La Chiesa cattolica sta andando a pezzi ma essi ridono e Bergoglio ride più di tutti: "dice che Gesù fa lo scemo che Gesù si è fatto diavolo e poi ride". Perciò ci domandiamo:"che cos'è che fa ridere tanto il signor Bergoglio?"
di Francesco Lamendola
A un osservatore anche distratto non sarà sfuggito che la cifra della neochiesa, e particolarmente del pontificato attuale, è la risata. Bergolio ride, ride continuamente; ride Sosa Abascal, quello che afferma di non credere all’esistenza del diavolo; ridono Paglia e Galantino, tutte le volte che parlano in pubblico, e specialmente quando s’incontrano fra di loro; ride James Martin, facendo le corna e le boccacce in televisione; ride il cardinale Marx, ride il cardinale Schönborn, quello che invita il transessuale Conchita Wurst nella cattedrale di Santo Stefano; ridono Antonio Spadaro, Antonio Rizzolo, Hans Küng, Walter Kasper. La Chiesa cattolica sta andando a pezzi, ma essi ridono; la fede si sta squagliando come nebbia al sole, ma loro ridono; il popolo cattolico è gettato dai suoi stessi pastori nella più grande confusione, nel turbamento, nell’amarezza, ma il riso non manca mai sulle loro labbra. Bergoglio ride più di tutti: si mette il naso da pagliaccio; si pone in capo il sombrero; va a trovare le suore di clausura e ride a gola spiegata, raccontando barzellette; parla a raffica, rilascia interviste, improvvisa dovunque e ride, ride sempre, con gli occhi lustri dalla soddisfazione, mentre i fotografi gli scattano un flash dietro l’altro, e la sua immagine ridanciana compare sulle copertine di tutti i giornali.
Dice che Gesù fa lo scemo, che Gesù si è fatto diavolo, e poi ride; Paglia fa affrescare il suo domo con un affresco blasfemo, e intanto ride; magnifica le qualità morali di Marco Pannella, e ride; e così Galantino: dice che Dio risparmiò Sodoma, e poi si mette a ridere. Ride il cardinale Tagle, quello che si fa fotografare, ridente, accanto ai transessuali con la maschera da porco; quello che insegna a Bergoglio come si fa il gesto delle corna davanti ai fedeli; non il segno della croce, il segno delle corna: e ridono, ridono a più non posso, più divertiti che mai, come fossero al circo, come fossero a uno show televisivo di quart’ordine. E tutti quanti a ridere con loro e a battere le mani: che clero simpatico, che papa allegro, che arcivescovi scherzosi e alla mano! E intanto Bergoglio dice ai ragazzi di svegliarsi, di stare attenti, di non credere alle fake news, e intanto fa rientrare alla grande monsignor Viganò, costretto a dimettersi per una colossale, sfrontata fake news; e ridono entrambi.
