionfante” comunismo operaista (pure qui, vedendoci doppio e sbagliando nel credere di scorgere unità e trionfo laddove c’era ormai lacerazione e resa dei conti post-ideologica e di lì a poco proiettili “amici”: ancora una volta, l’anacronismo dei preti che vogliono essere alla moda). È quello stesso Pellegrino che, in linea col giovane Giovan Battista Montini (che poi forse cambiò idea), sconsigliava infastidito l’uso dell’arma mariana per eccellenza: la recita del santo rosario. Un altro, sempre dell’entourage di cui sopra, era l’esecrabile figuro del prete-poeta (noioso, lagnoso e mediocre, e va da sé sopravvalutatissimo dall’editoria catto-democratica) padre David Maria Turoldo, altro “antifascista e partigiano” del giorno dopo perchè faceva tendenza dirsi tali all’epoca, che agonizzante, non dimenticò fino all’ultimo respiro da quale ambiente intellettuale provenisse e quali fossero le “idiosicrasie” di quel loro catto-democraticismo: stremato dal cancro al pancreas, quando intorno al suo letto di morte udì le parole del rosario, trovò la forza di sollevare la testa e di scacciare quanti osavano oltraggiarlo con simile “arcaica e inutile” forma di pietà, mariana oltretutto, così offensiva e infantile per quella sua raggiunta “maturità” intellettualistico-religiosa… post-cattolica.

CARRIERA DI UN MANCATO SENATORE DEMOCRISTIANO: DON PELLEGRINO IL “RESISTENTE”
Michele Pellegrino
Don Michele Pellegrino nel 1948 accettò la candidatura al senato per la Dc, oltretutto come “salvatore di un partigiano dalle mani dei fascisti” (qualunque cosa volesse dire), e solo l’intervento del Vaticano fece in modo che non se ne facesse nulla. Che la politica spicciola, quanto declamatoria e populista, fosse il suo humus naturale appena appena intinto nella Dottrina, lo si capì subito quando arrivò a Torino. E la prima cosa che egli stesso capì a Torino è che il diritto a “unirsi in un sindacato e di scioperare… è quanto dice la Dottrina”. Siamo alle solite: al “Cristo primo socialista”. Rosso fuori e dentro, questo cardinale, altro non era che l’espressione opportunamente edulcorata del vescovo da Teologia della Liberazione, proiettata in Italia: le molte visite ricambiate a Helder Camara, l’immondo alfiere della marxistizzazione della chiesa latino-americana, stanno a testimoniarlo. Le sue predilezioni pauperistiche in fatto liturgico e cerimoniale, tuttavia, risultano molto sospette se si pensa alla naturalezza e spontaneità con la quale già pregustava, lui monsignore, il laticlavio senatoriale. Ebbe naturalmente la prudenza di travestire italianamente, antesignano di Tonino Bello (il controverso e idolatrato vescovo più o meno comunista e umanitarista salentino, attuale celeste ispiratore di Nichi Vendola, già suo allievo) e di Walter Veltroni, la sua foga ideologica, il suo spirito parziale e partigiano di sdolcinatezze, di “pastore dei poveri”, buonismi, pietismi, “pasti caldi”, paternalismi, pauperismi sfoggioni, semplicismi, cornee donate a cadavere caldo, populismi un po’ barricaderi e un po’ conciliaristi… di lotta e di governo, strizzatine di tutte e due gli occhi alle frange più turbolente dell’operaismo ormai in quegli anni già moralmente confinanti col brigatismo, di “strada” tacitamente sostituita ad “altare”, di “fabbrica” lacrimosamente sostituita a “chiesa”, di “diritto” furtivamente sostituito a “fede”. Naturalmente non poteva che trovare la sintesi nella figura che fra tutte più è sua creatura legittima, e di tutte la più generatrice di confusione e mostri: IL PRETE OPERAIO, che sostenne in ogni modo. E non può che essere emblematico e naturale al contempo un’altra sua magagna: nel momento dei referendum su aborto e divorzio, proprio allora, solo allora, lui, il quasi-senatore, si sentì prete sino in fondo: da una parte fece sfoggio di premura pastorale ricordando l’importanza della “famiglia”, dall’altra, sibillinamente (ma neppure tanto, visto di chi parliamo) fece sapere ai suoi preti che la campagna elettorale la dovevano fare i laici, i preti se ne stessero zitti… manco a dire che fossero in gioco le centrali nucleari invece che la vita e la morte stessa, della quale il suo Dio era il padrone, come non si parlasse delle premesse per la dissoluzione di ciò che da sempre era stato indissolubile, per un prete quanto mai, cioè il primo nucleo della Chiesa, l’unione familiare. Ma era in corso anche nella testa del cardinale già la tacita “divinizzazione” dell’uomo e del suo contesto, l’antropocentrismo, l’antropolatria e quindi la dittatura delle “voglie” sulla stessa “natura”: l’antropofagia!

