14 gennaio 2012 -
Cosa vuole fare veramente Andrea Riccardi, fondatore nel 1968 della Comunità di Sant’Egidio, movimento cattolico postconciliare, biografo di pregio del pontificato wojtyliano e dal 16 novembre scorso ministro (senza portafoglio) per la Cooperazione internazionale e l’integrazione? Quale il suo futuro ora che il governo presieduto da Mario Monti l’ha arruolato anche in virtù del suo essere organico alla chiesa cattolica? La risposta non è facile anche perché è lui, anzitutto, a eludere in vario modo la domanda.
Sarà Riccardi il leader di un nuovo soggetto politico di dichiarata ispirazione cattolica? “No” risponde. E ancora: “Credo molto nel lavoro di questo governo. In questo lavoro mi sta a cuore una ripresa politica della cultura democratica e repubblicana nella quale noi cattolici abbiamo un ruolo fondamentale. Non ho altre ambizioni”. Si candiderà alle primarie del Partito democratico per le amministrative del 2013 nel comune di Roma? “Non credo che una mia candidatura a sindaco di Roma sia percorribile” dice. “L’avrei accettata forse in età più giovane”. Risposte evasive che non sciolgono il mistero intorno al suo impegno futuro in politica, quando il Parlamento si rimetterà al voto degli elettori e i cattolici cercheranno un leader a cui aggrapparsi.
Sono quattro i ministri dichiaratamente cattolici presenti all’interno dell’attuale governo. C’è Corrado Passera, ministro delle Infrastrutture, arrivato alla politica anche in quanto espressione del polo cattolico della finanza italiana, prima all’Anton-Veneta, poi gruppo Intesa che assorbe la Cariplo, infine Intesa Sanpaolo, a fianco di Giovanni Bazoli. C’è Renato Balduzzi, ministro della Salute, espressione di quel cattolicesimo cosiddetto “adulto” che lo portò, quando tra il 2006 e il 2008 era consigliere giuridico dell’allora ministro delle Politiche per la famiglia Bindi, a ideare il disegno di legge sui Dico (patti coniugali, famiglie di fatto) e a non promuovere la partecipazione degli aderenti del Movimento ecclesiale di cui era presidente (Meic) al Family day. C’è, ancora, l’autorevole Lorenzo Ornaghi, rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Di chiara scuola ruiniana, fedele interprete della battaglia sui valori non negoziabili combattuta in un regime di sostanziale pluralismo politico, Ornaghi è l’unico ministro del governo che può vantare l’esplicito appoggio della Conferenza episcopale italiana.
E Riccardi? La sua entrata nel governo non è figlia della “sponsorizzazione” della Cei e nemmeno del Vaticano. Del resto, è lui stesso a confidarlo: “A titolo personale, prima di accettare l’incarico, mi sono consultato con qualche amico come si fa per le decisioni importanti. Ma non c’è nessuna benedizione delle gerarchie in merito al mio impegno al governo. Non mi sento benedetto né più né meno di un qualsiasi altro fedele. Questo governo non è il governo del Vaticano o della Cei, è un governo di ministri che hanno tutti una loro storia particolare”.
In molti sostengono che è stato Vincenzo Paglia, vescovo di Terni e padre spirituale di Sant’Egidio, a fare sponda, con arguzia e sensibilità istituzionale, con il Quirinale. La pressione su Giorgio Napolitano è stata costante e incisiva. A Riccardi sono stati offerti inizialmente i Beni culturali. Gentilmente rifiutati, si è optato per un ruolo, quello di ministro della Cooperazione e dell’integrazione, più confacente alla sua storia di impegno ecclesiale. Beninteso, il rapporto di Riccardi con le gerarchie non è in discussione. Espressione di quella chiesa di popolo nata negli anni della grande vitalità post conciliare, per decenni la Comunità che egli ha fondato ha lavorato di sponda con la Santa Sede. Sant’Egidio, soprattutto durante il pontificato di Giovanni Paolo II, si è mossa nei vari paesi del mondo come fosse una “sezione parallela” della segreteria di stato vaticana, e questa azione è spesso risultata un atout e un problema. Ma è un dato di fatto che la domanda che si pone padre Andreas R. Batlogg sul numero di settembre della rivista dei gesuiti tedeschi, Stimmen der Zeit, di cui è direttore, all’interno di un articolo dal titolo “Die Optimisten von Sant’Egidio”, non è senza senso. Furono nell’era Wojtyla quelli di Sant’Egidio “i preferiti del Papa?”, si chiede Batlogg in un capitolo del testo tutto dedicato ai rapporti della Comunità di Riccardi con Giovanni Paolo II? Batlogg dà una risposta affermativa e in questa risposta c’è molto di vero.