Si faccia attenzione: tutti costoro non sorridono, ma ridono: ridono a piena gola. Ridono strizzando gli occhi lustri, quasi con le lacrime per il troppo ridere. Ridono e si piegano in avanti, come si fa nelle tavolate alle feste per l’addio al celibato, sotto la raffica delle barzellette sporche. Qualcuno dirà che non c’è niente di male, che siamo i soliti ipercritici, perfino paranoici. Ma c’è una bella differenza fra sorridere e ridere; specie quando si ricopre un ruolo come quello di papa, cardinale o vescovo; specie quando si è nello svolgimento delle proprie funzioni; specie quando il momento che la Chiesa sta vivendo è serio, serissimo. C’è un tempo per ridere e un tempo per piangere, dice la saggezza della Bibbia. E ancora: i grandi Santi non ridevano, ma sapevano sorridere.San Pio da Pietrelcina non rideva; non rideva san Leopoldo Mandic; non ridevano i grandi papi dell’Otto e Novecento, Pio IX, Leone XIII, Pio X, Pio XI e Pio XII, anche se sapevano sorridere tutti, di un sorriso mite e gentile. Giovanni Paolo I? Nossignore: anche lui sorrideva, ma non rideva in quella maniera scomposta. Gesù rideva? Ne dubitiamo. Di certo sorrideva, perché sorridere è una espressione di benevolenza e di umana simpatia. Ma ridere, è un’altra cosa: è una cosa tutta umana, troppo umana; e ridere in continuazione, a gola spiegata, mentre le anime sono turbate, ha qualcosa di diabolico. Non si ride mai in maniera del tutto innocente: si ride sempre di qualcuno, si ride sempre alle spalle di qualche altro che si trova in svantaggio, che diviene oggetto di divertimento. Ne abbiamo già parlato, a suo tempo, in un apposito saggio, prendendo le mosse da una osservazione del critico Giovanni Antonio Cesareo a proposito dell’Inferno di Dante, dove i diavoli ridono sguaiatamente (cfr. Sulla natura del riso, pubblicato originariamente sulla rivista Alla Bottega, Milano, n. 5, 188, e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 27/03/2017). Sicuramente ridevano di Gesù Cristo i soldati romani mentre lo flagellavano nel pretorio, lo incoronavano di spine, lo percuotevano con una canna sulla testa, dopo averlo bendato; sicuramente ridevano quei Giudei che, mentre agonizzava sulla croce, gli dicevano: Tu che hai detto di saper distruggere e ricostruire il Tempio in tre giorni, salva te stesso! No, il riso non è mai una cosa del tutto innocente; si addice quasi sempre agli animi grossolani e alle situazioni sconvenienti; meno ancora è "pulito" quando esso si esplicita ai danni di qualcuno per il sollazzo degli altri. Infatti ridere di qualcuno è anche un'arma, un modo per ridicolizzarlo, per ridurlo al silenzio: una folla che ride di una persona è una folla crudele; e l'equivalente della risata in letteratura, cioè la satira, è uno strumento così tagliente, da poter distruggere qualsiasi avversario. Don Chisciotte subisce più volte l'oltraggio delle risate: l'atteggiamento degli altri lo riduce a uno strumento di divertimento, al rango di un pagliaccio. E il protagonista de L'uomo che ride, di Victor Hugo, è stato trasformato, da bambino, in una maschera mostruosa per strappare le risate del pubblico, mediante una orribile e spietata operazione di chirurgia facciale, che lo segnerà per tutta la vita. Perché la risata sia qualcosa di pulito, bisogna che sia come quella dei bambini: loro sì (e non sempre) son capaci di ridere senza malizia. Se un adulto sa ridere con la stessa innocenza di un bambino, allora la sua risata è una cosa buona; ma è piuttosto raro. San Giovanni Bosco, che viveva in mezzo ai ragazzi e che voleva sottrarli alla strada del male, attirandoli alla vita buona anche per mezzo del divertimento, senza dubbio sapeva ridere e soprattutto far ridere, ma di quella risata calda che fa bene al cuore.
Che cos'è che fa ridere tanto il signor Bergoglio?