ROSSO FUORI E DENTRO. PELLEGRINO FA DELLA PORPORA GONNE “ROSSO CARDINALE”.
Pellegrino. L'ideologia pauperista.
Qui lasciamo la parola direttamente al neo-cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino. Altre parole non ne servono… ci mancano talora… e forse è meglio!
Nel 1967, al termine di un’udienza Paolo VI s’era mostrato, come al solito, altrettanto attento nell’ascoltare come fermo nel rispondere e nel decidere -così io almeno ho visto il proverbiale “Amleto”- mi aveva congedato con una domanda del tutto inaspettata: <se dovessi chiederle un sacrificio potrei contare su di lei?>. Lì per lì risposi soltanto: <Santità, ogni suo desiderio per me è un comando>.
Ma, tornando a casa, cominciai a domandarmi cosa mai volesse dire il papa con quelle parole. Arcivescovo da meno di un anno e mezzo, stavo studiando, con i miei collabarotori, il programma di lavoro […] E se Paolo VI volesse cambiarmi di posto? Nell’incertezza scrissi a mons.Dell’Acqua, Sostituto, per eventuali spiegazioni. Mi rispose: <Non si meraviglierà se al prossimo consistoro il santo padre intende nominarla cardinale. È suo desiderio che lei si sottometta alle cerimonie previste in questa circostanza>. Se si tratta di questo, dissi tra me, non ci sono grossi problemi. Pochi giorni dopo giunse dal Vaticano un incartamento con le “norme” relative ai cardinali: abitazione, mezzi di trasporto, guardaroba. Fu quest’ultimo articolo che mi mise in subbuglio: cappa e strascico, ferraiolone, vestito rosso e nero filettato di rosso, mantelletta, mozzetta, che a Roma (per rispetto al papa, mi dissero) doveva essere coperta dalla mantelletta fino alle ginocchia, scarpe rosse, calze rosse, cappello rosso con greca d’oro, e non ricordo altro; quanto all’anello e al tricorno d’ordinanza ci avrebbe pensato il papa.
Intanto i giornali commentavano: due milioni di spesa. Grossa esagerazione, che mi fece comodo: un parroco presso il quale avevo prestato un po’ di servizio per tredici anni, senza ricevere in compenso, perchè non l’avevo voluto, neppure un agnello, insistette perchè accettassi in dono due milioni. Spesi per l’occorrenza circa mezzo milione, e il resto andò in beneficio della diocesi.
Ma, ritornando all’incartamento, quando lo lessi, malgrado il mio proposito d’essere obbediente, rimasi quasi esterrefatto. Da Pianezza, telefonai a mons.Dell’Acqua: “Preghi, scongiuri il Santo Padre di alleggerire il guardaroba. La gente o ride o si scandalizza”. “Ma è già alleggerito”, rispose la voce del Sostituto, ed era vero. “Cosa vuole togliere ancora?”. “Per esempio -mi venne spontaneo di rispondere- la cappa con la coda”. La voce del Vaticano replicò: “Ma ce l’hanno anche i canonici!”. E da Pianezza: “Toglietela anche ai canonici!”. Di fatto pochi anni dopo gliela tolsero, ma non pare che proprio tutti i venerandi Capitoli, se ne siano accorti. La conversazione finì lì, ed io mi procurai quasi tutto il guardaroba regolarmente.
Non proprio tutto, a dire il vero. A un certo momento il cerimoniere (a ogni cardinale ne viene assegnato uno al momento della nomina) mi domandò: “E il cappello rosso ce l’ha?” Dovetti confessare che no. “Come farà quando va in macchina?”. “In macchina”, gli risposi, ignorando il cerimoniale, “ci salgo coi piedi, non col cappello”. Scontai il mio “peccato di omissione” quando, alcuni mesi dopo il consistoro, il comune di Fossano volle offrire un ricevimento ai suoi due cardinali. Il cardinale Beltrami, già mio prefetto e professore in seminario, aveva il cappello, e vi rinunciò per non farmi fare brutta figura.
Le scarpe rosse, usate forse una volta nella luna di miele, aspettano a Roma l’acquirente (allora le pagai 20.000 lire), custodite rispettosamente in una scatola di cartone. Il ferraiolone fu trasformato in una bella casula, il falso ermellino in un copriletto e le due mozzette in gonne. A una che la indossava le amiche espressero la loro ammirazione: “Che magnifico rosso cardinale!”. Spero la proprietaria non abbia violato il segreto.
Perchè, dimenticavo di dirlo, nel concistoro avvenuto due anni dopo tutti o quasi le mie strane pretese erano state accolte (ma chi avrà mai pensato che erano le mie pretese?).

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