Una delle difficoltà che vengono opposte da alcuni alla beatificazione di Padre Tyn è il fatto che egli sosteneva apertamente, abitualmente ed argomentativamente la legittimità della pena di morte. Infatti da alcuni anni circola in ambienti cattolici la convinzione che la Chiesa non ammetta più la pena di morte, ovvero c’è l’idea che, quand’anche l’ammettesse, essa rifletterebbe una mentalità irrispettosa della persona umana, mentalità ormai superata ed oggi non più ammissibile. In realtà nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 troviamo ancora la tradizionale giustificazione della pena di morte. L’articolo dedicato a questo tema ha subìto di recente una modifica che vale la pena di prendere in considerazione. Il testo precedente recitava così: “difendere il bene comune della società esige che si ponga l’aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto ...
... fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, le pena di morte” (n.2266).
Invece la modifica apportata è la seguente: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo « sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti » (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, 56: AAS 87 (1995) 464)” (n.2267).
Le parole citate di Giovanni Paolo II sembrerebbero alludere al fatto che oggi la Chiesa non ammette più la pena di morte, ma ciò non è detto in modo categorico, ma in una forma ipotetica che lascia aperta la possibilità, benchè “molto rara” della “necessità” di infliggere questa pena. Ci si potrebbe inoltre domandare se esistono effettivamente casi di “necessità assoluta”, quasi fossimo davanti ad un ineludibile comando del Signore o della legge naturale, contravvenendo al quale si cadrebbe nel peccato mortale.
Ora questo la Chiesa non l’hai mai detto. I comandi di uccidere che l’Antico Testamento presenta come provenienti da Dio, ci dice l’esegesi moderna, in realtà sono interpretazioni di questa volontà, certamente in buona fede, ma obbiettivamente legate ad una concezione arretrata sia della giustizia che della misericordia divine. Infatti, come risulta dall’etica tradizionale e da una sana filosofia morale, la liceità o meno di infliggere la pena di morte è un principio morale di non immediata evidenza, come sono i princìpi primi della legge naturale, ma è una norma che per quanto possa essere giusta, non è del tutto esente da un certo legame con il mutare dei tempi e dei codici morali.
Anzi su questo piano si dà il preciso comando di “non uccidere”. Per ricorrere alla pena di morte, non pare che si debba necessariamente giungere alla coscienza di una “necessità assoluta”, ma sembra sufficiente una considerazione prudenziale peraltro non infallibile, ma che sul momento appare la soluzione migliore. Infatti le nostre decisioni morali non possono essere sempre basate su di una “necessità assoluta”, e quindi un’assoluta certezza, ma è lecito e doveroso in alcuni casi, soprattutto quelli difficili e non chiari, agire in base ad una semplice probabilità. A cose fatte ci si potrebbe accorgere, in base a nuove considerazioni, di aver sbagliato, ma ciò non toglie che, avendo agito in buona fede, si sia stati innocenti nell’aver compiuto l’azione che si è compiuta.
Ciò è precisamente avvenuto per le pena di morte per gli eretici, praticata per secoli dalla Chiesa in buona fede, fino a che ci si è accorti con certezza che essa non è conforme al rispetto della persona umana ed alle norme morali del Vangelo. Ma la pena di morte per delitti civili è un’altra cosa e non tocca la coscienza del singolo davanti a Dio come la problematica della fede cattolica. Il punto di riferimento infatti della pena di morte in campo civile non è l’ortodossia della fede, ma la salvaguardia del bene comune temporale della società o dello Stato.
E’ vero che S.Tommaso, per sostenere le pena di morte degli eretici, riteneva che è peggio corrompere la fede, piuttosto che falsificare la moneta o sofisticare gli alimenti o truffare economicamente i cittadini o sopprimere delle vite innocenti. Ora - ragionava l’Aquinate - se è un delitto il danno al bene comune temporale, maggior delitto sarà quello di corrompere la fede del popolo di Dio. Questo principio di Tommaso in sé è giusto e sempre valido, ma oggi la Chiesa, accortasi meglio del mistero e della dignità della coscienza singola davanti a Dio, preferisce salvaguardare la fede del popolo di Dio con provvedimenti disciplinari non così severi, anche se ancora caratterizzati dall’intento di frenare o se possibile far cessare l’opera pericolosa dell’eretico.
Quanto al principio della pena di morte in generale, esso è stato dedotto dai moralisti e sempre almeno tacitamente riconosciuto dalla Chiesa, che non ha mai fatto obiezioni, in base a un ragionamento, come risulta per esempio dall’insegnamento di S.Tommaso: si è paragonato il corpo sociale ad un corpo organico e il delinquente ad un membro di questo corpo e si è fatto il seguente paragone: come per salvare l’intero corpo fisico occorre togliere un membro malato o infetto che rischia di guastare tutto il corpo, così la pubblica autorità ha il diritto e dovere di sopprimere un delinquente che metta seriamente in percolo il bene comune della società e dello Stato.
Ci potremmo chiedere a questo punto che autorevolezza ha la sentenza di Giovanni Paolo II che ho citato sopra circa l’inesistenza attuale di casi che richiedano la pena di morte. Diciamo subito che si tratta non di una tesi dottrinale in qualche modo legata alla divina Rivelazione, ma di un parere prudenziale, indubbiamente da prendere in considerazione, ma di carattere non infallibile e che, mutate le circostanze, potrebbe esso stesso mutare, presentandosi così la necessità di applicare la pena di morte.