Non stiamo dicendo che è male ridere; stiamo dicendo che il riso ha sovente qualcosa di cattivo, e che i massimi esponenti del clero, in pubblico, nella solennità dei loro uffici, farebbero meglio ad astenersene. Ha qualcosa di sconveniente, perfino di sgradevole. E lasciamo che Umberto Eco, nel suoi banale e inutile romanzo Il nome della rosa, ingiustamente celebre, se la prenda con la Chiesa brutta e oscurantista che vorrebbe proibire il riso: ci basta vedere tutte quelle risate sulla bocca del neoclero progressista e su quella dei suoi amici laici, il professor Riccadi, per esempio, o Enzo Bianchi (che è un laico, anche se pare vestito da prete e se qualcuno lo vorrebbe cardinale), o i vaticanisti insopportabilmente servili verso il signor Bergoglio, quelli che non si erano accorti della falsificazione della lettera di Benedetto XVI; ci basta vedere un tale spettacolo, perché tutto questo gran ridere ci venga in sospetto, e peggio. Non possiamo fare a meno di domandarci quale sia, o quali siano, le ragioni di tanta allegria, di un così diffuso buonumore; perché la crisi della Chiesa è sotto gli occhi di tutti, come pure la crisi dei valori morali che la Chiesa ha sempre difeso e sostenuto, nei quasi duemila anni della sua storia. Perciò ci domandiamo: che cos'è che fa ridere tanto il signor Bergoglio?L'umiliazione e il castigo inspiegabilmente inflitti ai Francescani e alle Francescane dell'Immacolata? Il fatto che il cardinale Caffarra sia morto senza aver avuto da lui un cenno di riscontro riguardo ai dubia su Amoris laetitia, né sulla richiesta di un colloquio privato col pontefice, lui e gli altri tre cardinali? Ci chiediamo: che cosa lo diverte tanto, cosa lo fa ridere continuamente? I dati statistici sul crollo del cattolicesimo nella sua America latina, che parlano di un quarto dei cattolici che hanno lasciato la Chiesa, negli ultimi anni, per aderire alle numerose sette protestanti? Lo sterminio dei cattolici nei Paesi ove agisce il terrorismo islamico, quel terrorismo islamico che lui non vuol sentire neanche nominare, avendo affermato che non esiste? Oppure lo diverte che un sacerdote, nel bel mezzo della messa di Natale, a Torino, si rifiuti di far recitare il Credo ai fedeli, dicendo che lui non ci crede? O che un altro, a Genova, abolisca la Messa natalizia per una forma di rispetto verso i migranti? Lo diverte che un altro prete, a Milwaukee, Stati Uniti, si dichiari omosessuale in chiesa, davanti ai suoi parrocchiani? O che un altro prete americano, il gesuita Martin, sostenga che molti santi erano gay? O che l'arcivescovo di Santiago abbia ordinato sacerdoti due omosessuali notori? O che il vescovo di Rodez, in Francia, ordini i nuovi sacerdoti al ritmo delle danze sacre del dio Siva, con tanto di balletto indù, davanti all'altare maggiore della sua cattedrale? Sono queste le cose che lo fanno ridere, che lo divertono? E se non sono queste, cosa lo spinge ad una ilarità così incontenibile, debordante, benché un osservatore anche mediocre vede bene che ride solo con la bocca, facendo le smorfie, ma gli occhi no, quelli non ridono affatto, quelli restano duri e freddi come il ghiaccio, con uno sguardo che fa paura? Perché nessuno ride senza una ragione; si ride sempre per qualcosa. Si può sorridere anche senza una ragione specifica, perché il sorriso è un atto di gratitudine verso la bellezza del mondo; ma la risata piena, quella deve avere un motivo definito. Ma qual è il motivo per cui Bergoglio ride e fa ridere le suore di un convento di clausura? Proviamo a riflettere. Una suora di clausura è una persona che ha fatto una scelta: una scelta radicale, che, giudicata dall’esterno, può piacere o non piacere, ma, se coerente, esige sempre, crediamo, un profondo rispetto: se non altro perché è una scelta ardua, controcorrente, una scelta di solitudine, raccoglimento, silenzio. Non si capisce perché una suora di clausura debba ridere; non si capisce perché qualcuno debba recarsi in convento per farla ridere. Ha pietà di lei, della sua solitudine, della sua esistenza nascosta e mortificata? E vuole darle cinque minuti di allegria, per alleviare la tristezza in cui la crede immersa? Se è così, costui non ha capito niente: non ha capito che, dal punto di vista della scelta che quella suora ha fatto, a esser meritevole di compassione è lui stesso, non lei. Lui è ancora avviluppato negli inganni del mondo, lei ha conquistato la libertà. E che cosa può aspettarsi una suora di clausura, dalla visita di un sacerdote, e, a maggior ragione, dalla visita del sommo pontefice? Di che cosa ha bisogno, una suora di clausura? Che il papa venga nel suo convento e si metta a raccontare barzellette? Oppure che la guardi negli occhi, che le rivolga parole di fede, speranza e carità; o magari che l'ascolti, che la faccia parlare, che le chieda se può dirle qualcosa di utile, se può chiarirle qualche dubbio? Ma Bergoglio, figuriamoci: i dubbi, lui, è specializzato nel suscitarli, non certo nel chiarirli. Che nessuno si azzardi a portare un dubbio di fede davanti al signor Bergoglio: si sentirà rispondere che non ci sono risposte, che nessuno ha la risposta, e che deve anzi diffidare di chiunque dica di averla.