La domanda sul futuro di Riccardi però resta e a porsela sono anzitutto coloro che oggi, tra le gerarchie, hanno la responsabilità più alta: il capo della Cei Angelo Bagnasco e il segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone. E probabilmente se la pone anche il Papa il quale, oggi, concede udienza per la prima volta a Mario Monti, presidente del Consiglio. Con lui non saliranno al secondo piano del palazzo apostolico né Ornaghi né Riccardi. Gli unici due ministri presenti saranno quello degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata e il responsabile delle Politiche comunitarie Enzo Moavero Milanesi, soprattutto in vista del colloquio previsto con il cardinale Bertone. La competenza dei due ministri fissa il perimetro degli argomenti che potrebbero entrare nei colloqui riservati ed esclude che si possa parlare di altro, compresi gli scenari futuri e il ruolo dei cattolici in questi scenari. Alle domande di fondo su Riccardi, insomma, si avrà risposta soltanto più avanti: cosa vuole fare del proprio impegno in politica? Ha intenzione di compiere un salto in avanti oppure intende uscire di scena e tornare alle occupazioni di sempre? Fin dove vuole arrivare? E, soprattutto, in nome di chi? Dice un monsignore della curia romana: “Sono domande che da tempo sia Bagnasco sia Bertone si pongono. Anche perché è oramai evidente: il ruolo di storico della chiesa, biografo di Papa Wojtyla e padre fondatore di un importante movimento ecclesiale post conciliare gli sta stretto. Da tempo, all’interno della Santa Sede, c’è chi si domanda cosa farà Riccardi una volta scaduto il compito di ordinario di Storia contemporanea presso la Terza Università degli Studi di Roma. Farà politica? La sta già facendo. Il tutto è capire come, in che modo, per conto di chi e soprattutto con chi, con quale partito, all’interno di quale schieramento una volta che Monti lascerà il proprio incarico”.
Le associazioni cattoliche che lo scorso ottobre avevano organizzato il raduno di Todi avevano in mente uno schema ben preciso: lavorare per tutto il 2012, Berlusconi ancora regnante, alla ricostruzione di un nuovo soggetto politico sul modello del Ppe, un qualcosa di alternativo dunque a un’alleanza di centro che strizzasse l’occhio principalmente al Pd. Riccardi, che non era contemplato in questo progetto, ha giocato d’astuzia. Ha cercato l’appoggio del segretario di stato vaticano per lanciare un progetto sostanzialmente alternativo. Nella parrocchia salesiana del Gesù Bambino di Roma assieme a monsignor Mario Toso, segretario di Iustitia et pax e amico fidato di Bertone, convocò un raduno di cattolici escludendo però le sigle più vicine all’area di centrodestra: la dirigenza dell’Università Cattolica di Milano, il mondo vicino a Comunione e liberazione e alla Compagnia delle opere (Cdo). La sua idea era sostanzialmente una: accreditarsi come padre nobile di un raggruppamento centrista che avesse al suo interno parte dei cattolici del Pd e naturalmente l’Udc di Pier Ferdinando Casini. A Todi Riccardi ha fatto un saluto inziale, ha lasciato la parola al presidente della Cei e poi se n’è andato: “Ho impegni all’estero” ha detto. E ha continuato per la sua strada. Assieme a Raffaele Bonanni, Casini, Lorenzo Cesa e Giuseppe Fioroni ha pianificato un’iniziativa a Napoli prevista per la fine di questo mese (ma i dettagli ancora non si conoscono tanto che c’è chi sostiene che a Napoli non succederà niente) per “rilanciare la partecipazione e dialogare con la cultura laica”. Insieme ha redatto una sorta di manifesto intitolato “Iniziativa per l’Italia”. Dice Natale Forlani, portavoce degli organizzatori del convegno di Todi: “Non confondeteci. L’iniziativa di Napoli non c’entra con noi che stiamo scrivendo un manifesto sociale-politico ancora da pubblicare”.
