Nel chiaro mattino di febbraio la campagna si sta ridestando alla vita, le montagne sfolgorano di neve e la scarpa, camminando, fa scricchiolare le lastre di ghiaccio che coprono le pozzanghere, incrinandole e facendo apparire, nei raggi obliqui del sole, una trama impalpabile e iridescente d’infiniti cristalli geometricamente perfetti.
Tutto è pace e silenzio; il verso del pettirosso si spande dal bosco vicino ancora spoglio, ma già gonfio di gemme sui rami; il canto vittorioso di un gallo giunge da lontano, spandendosi nella distanza dei seminati ancora vuoti e coperti di brina.
La vecchia casa colonica sorge al margine della strada, compatta, coi suoi alti muri bianchi e i balconi di legno; quasi al centro della parete esterna, a piano terra, si staglia una nicchia di modeste dimensioni, incorniciata da quattro lastre di terracotta dipinta, con un piccolo ritratto di S. Antonio e una semplice scritta, in caratteri stampatelli maiuscoli, che la incornicia: «P. G. R. - 5 marzo 1937»; nient’altro.
Qualcuno, in quel giorno lontano di tre generazioni or sono, prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale e che il mondo cambiasse così tanto, realizzando quella edicola votiva, volle adempiere a un voto fatto a Dio per mezzo del santo, volle esprimere la propria gratitudine per una grazia ricevuta; chi lo sa che cosa: forse la nascita di un bambino tanto atteso, che non voleva arrivare; forse la guarigione insperata da qualche grave malattia; forse il ritorno a casa, sano e salvo, di un ragazzo partito per la campagna d’Etiopia.
Qualche cosa che si è persa nel corso degli anni, insieme a coloro che chiesero la grazia e che la ricevettero; eppure l’edicola è ancora lì, sulla facciata della casa, linda e ben tenuta come se fosse di ieri; gli attuali proprietari, i quali forse ignorano di cosa si trattasse, perché il fatto risale al tempo dei loro nonni, più che dei loro genitori, hanno conservato quel simbolo di fede con il rispetto e la devozione che si devono alle cose sacre, anche se non ci toccano direttamente.
O forse no; forse gli attuali proprietari sanno benissimo di che si tratta; forse è un avvenimento che ancora raccontano, nelle notti d’inverno, ai loro nipotini: e questi ultimi lo ascoltano a bocca aperta, pieni di meraviglia, come qualcosa di grande e di solenne, che, tuttavia, è entrato nella vita dei loro bisnonni, persone semplici, persone qualunque: dei contadini come tanti altri, non più ricchi né più poveri dell’altra gente del paese.
In ogni caso, si tratta d tradizioni importanti, di simboli importanti: nel bel mezzo della realtà profana, ci socchiudono uno spiraglio d’infinito; nel contesto della moderna società della fretta e dell’egoismo, tutta presa dal produrre e dal consumare, tutta imbevuta di materialismo e di utilitarismo, è un segno di devozione, di umiltà, di riconoscenza; è un legame con le nostre radici, con la società dei nostri nonni e bisnonni che ci fu maestra di vita, laboriosa, modesta, consapevole del legame necessario che unisce le cose di quaggiù con le cose di Lassù.
I nostri nonni non pensavano di poter fare tutto da soli; quando si sedevano a tavola, si facevano il segno di croce; la notte prima dei Morti, lasciavano un bicchier d’acqua sul tavolo, per le anime del Purgatorio; prima di arare e di seminare, chiedevano la benedizione del prete; prima di morire, si raccoglievano in se stessi e rivolgevano il pensiero al Cielo.
Non davano nulla per scontato, per dovuto, e provavano gratitudine per tutto quello che la vita offriva loro: i figli, il cibo, un tetto sopra la testa. Certo, la casa se l’erano costruita con il lavoro delle loro mani, con il frutto dei loro risparmi: ma erano consapevoli che, da soli, senza l’aiuto divino, gli uomini non possono fare nulla.
Erano consapevoli che l’intelligenza, la buona volontà e il sudore della fronte non bastano, ci vuole qualcosa d’altro, qualcosa che nessun uomo, nemmeno il più ricco e potente, può darsi da se stesso, perché non gli appartiene; qualcosa che non si può comperare, quand’anche si disponesse di tutti i tesori della Terra.
Lo sapevano istintivamente; lo sapevano perché lo vedevano nei volti e nei gesti dei loro genitori e di tutte le persone adulte.