E intanto ridono. Ma di cosa?
di Francesco Lamendola
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Che cosa vuol dire educare cristianamente i giovani? G.d.G. (Cattolica): il segreto di pulcinella che tutti conoscono ma di cui nessuno parla. Vale la pena di riempire le piazze, se il messaggio che passa è di "permissivismo" di Francesco Lamendola
Che cosa vuol dire educare cristianamente i giovani? G.d.G. (Cattolica): il segreto di pulcinella che tutti conoscono ma di cui nessuno parla. Vale la pena di riempire le piazze, se il messaggio che passa è di "permissivismo" di Francesco Lamendola
Che cosa vuol dire educare cristianamente i giovani? Che cosa vuol dire avvicinare i giovani al Vangelo? Ce lo domandiamo dopo che la Giornata Mondiale della Gioventù, nata da un’intuizione di Giovanni Paolo II, nel 1985, è giunta, con quella di Cracovia, appena conclusasi nella fine di luglio del 2016, alla sua trentunesima edizione. Specialmente nelle ultime edizioni, quella di Madrid del 2011 (quando c’era ancora il pontificato di Benedetto XVI), e quella di Rio de Janeiro del 2013, tenutasi sulla spiaggia di Copacabana, hanno registrato, sì, presenze massicce di ragazzi provenienti da ogni parte del mondo, ma anche, a nostro giudizio, spettacoli poco edificanti di confusione, eccitazione, disordine e promiscuità, che ricordano più il clima delle notti selvagge in discoteca o dei raduni spettacolari in occasione di concerti rock, che non quello che sarebbe lecito aspettarsi nel contesto di un evento di matrice specificamente e dichiaratamente cristiana e cattolica, sotto la supervisione dei vescovi e con la presenza Sommo Pontefice in persona.
Ci domandiamo: dov’erano i pastori del gregge, mentre non pochi di quei ragazzi si abbandonavano a comportamenti sconcertanti e tutt’altro che castigati, tutt’altro che spirituali, tutt’altro che in linea con la morale cattolica? Forse erano anch’essi troppo impegnati a ballare e cantare, come si è visto in Brasile, nella passata edizione, sguaiatamente e disordinatamente, sulla riva del mare, forse non troppo sobri? Forse si erano talmente infervorati nel clima quasi orgiastico delle grandi folle giovanili, da scordarsi completamente la loro precisa responsabilità di guide spirituali? Si dirà che ogni Paese ha le sue tradizioni e che non si poteva pretendere, nel Paese del Carnevale di Rio e della samba, che qualcosa di quella attitudine psicologica e culturale non filtrasse nel cuore di una manifestazione come la Giornata Mondiale della Gioventù. Benissimo. Ma, a parte il fatto che certe scene, poco coerenti con la purezza cristiana, si sono viste anche a Roma, a Toronto, a Colonia, a Sydney, e soprattutto a Madrid, resta la domanda: in che cosa si differenzia un raduno della gioventù cattolica da un qualsiasi evento mondano della cultura giovanile di massa? Che cos’è a fare la differenza, o cosa dovrebbe esserlo, se non, appunto, la capacità di autocontrollo, la sobrietà dello stile, e, più di ogni altra cosa, la forte connotazione in senso spirituale, grazie alle quali un estraneo dovrebbe percepire immediatamente, nella realtà delle cose, la differenza in questione? In altre parole: se non si notano differenze apprezzabili fra un disordinato raduno di musica rock ed uno della gioventù cattolica, che cosa dovrebbe indurre un giovane a riconoscere una diversa qualità del secondo rispetto al primo? E che cosa segnerebbe una diversità nella sua esperienza interiore, cosa gli offrirebbe un arricchimento spirituale, l’avervi partecipato?