Carlo Costalli, presidente del Mcl, è tra gli organizzatori di Todi. Dice: “Il nostro progetto è fare sì che in Italia ci siano due aree riformiste, una moderata che faccia riferimento al Ppe e una progressista che faccia riferimento al Pse, evitando pastrocchi ed equivoci terzopolisti”. Ma è ancora Riccardi a sparigliare le carte mostrandosi più modesto e insieme più ambizioso della sua presunta volontà di creare un’aggregazione di centro che strizzi l’occhio al Pd. Dice: “Ripeto: credo molto nel lavoro di questo governo. Non ho altri interessi al momento”.
L’impressione è che sia Riccardi il primo a non sentirsi tagliato per un ruolo politico all’interno di un partito ideologicamente schierato. Le sue ambizioni sembrano più alte, verso profili istituzionali meno operativamente impegnativi. Dice Stefano Ceccanti, senatore del Pd e studioso di teologia: “La politica non è ancora oggi divenuta la dimensione di Riccardi. Sembra piuttosto, mi si passi il termine, un ‘cardinale’ nei modi e nell’eloquio, un rappresentante della chiesa-istituzione. Per questo è difficile dire cosa voglia fare e fin dove voglia spingersi nel suo impegno politico. Prima di Natale era presente alla Camera per presentare il libro di Luca Diotallevi ‘L’ultima chance’ edito da Rubbettino. A una considerazione di Diotallevi sulla nascita della Democrazia cristiana e sullo scontro avvenuto negli anni Trenta e Quaranta tra la visione di monsignor Domenico Tardini che voleva trattare con lo schieramento politico vincente di turno, e monsignor Giovan Battista Montini che sollecitava la presenza politica attiva dei cattolici laici lasciando alla chiesa l’evangelizzazione, Riccardi ha risposto con un approfondimento storico puntuto che certamente ha mostrato tutta la sua competenza ‘ecclesiastica’ ma che insieme ha lasciato in secondo piano la dimensione politica del suo attuale curriculum. E oggi questa sua visione delle cose, questo suo modus operandi da storico e insieme uomo di chiesa è favorito dal fatto di essere ministro in un governo che, come ha detto lui stesso al Corriere della Sera recentemente, ‘non coinvolge i partiti’. Ma, mi domando, cosa succederà dopo?”.
Se si entra nella piccola cittadella di piazza Sant’Egidio a Trastevere, la sede della Comunità fondata da Riccardi all’interno di un ex convento di monache carmelitane, e si chiedono lumi intorno ai progetti futuri di Riccardi, le risposte sono ambivalenti. Tutti però sembrano essere sicuri di una cosa: accetterà soltanto ruoli di alto prestigio istituzionale, difficilmente accetterà di sporcarsi in appartenenze partitiche. Del resto è la stessa Comunità di Sant’Egidio ad avere sempre mantenuto un profilo alto: anche se non è paragonabile, per numeri, ai grandi movimenti ecclesiali sviluppatisi dopo il Concilio – sono circa cinquantamila le persone che formano piccole comunità diffuse in 72 paesi: in Africa (29), in Asia (7), in Europa (23), in Nord e Centramerica (8) e in Sudamerica (5) – l’influenza e il suo prestigio non soltanto in Vaticano ma anche nelle sedi diplomatiche che contano è di gran lunga superiore a quella di altre associazioni religiose numericamente più rilevanti. “Andiamo avanti con passi lenti” dicono nella Comunità. “Crediamo nella ‘forza debole’ di cui parla l’apostolo Paolo e continuiamo il nostro lavoro quotidiano”.