Se portavano a buon fine una cosa, non davano a se stessi tutto il merito; se qualcosa andava male, non davano a se stessi tutta la colpa: perché sapevano che anche il lavoro più diligente, anche il progetto meglio preparato, possono svanire come fumo nell’aria, così come può svanire la vita dell’uomo, da un giorno all’altro.
Se ciò accadeva, non stringevano i pugni, non maledivano, non si sentivano ingannati o defraudati di qualcosa; poiché non consideravano i beni della vita come una loro proprietà, ma come un usufrutto, erano preparati a rinunciarvi, se questa era la volontà del Cielo. Anche a dire addio a un figlio, a una sposa, a un marito: perché la creatura è pellegrina sulla Terra, il suo destino non è quello di mettervi le radici; e se Dio chiama chi vuole, bisogna farsene una ragione, nulla avviene per caso e nulla avviene senza una ragione di bene, anche se noi - talvolta - non riusciamo a scorgerla, con la nostra vista limitata e la nostra debole ragione.
La fede dei nostri avi era semplice, senza dubbio: ma semplice non vuol dire affatto stupida, come vorrebbe la presunzione illuminista; al contrario, una persona può essere semplice, ma profonda - e così la sua fede.
Per la concezione modera, tutte quelle consuetudini non erano che il riflesso di una mentalità primitiva, superstiziosa; può essere: certo è che non facevano del male, anzi, facevano molto bene all’equilibrio spirituale del singolo individuo e alla coesione sociale del gruppo in cui era inserito, in modo più o meno armonioso e felice, ma sempre organico.
L’estraneità che regna oggi fra gli esseri umani sarebbe stata inconcepibile: troppo addossate le case, troppo strette le relazioni di vicinato; oggi si tende a presentare tutto ciò quasi come una forma di prigionia, e può darsi che, talvolta, lo fosse: ma forte, fortissimo, era anche il senso di appartenenza, il senso di identità, il senso del comune destino.
Se si dimenticava il portafoglio in osteria, il giorno dopo lo si ritrovava lì, e non mancava nemmeno uno spicciolo: era virtù, era la paura di essere scoperti e messi al bando, in un mondo dove tutti avevano bisogno di tutti, dove una sola fontanella, giù in strada, serviva alle necessità di parecchie famiglie e di non pochi animali? Difficile dirlo; ma sta di fatto che si poteva uscir di casa lasciando la porta aperta; non si viveva con la paura dei ladri, non ci si sarebbe nemmeno sognati d’installare sirene d’allarme o meccanismi antifurto. E si era grati per le cose buone.
Dal momento che nulla era scontato e nulla era dovuto, si era grati di tutto quel che la vita porgeva: i bambini erano grati anche per il dono di due noci o un mandarino, gli adulti erano grati anche per un santino portato dal pellegrinaggio o per una cartolina spedita da un amico.
Non stiamo dicendo che il mondo dei nostri nonni fosse un mondo di santi; esistevano anche allora l’invidia, la gelosia, la maldicenza; però nessuno ne faceva vanto, tutti sapevano che si trattava di difetti, di comportamenti aberranti, di peccati; tutti ammettevano, almeno teoricamente, che per vivere bene bisogna operare bene, parlare bene, sentire bene, cioè con animo puro ed onesto; e che bisogna affidarsi alle mani di Dio.
I nostri nonni sapevano, istintivamente e non per aver letto su qualche trattato di teologia, che tutto è grazia; che la vita è grazia; che il lavoro è grazia; che il cibo è grazia; che la salute è grazia; e che è grazia anche la malattia, perché fa parte di un disegno di cui non siamo noi a tessere la trama, noi possiamo dire sì o no alla chiamata e, dalla risposta che diamo, discende il vivere in grazia di Dio oppure il vivere come animali rabbiosi, come lupi, come belve sempre pronte ad aggredirsi ed a sbranarsi l’una con l’altra.
Non che non ci fosse il male: l’abuso del bere, la grossolanità dei modi, la bestemmia - oh, sì, tante bestemmie, almeno nelle campagne e nei paesi di una volta; i nostri nonni, lo ripetiamo, non erano dei santi: erano dei pellegrini e sapevano di esserlo, erano de peccatori e sapevano di esserlo; e anche quando se la prendevano con Dio e lo bestemmiavano, a loro modo credevano in lui, lo rimproveravano perché non li ascoltava o, quanto meno, perché non li ascoltava così come essi avrebbero voluto.