Sappiamo benissimo che è molto difficile gestire in maniera ordinata eventi di quelle dimensioni. Quando centinaia di migliaia di ragazzi arrivano da ogni parte del mondo, nel caldo dell’estate, e hanno bisogno di tutto, di cibo e acqua fresca, di un luogo dove dormire, dell’accesso ai servizi igienici, è chiaro che ci si trova in presenza di problemi logistici, organizzativi e finanziari enormi, e che diventa arduo andare troppo per il sottile. Può darsi. Tuttavia, se le cose stanno così, ci domandiamo se il gioco vale la candela; se si tratta della formula giusta, della maniera appropriata per fare un discorso cristiano ai giovani, per attirarli alla bellezza e alla verità del Vangelo. Se la legge dei grandi numeri, inevitabilmente e salve restando la buona volontà e la retta intenzione di tutti, rende impossibile che si crei un clima ordinato e favorevole al raccoglimento interiore; se la promiscuità di tanti corpi accaldati e discinti, e la sollecitazione di tante spumeggianti energie adolescenziali, richiamano prepotentemente verso le brame di quaggiù, e non verso le cose di lassù – per usare il linguaggio dell’Apostolo -, ebbene, allora siamo sicuri che la Giornata Mondiale della Gioventù sia la risposta adatta al bisogno di evangelizzare i giovani e di aiutarli a riempire il loro vuoto spirituale, mediante l’annuncio della Rivelazione cristiana?
Gli organizzatori hanno calcolato che a Madrid, alla Messa conclusiva, la partecipazione sia stata dell’ordine dei 2 milioni di persone; a Rio de Janeiro, di circa 3 milioni, fra i quali 1.200 vescovi; a Cracovia, 2 milioni e 600 mila giovani. Quando si ha a che fare con simili numeri, nemmeno Superman riuscirebbe a tenere insieme le due cose: l’esuberanza giovanile e la spiritualità. Ne consegue che l’aspetto più importante e più caratterizzante dell’evento cattolico rischia di venire impietosamente surclassato da aspetti non solo secondari, ma, di per sé, decisamente estranei, se non addirittura contrari, alle finalità dell’evento stesso.
Parliamoci chiaro: senza voler essere maliziosi, e sforzandoci, anzi, di pensare bene di tutti, sappiamo con certezza, come lo sanno tutti quelli che lo vogliono sapere – è, infatti, il segreto di Pulcinella, che tutti conoscono ma di cui nessuno parla - che parecchi giovani frequentano tali eventi con l’obiettivo specifico di darsi alla pazza gioia e, se possibile, di rimediare qualche rapporto sessuale, più o meno fuggitivo; che non vi si recano affatto per delle motivazioni prettamente religiose, e tanto meno spirituali. Peraltro, non bisogna essere ipocriti e si deve avere l’onestà di riconoscere che tali atteggiamenti non nascono d’improvviso, ma partono da lontano. Un esempio fra tanti: nei campi dei boy-scout, organizzati a livello parrocchiale o diocesano, siamo proprio sicuri che molti giovani non pratichino comportamenti tutt’altro che conformi all’etica cristiana, e questo proprio sotto il naso degli istruttori e degli organizzatori, se non, addirittura, con la loro connivenza o con la loro diretta partecipazione? Siamo sicuri che preti indegni non abusino di simili occasioni per permettersi licenze sessuali con i giovani che, in teoria, sono stati affidati alla loro custodia spirituale? Lungi da noi voler fare delle accuse generiche e voler gettare fango nel mucchio; tuttavia, siamo direttamente a conoscenza – come, di certo, lo sono moltissimi altri – che simili cose avvengono. Lo sappiamo per certo e abbiamo la sensazione che lo sappiano bene anche quei pastori che dovrebbero vigilare sul gregge, nonché le famiglie interessate; ma che tutti, per mera ipocrisia, preferiscano girare la testa dall’altra parte.
