ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 1 maggio 2012

La Verità e i ciechi



In un mondo di ciechi, chi ha la vista non viene ammirato, ma disprezzato e deriso


Si usa dire che, in un mondo di ciechi, perfino chi è orbo di un occhio passa per un individuo dalla vista eccezionale, rispettato e ammirato in proporzione; ma in realtà, se si parla della vista in senso figurato, le cose stanno in modo completamente diverso.
In un mondo di ciechi, ossia di persone che non vedono perché non sanno o non vogliono vedere, chi ci vede non solo non è ammirato, ma, al contrario, diviene oggetto di derisione, disprezzo e, quasi certamente, anche di un sottile timore, che può degenerare in avversione implacabile, come se fosse portatore di una malattia pericolosa e sconosciuta.
Le guide spirituali, infatti, non vengono mai credute o ascoltate, a meno che si tratti di false guide; il loro messaggio non è fatto per piacere alle masse; le loro verità sono sgradevoli, ostiche, difficili da accettare, per il semplice fatto che suonano come un implicito rimprovero alla falsità, alla pochezza e all’ipocrisia dei più.

In un racconto di Herbert George Wells (1866-1946), il creatore della fantascienza, «Il paese dei ciechi», questa situazione viene descritta con una chiarezza ed una lucidità esemplari (ne «I racconti di Repubblica», n. 16, pp. 22-23):

«Erano ciechi da quattordici generazioni, completamente segregati dal mondo dotato di vista, , e il nome di ogni cosa attinente al senso ottico si era cancellato o trasformato, la storia del mondo esterno si era cancellata, trasformata in una fiaba, ed essi avevano perso ogni interesse per tutto ciò che stava al di là dei pendii rocciosi, incombenti sul loro muro di cinta. Erano sorti, tra loro, ciechi geniali, che avevano messo in discussione gli ultimi brandelli delle credenze e delle tradizioni di un tempo in cui possedevano ancora la vista, negandole come vane bubbole e sostituendole con altre e più assennate spiegazioni. Buona parte della loro immaginazione si era disseccata come i loro occhi, ed essi si erano procurate altre immaginazioni, in base alla sensibilità sempre maggiore dei loro orecchi e dei loro polpastrelli. Pian piano Nuñez finì per rendersi conto. Capì che, contrariamente alle sue speranze, non avrebbe ottenuto stupore e reverenza per la sua origine e le sue facoltà; e do che costoro ebbero mostrato di non tenere in nessuna considerazione i suoi miseri sforzi di spiegare loro la vista, considerandoli balbettamenti di un essere appena formato che descriveva come portenti le sue sensazioni segate egli si rassegnò, un poco mortificato, ad ascoltare le loro istruzioni, Il più anziano dei ciechi gli spiegò la vita, la filosofia, la religione; gli disse che il mondo (cioè la loro valle) era stato dapprima un buco vuoto tra le rocce, e poi erano venute cose senz’anima e senza il dono del tatto, poi i lama e alcune altre creature di scarso intelletto, poi ancora gli uomini, e infine gli angeli, che si udivano cantare e fare rumori che battevano dolcemente l’aria, ma che non si riuscivano mai a toccare. Ciò lasciò Nuñez molto perplesso, finché non pensò agli uccelli.
L’anziano disse ancora a Nuñez che il tempo era stato diviso in caldo e freddo, cioè l’equivalente del giorno e della note, per i ciechi; che durante il caldo era bene dormire, e durante il freddo lavorare, cosicché in quel momento, se non fosse arrivato lui, tutta la città dei ciechi sarebbe stata immersa nel sonno. asserì che Nuñez dovesse essere astato creato apposta per imparare e per servire la saggezza che essi avevano conquistato, e che nonostante la sua incoerenza mentale e il suo incespicare doveva farsi coraggio e fare del suo meglio per imparare: a queste parole, u mormorio d’incoraggiamento corse tra la gente accalcata sulla soglia. L’anziano allora disse che la notte (poiché i ciechi chiamavano notte il giorno) era già molto inoltrata. Conveniva dunque che tutti tornassero a dormire.»