Superstizioni? Certo, di venerdì stavano bene attenti ad astenersi dalla carne, non mangiavano il salame o il musetto: era superstizione, questa? Forse: chi può dirlo? Si sarebbe dovuto giudicare caso per caso.
Bestemmiavano e osservavano il digiuno: erano uno strano impasto di innocenza fanciullesca e di istintività brutale. Però non erano cattivi, quasi mai, se cattiveria è la scienza del male che si commette e la capacità di compierlo senza rimorso e senza pentimento; erano, piuttosto, un po’ bambini: ma bambini dalle mani callose, cui la dura vita del contadino e, non di rado, dell’emigrante, avevano insegnato perle di saggezza.
Perché la loro vita era dura, senza dubbio: così dura che, oggi, a stento ci sembra possibile ch’essi abbiano potuto viverla; con così poche distrazioni che la alleggerissero, con così poche gioie che la illuminassero.
Oppure è, anche questo, un errore di prospettiva? Le loro gioie erano proporzione alle loro aspettative: e se commisurare le attese alla sfera del possibile è il segreto della serenità, essi, senza dubbio, a paragone di noi, erano infinitamente più sereni. Difatti non avevano bisogno dello psicanalista, né dei farmaci antidepressivi: e la notte, stanchi, dormivano sodo, non restavano svegli a contare i rintocchi, a macerare angosce ed inquietudini.
La loro vita era povera, era noiosa? Ma questo possiamo dirlo noi, adesso, che non potremmo fare a meno della televisione neanche per una settimana; che non sappiamo uscir di casa, se non vestiamo abiti alla moda, possibilmente firmati; che non ci sembra di aver fatto le ferie, se non siamo andati in aereo alle Seychelles o alle Maldive.
I nostri nonni erano anche più sani, più forti, più robusti. Raramente si ammalavano, raramente andavano dal medico, raramente si mettevano a letto. Erano sobri, erano parchi in tutto, non solo per la mancanza del superfluo, ma anche per un atavico stile di vita. Mangiavano poco e stavano bene: mangiavano pochissimo, specie alla sera - un pezzetto di polenta, un cantuccio di formaggio, e subito: «Ce passude!», esclamavano, tenendosi la pancia (letteralmente: «che mangiata!»); eppure avevano lavorato tutto il giorno e ne avevano consumate, di energie.
Forse, almeno in parte, il segreto di tutta quella salute, di tutta quella vitalità, era racchiuso, oltre che nel movimento fisico e nei cibi sani che essi consumavano, nella loro capacità di stupirsi e di ringraziare; di levare un pensiero di lode e di gratitudine per tutte le cose buone, per la stagione favorevole, per il raccolto abbondante, per la benedizione dei numerosi figli e nipoti.
Chi vive stupendosi, chi vive ringraziando, chi eleva un pensiero di riconoscenza verso il Cielo, entra a far parte di un circuito virtuoso, nel quale le energie che vengono spese, ritornano indietro, cariche di valenza positiva; in cui tutto ciò che si consuma, viene rigenerato, e tutto ciò che si dona, viene restituito.
Chi, invece, vive nel disincanto e ignora la riconoscenza, consuma continuamente le proprie energie e non le rigenera, esse si disperdono e occorre continuamente ricostituirle, con un enorme dispendio fisico ed emotivo; ed egli si sente sempre più stanco, sempre più inquieto, sempre più insoddisfatto, irrimediabilmente prosciugato delle sue risorse interiori.
A questo punto, potemmo chiederci se, per caso, non abbiamo sbagliato nel cercare soltanto il benessere materiale, nel perseguire il possesso e il consumo incessante di cose, prendendoci così poca cura di noi stessi, della nostra dimensione spirituale, senza la quale non siamo altro che animali da ingrasso.
Forse, se adornassimo le facciate delle nostre case con qualche antenna parabolica in meno e con qualche nicchia votiva in più; se riscoprissimo il valore simbolico di questi semplici segni, di questi semplici gesti che ci ricordano la nostra condizione creaturale, fragile e limitata, e, al tempo stesso, il nostro insopprimibile bisogno di trascendenza, staremmo un po’ meglio con noi stessi e un poco più in pace con il mondo.
C’è Qualcuno a cui dobbiamo ricordarci di dire grazie, dopotutto.
Anche se quel Qualcuno, per discrezione, non sta sempre lì a ricordarcelo.
di Francesco Lamendola - 23/02/2012Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it
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