L’educazione dei giovani, specialmente nella società moderna, impregnata di materialismo e di edonismo, è cosa particolarmente delicata; ancor più delicata è la loro educazione cristiana. Conosciamo benissimo le immense difficoltà che devono affrontare, ad esempio, i catechisti parrocchiali e gli animatori dei gruppi giovanili del’Azione Cattolica. Ciò, tuttavia, non può significare che gli educatori e gli operatori pastorali devono rassegnarsi a un tacito compromesso con l’andazzo del mondo. A cominciare dall’abbigliamento, che deve essere, perlomeno, decente, e dal linguaggio, che deve essere altrettanto civile ed educato, essi hanno il preciso dovere di pretendere che i ragazzi loro affidati si attengano a quelle norme sociali e morali che fanno parte integrante della proposta cristiana. Non si tratta di un optional, non sono cosette di nessun conto: l’abito, il più delle volte, fa il monaco. E fingere di non vedere, fare finta di nulla, è la stessa cosa che acconsentire. Lo sappiamo benissimo – torniamo a dirlo - che si tratta di un momento storicamente assai difficile: le stesse difficoltà fanno parte dell’esperienza di un normale insegnante statale, in una qualsiasi scuola italiana o europea. Solo che l’insegnante di unna scuola, se crede, può anche far finta di non vedere e di non sentire, almeno entro certi limiti; un operatore pastorale no, mai, per nessuna ragione, senza venir meno al proprio mandato morale.
Gira e rigira, si torna sempre lì: al nodo del Concilio Vaticano II e allo “stile” ecclesiale che, da allora, ha cominciato a prendere piede entro la comunità cattolica. Fino a che punto la volontà di dialogare con il mondo moderno, di andare incontro alla gente, di parlare un linguaggio che sia accessibile alla mentalità contemporanea, giustifica il compromesso, il cedimento, la rinuncia alle posizioni di principio che qualificano la Chiesa nella sua fedeltà al Vangelo? Alcuni storici dicono che fu colpa della rigidità dei papi se, nel XVII secolo, la Chiesa perse l’occasione di evangelizzare la Cina, dal momento che i gesuiti, adattando i riti cattolici alla mentalità di quel popolo e alle sue consuetudini religiose, stavano facendo breccia e stavano creando le basi per una effettiva cristianizzazione di quel Paese, a cominciare dalla corte imperiale di Pechino. E una vicenda simile ebbe luogo, quasi contemporaneamente, anche con le missioni dei gesuiti sulla costa del Malabar, in India (la cosiddetta questione dei riti malabarici). Probabilmente, invece, ebbe ragione la Chiesa di Roma, nella persona di Gregorio XV, ed ebbero ragione i domenicani, i quali avevano sollevato il problema: perché i gesuiti, così operando, avrebbero, sì, cristianizzato la Cina e l’India, ma al prezzo di sacrificare la purezza e l’integrità della Rivelazione cristiana. Non solo i Cinesi e gli Indiani avrebbero ricevuto il battesimo per mezzo di un “cattolicesimo” che non era veramente tale, bensì un sincretismo appena mascherato; ma, presto o tardi, l’ondata di ritorno sarebbe giunta in Europa, e anche i cattolici dei nostri Paesi avrebbero visto contaminata la purezza della Rivelazione con riti, usanze e mentalità che poco o nulla avevano di cristiano e di cattolico.