Potremmo continuare la similitudine dicendo che, in un mondo di dormienti, colui che è desto corre il rischio non solo di non riuscire a svegliare i sonnambuli, ma anche di essere travolto dai loro movimenti convulsi e inconsapevoli.
Il fatto è che alla maggioranza non piace scoprire che qualcuno ha compreso cose che essa non ha compreso: cose importanti, ma che non si possono apprendere dall’esterno e senza fatica, ma solo da se stessi, impegnandosi al massimo e addossandosi notevoli sacrifici.
Questo è un atteggiamento tipico della società moderna, dominata dal mito del democraticismo all’ingrosso, secondo il quale tutti sono uguali a tutti in capacità, intelligenza e volontà; e dove lo studente zuccone, che prende “solo” sei, va dritto dal professore a domandare perché non abbia ricevuto sette o magari otto; una società dove non esiste l’umiltà di riconoscersi da meno di qualcun altro e, soprattutto, di ammettere i propri limiti.
Non era così nelle società pre-moderne, dove le persone eccezionali erano realmente riconosciute come tali, anche se potevano essere fraintese (Santa Giovanna d’Arco che viene bruciata come strega); e dove potevano anche non venire ascoltate, ma incutevano comunque un certo rispetto, perché le persone comuni, abituate al senso della gerarchia, davanti ad esse riconoscevano francamente la propria piccolezza, il loro esiguo sapere o la loro ignoranza.
Giordano Bruno poteva non essere compreso, ma nessuno lo avrebbe scambiato per uno stupido; e ben difficilmente uno stupido poteva sedere in cattedra e farsi ascoltare da folle ammirate, cosa che invece, oggi, sembra tutt’altro che infrequente (e non solo nel mondo della cultura, ma anche in quello dell’arte, della politica, delle libere professioni).
Il pregiudizio democratico ha completamente azzerato il senso del proprio limite: tutti si ritengono capaci di fare qualsiasi cosa; tutti possono accedere alle facoltà universitarie, scrivere libri, tenere conferenze, apparire in televisione per dissertare su qualsiasi argomento; non importa se manca la competenza, basta avere abbastanza faccia tosta. Non si piace per quel che si dice, ma per come si appare, per come ci si presenta.
In un mondo superficiale, frettoloso, intellettualmente pigro, pochi sono disposti al lavoro e alla fatica; molti vorrebbero trovare la scorciatoia che li metta in grado di fare colpo sul prossimo, anche se non hanno assolutamente niente da dire, anche se non sarebbero capaci di fare cinque minuti di meditazione, in silenzio, realmente soli con se stessi.
Pullulano i falsi maestri, le false guide, i falsi esperti, specialmente nella sfera della riflessione, della ricerca interiore, della spiritualità: i ciechi non vogliono fare la fatica di aprire gli occhi, vogliono essere presi per mano da qualcuno che ci veda o che affermi di vederci benissimo; i dormienti non vogliono prendersi il disturbo di svegliarsi, a loro è sufficiente che qualcuno li rassicuri sul fatto che sono perfettamente svegli e perfettamente lucidi, e che ai loro sensi vigili e attenti non potrà mai sfuggire alcunché d’importante.
Un filosofo disse, una volta, che gli uomini non sono afflitti dalle cose, ma dall’opinione che hanno delle cose; e, se questo è vero, perché mai bisognerebbe sobbarcasi la fatica di voler conoscere le cose, quando basta possedere una opinione intorno ad esse, quale che sia; una opinione qualunque, fosse pure poggiante sul nulla, anche sulle cose che non si sono mai viste, né udite, né sperimentate?
Perché cercare la verità, se basta parlarne con la sicurezza di chi la frequenta da sempre; perché, soprattutto, puntare alla verità, quando ci sono dieci, cento, mille verità a nostra disposizione, ciascuna in bella mostra sugli scaffali del supermercato, e tutte ad un prezzo estremamente conveniente?