La linea, insomma, è quella di sempre: crescere senza correre troppo, guadagnare influenza e prestigio senza eccedere. Ne è un esempio la campagna per una revisione della normativa riguardante il diritto alla cittadinanza. Già un anno fa la Comunità aveva fatto un importante sforzo in merito. Riccardi l’ha rilanciata nei giorni immediatamente seguenti la nomina a ministro. Ma poi ha chiesto di procedere con calma e ponderazione. Dice oggi: “Il discorso della cittadinanza agli immigrati è importante, ma deve maturare nelle coscienze del paese e delle forze politiche: bisogna procedere in modo condiviso; coraggioso ma condiviso”. E’ un’idea ancora percorribile? “Spero di sì. La mia idea è di lavorare per arrivare a concedere la cittadinanza ai bimbi nati in Italia. Non penso a uno ius soli o ius sanguinis, penso invece a uno ius culturae. Chi nasce in Italia diviene parte della nostra cultura e questa cosa gli va riconosciuta. Da ministro ho visitato una scuola nel napoletano. C’erano tantissimi bambini figli di ucraini nati in Italia. Ho chiesto loro: ‘State imparando l’italiano?’. Mi hanno risposto: ‘Lo sappiamo già. Stiamo cercando d’imparare l’ucraino dei nostri genitori’”. Dice Ceccanti: “Il ministero che Riccardi ha in mano non ha molti poteri. Sostanzialmente non ha deleghe. E’ difficile che riesca a incidere profondamente. Nel Pdl c’è il veto della Lega sulla cittadinanza. E una revisione dell’attuale normativa non può avvenire senza un’ampia condivisione delle forze politiche. Certo se Riccardi riuscisse a realizzarla sarebbe un suo grande successo, anche alla luce del fatto che il tempo a disposizione non è poi così lungo”.
Alla politica dei piccoli passi Sant’Egidio si è sempre attenuta anche nei confronti del Vaticano. E’ stato lentamente che Sant’Egidio è divenuta sempre più importante oltre il Tevere. Tutto cominciò nel 1968. Riccardi, allora meno che ventenne, iniziò riunendo un gruppo di liceali con il solo scopo di ascoltare e mettere in pratica il Vangelo. Il piccolo gruppo, che aveva come modello Francesco d’Assisi, iniziò subito ad andare nella periferia romana, tra le baracche che in quegli anni cingevano Roma e dove vivevano molti poveri, e avviò un doposcuola pomeridiano (la “Scuola popolare”, oggi “Scuole della pace” in tante parti del mondo) per i bambini. Arrivarono presto i primi riconoscimenti ufficiali da parte della chiesa per quella che l’Espresso definì “una cometa con piccolo nucleo ma mirabolante scia luminosa”. Da lì fu una crescita costante. Già nel 1974 il cardinale vicario di Roma Ugo Poletti lo volle al suo fianco in un convegno dedicato ai mali della città. Fu l’inizio di una collaborazione con la chiesa istituzione che continuò negli anni. E nel 1995 agli stati generali della chiesa italiana il cardinale Camillo Ruini fece sedere Riccardi alla propria destra, al tavolo della presidenza.
Negli anni a seguire i rapporti con le gerarchie sono stati altalenanti. Sant’Egidio, cercando e ottenendo consenso spesso nella sinistra ecclesiale, ha permesso che quell’intesa iniziale s’intorpidisse un po’, che un’ala più conservatrice della curia romana arrivasse a guardare in modo sfavorevole la loro crescita e l’appoggio della Santa Sede, ma il callido fiuto ecclesiastico che Ruini aveva percepito in Riccardi è rimasto intatto e continua a manifestarsi oggi. Dice Gian Franco Svidercoschi, vaticanista di lungo corso ed ex vicedirettore dell’Osservatore Romano, che Giovanni Paolo II valorizzò Riccardi “perché vedeva in lui la migliore traduzione popolare del rinnovamento chiesto dal Concilio. Se Comunione e liberazione nacque principalmente come risposta politica alla prepotenza delle sinistre nelle università milanesi, Sant’Egidio nacque invece come risposta spirituale al Sessantotto. Due risposte diverse che il Papa valorizzò allo stesso modo. Per come stanno andando le cose non sembra che la discesa in politica di Riccardi sia in contraddizione con l’origine spirituale del suo movimento”. Anche perché, verrebbe da dire, Riccardi non ha sciolto le riserve. Ancora non ha detto cosa intende fare da grande: se tornare agli impegni precedenti oppure mescolare davvero la propria spiritualità con una discesa ufficiale e decisa nell’agone.
Pubblicato sul Foglio sabato 14 gennaio 2012
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