In questo campo dell’atteggiamento da tenere nei confronti della vita l’unico precetto assolutamente sicuro, che è oggetto sia della ragion pratica che della fede teologale, è la promozione e la difesa della vita, soprattutto ai livelli superiori. Su questo punto la Chiesa non potrà mai transigere o mutare. La decisione invece se convenga o non convenga la pena di morte non è né un dato assoluto della ragione né una verità di fede, ma un atteggiamento prudenziale della pastorale ecclesiale e del buon moralista, un settore del pensiero dove la Chiesa stessa può cambiare o addirittura sbagliare.
Questa questione della liceità o meno della pena di morte, si può paragonare a certe altre opinioni che nella Chiesa hanno avuto cittadinanza per lunghi secoli senza per questo esser considerate dalla Chiesa stessa come valori immutabili. Esempi di ciò possono essere la credenza nel limbo e la convinzione dell’inferiorità della donna nei confronti dell’uomo, cose che oggi come oggi sono state o sono in corso di essere superate in nome di un progresso della vita cristiana e una migliore conoscenza dello stesso dato rivelato.
D’altra parte il precetto “non uccidere” non va inteso in un senso assoluto, ma sottintende “non uccidere l’innocente”, per cui non è proibito in modo assoluto di uccidere il colpevole. E ciò in base a un principio più profondo, di carattere generale, originario e assolutamente indiscutibile, che è il principio primo di tutta la morale, il quale dice: “fa il bene e fuggi il male”. Da ciò discende logicamente il dovere di difendere il bene dall’aggressione del male. Ora qual è il comando fondamentale della morale, soprattutto biblica, se non quello di promuovere e difendere la vita e soprattutto le forme superiori e spirituali della vita?
In questa visuale P.Tomas notava come una certa mentalità contemporanea considera la vita fisica dell’individuo come una specie di valore supremo ed assoluto, dopo il quale si mette ogni altra cosa, compresa la dignità della coscienza e i valori della religione. In sostanza l’ideale di molti oggi è quello per così dire di “salvare la pelle” ad ogni costo e accettando qualunque compromesso.
P.Tyn osserva giustamente che ciò è indegno della persona umana, la quale indubbiamente ha una vita fisica da difendere, ma ha anche e soprattutto il dovere di affermare in sè stessa e negli altri la vita spirituale, che vale infinitamente di più, come dice il Vangelo: “Che cosa vale per l’uomo conquistare anche tutto il mondo se poi perde la sua anima?”. Questo principio, come osserva P.Tyn, giustifica il sacrificio della propria vita per il bene altrui, come egli ha dimostrato eroicamente con l’offerta della propria vita per la libertà della Chiesa e della Patria, ed inoltre giustifica in casi estremi la stessa pena di morte, la quale suppone che la vita fisica del singolo delinquente valga meno del bene comune della società, anche temporale, in quanto questo bene comune implica, benchè tra molti difetti, l’esercizio di molte virtù che nel loro insieme costituiscono un valore di altissimo livello.
E’ vero che la spiritualità moderna, ispirata dal Vangelo, ha meglio compreso di un tempo la trascendenza della singola persona e del suo bene che è Dio stesso nei confronti del bene comune temporale, comunque resta sempre vero che la vita fisica del singolo deve servire questo bene e non ha più motivo di esistere se essa gli crea ostacolo. D’altra parte la pena di morte non è di alcun ostacolo al delinquente in ordine alla sua salvezza, ed anzi si potrebbe dire che tale pena in qualche modo lo preserva dal continuare la sua vita perversa.
Un’ultima importante considerazione che veniva fatta dal Servo di Dio: riprendendo il comando biblico del “non uccidere”, comando che come si è detto sottintende “non uccidere l’innocente”, P.Tyn notava con vigore non privo di giusto sdegno l’ipocrisia di certi partiti politici dei nostri giorni, i quali cadono nella spaventosa contraddizione di permettere con l’aborto l’uccisione dell’innocente, mentre d’altra parte predicano l’impunità dei malfattori consentendo ai prepotenti di opprimere i deboli e i poveri, proprio questi partiti che si atteggiano a sostenitori della giustizia sociale.
La conclusione quindi può essere a mio avviso la seguente. Non si può negare che P.Tyn fosse fedele agli insegnamenti del Magistero del suo tempo, e questo caratterizza la condotta di tutti i santi. Per esempio, un S.Pietro Martire, inquisitore domenicano del secolo XIII, indubbiamente era inserito in un sistema giuridico che prevedeva la pena di morte per gli eretici, ma allora, come sanno tutti gli storici non prevenuti da pregiudizi anticlericali, tutta la società cristiana era in buona fede convinta che quel provvedimento fosse una cosa giusta ed utile. Questa cosa e vorrei dire proprio questa, ossia questa obbedienza di Pietro Martire alle disposizioni giuridiche del suo tempo, costituisce proprio un aspetto essenziale della sua santità.
Indubbiamente dai tempi di P.Tyn ad oggi le posizioni della Chiesa testimoniate dal mutamento stesso apportato al Catechismo, si sono accostate ad un maggior rifiuto della pena di morte senza che peraltro si sia giunti ad un rifiuto totale. Se posso esprimere un parere personale ritengo che questo uso della severità nella vita presente, dove risentiamo ancora delle conseguenze del peccato originale, abbia una funzione salutare, purchè sempre sostenuto dalla carità e accompagnato dalla misericordia.
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