Ebbene, questo è precisamente quel che sta accadendo al cattolicesimo dei nostri giorni, anche e soprattutto in Europa; e, di nuovo, a pilotare questa “riforma”, che rischia di diventare un vero e proprio stravolgimento, vale a dire una apostasia dalla Verità cristiana, sono, ancora e sempre, i gesuiti. Non è un caso che il primo e l’unico papa gesuita della storia, Francesco (che non è, come alcuni istintivamente pensano, un francescano, ma un gesuita della vecchia scuola “diplomatica”, e sia pure molto influenzato dalla teologia della liberazione) si stia incessantemente adoperando per far passare, senza clamore, ma così, giorno per giorno, attraverso le sue omelie, le dichiarazioni, le interviste improvvisate, tutta una serie di cambiamenti che finiscono per modificare nella sostanza non solo la pastorale e la liturgia, ma proprio la stessa sostanza teologica e dottrinale del cattolicesimo.Valga per tutte l’esortazione apostolica Amoris laetitia, che, al di là della immensa confusione che ha provocato, in pratica equivale ad una revisione del concetto stesso di peccato: come se vi fossero peccati che cadono in prescrizione e che pertanto, dopo un certo numero di anni, richiedono una sanatoria in nome del “realismo” e delle situazioni di fatto che sono venute a creare in certe famiglie. Ora, se passasse questo principio, con la relativa linea di condotta, ci troveremmo in presenza di una versione nuova ed inedita del Vangelo: alla esortazione che Gesù rivolse alla donna adultera: Neppure io ti condanno; va’, e non peccare più; si verrebbe a sostituire, in pratica, una nuova morale “evangelica”, basata sul: Chi sono io per giudicare? Andate e fate secondo la vostra coscienza; concetti, questi, peraltro già espressi da papa Francesco fin dai primi tempi del suo pontificato, nel corso di una incredibile intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari (il gran papa della Massoneria: chissà perché proprio a lui), nella quale diceva precisamente queste cose. E, se il senso delle sue parole fosse stato travisato dall’intervistatore, non avrebbe dovuto fare altro che smentire e precisare: invece ha taciuto e, in più occasioni, ha ribadito la sua idea.
Ora, il punto è che né il papa, né i gesuiti, né alcun altro gruppo, ordine o movimento religioso, cattolico o sedicente tale, hanno il diritto di rovesciare come un guanto i contenuti della Rivelazione, il depositum fidei del quale la Chiesa è custode, e custode perfetta, anche se peccatrice (e talvolta “prostituta”), non per merito degli uomini che la compongono, che sono dei poveri peccatori come tutti gli altri, ma per la Grazia soprannaturale che lo Spirito Santo le trasmette e le infonde, sostenendola nei passi più scabrosi e aiutandola a non sgarrare dalla retta via. Infatti, come è noto, benché in certe epoche storiche i papi, la gerarchia e una parte del clero abbiano tralignato e si siano abbandonati a disordini di vario genere, mai, però, parlando ex cathedra, i sommi pontefici hanno insegnato dottrine eretiche; mai si sono discostati dalla Verità del Vangelo, che è Cristo stesso. Mai, fino ad oggi; mai, fino a questo pontificato. Neppure i papi più discutibili sotto il profilo morale e nella condotta privata, come il tristemente celebre Alessandro VI Borgia, hanno deviato dalla retta dottrina cattolica; mai hanno trascinato le anime nell’errore teologico e, quindi, nel peccato che consiste nell’allontanamento da Dio.
Oggi ci troviamo di fronte a una situazione drammatica e assolutamente inedita. I pastori non danno il buon esempio sul piano teologico e dottrinale: cercano la popolarità, vogliono piacere alle folle (ecco la legge dei “grandi numeri”, con tutto il tristo bagaglio di abusi e di aggiustamenti al ribasso che inevitabilmente impone a chi se ne fa succube); e qui torniamo alla riflessione iniziale, sul senso di certi eventi d’incontro religioso che rischiano di stravolgersi in occasioni di scandalo e di peccato, proprio perché non si distinguono granché dai grandi spettacoli profani della musica, del cinema o dello sport spettacolarizzato. Vale la pena di riempire le piazze, se il messaggio che passa, specialmente ai giovani, è fatto di permissivismo, relativismo, scimmiottamento di modi, stili e atti che sono propri della società materialista e atea, edonista e senza freni morali? Noi crediamo di no. E cerchiamo di ricordaci sempre dell’aurea massima: Bonum animarum suprema lex in Ecclesia...
Non questa musica, ragazzi!
di Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio Già pubblicato il 03 Agosto 2016
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