Se ne possono avere anche due al prezzo di una, anche tre al prezzo di due: dunque, perché fare i difficili, perché prendere le cose tanto sul serio, quando è sufficiente fare sfoggio di parole in luogo delle cose; e sommergere gli altri sotto un diluvio di parole, di belle frasi, di dotte citazioni, di chiacchiere astruse, anche se non si è mai fatta la fatica di spostare nemmeno un filo di paglia nel mondo delle cose reali, della vera ricerca personale?
Il pubblico, del resto, non vuole LA verità, gli basta UNA verità; non vuole la verità perché è complessa, perché è sfaccettata, perché richiede tempo e lavoro per essere almeno riconosciuta, non diciamo per essere compresa.
Davanti a una brutta architettura, a un brutto dipinto, a una brutta scultura, perché darsi la pena di pensare, valutare, riflettere, quando basta accodarsi al giudizio dei signori critici, e dire che è una gran bella opera, ricca di profondi significati, soprattutto moderna e all’avanguardia? Davanti a un discorso filosofico contorto, incomprensibile, pretenzioso, perché rischiare una brutta figura, dicendo francamente di non averlo capito, magari perché non c’è nulla da capire, quando è tanto più semplice darsi l’aria di aver compreso tutto, apprezzato ogni frase, e dire di sottoscrivere ogni singola affermazione?
I ciechi non vogliono vedere e i dormienti non desiderano essere svegliati dai loro placidi sonni; c’è pure il caso che, costretti a vedere o svegliati bruscamente, si arrabbino con il guastafeste che li ha messi alle prese con una realtà molto più varia e difficile di quel che pensavano, costringendoli ad assumersi le loro responsabilità.
La cosa è ancora più evidente quando si tratta di persone limitate, ma ambiziose, le quali, stringendo i denti, con tanto impegno ma con poca comprensione delle cose e con nessuna consapevolezza di sé, sono riuscite a completare un corso di studi universitario e perfino a vincere qualche concorso: convinte di aver fatto un duro tirocinio (mentre la durezza era tutta del loro comprendonio), si impancano a gran sapienti e fanno del loro meglio per rendere la vita difficile ai malcapitati studenti che finiscono nelle loro grinfie.
L’unico modo per imparare a vedere, infatti, è quello di aprire gli occhi; così come l’unico modo di essere desti, è quello di svegliarsi, anche se si avrebbe voglia di dormire. È una follia fidarsi di ciò che dicono altri individui, i quali sostengono di poter vedere al posto nostro e di poterci guidare, anche se dormiamo; o che, peggio ancora, affermano che non stiamo dormendo, ma siamo ben svegli, quando è vero il contrario.
Invece dobbiamo imparare a vedere con i nostri occhi, a ragionare con la nostra mente: questa è la sola strada per divenire individui consapevoli e non restare pecore nel gregge, non ve ne sono altre, se non quelle dell’inganno, della menzogna, della cattiva coscienza.
Ci si può domandare, semmai, se valga la pena, una volta che si sia giunti alla soglia della consapevolezza, di voler condividere con altri la propria solitaria fatica; se abbia senso attirarsi l’animosità, la gelosia malcelata, il sordo rancore di quanti dormivano sonni beati, ma pretendevano di essere considerati perfettamente svegli, attenti e meditabondi. A che scopo affrontare tutto ciò, se coloro che si vorrebbero fare partecipi della propria conquista non sono disposti nemmeno a riconoscere di non vedere e di non sapere?
Sembrerebbe un’impresa velleitaria e sostanzialmente inutile, oltre che autolesionista; invece è utile e necessaria, e ciò per almeno due ragioni.
La prima è che una tale impresa fa parte della chiamata, che nessun essere umano, se è degno di questo nome, può fingere di non sentire: rispondere alla chiamata è lo scopo stesso della vita che ci è stata data, del nostro essere uomini.
La seconda ragione è che, anche se i semi cadono su un terreno ingrato e non disposto ad accoglierli, nondimeno alcuni di essi potrebbero attecchire; forse non oggi e neppure domani; forse tra molti anni: chi può dirlo? Ma, prima o poi, qualcun altro verrà stimolato ad aprire gli occhi proprio dall’esempio ricevuto a suo tempo; anche se, stando alle apparenze, sembrava che questo fosse caduto interamente nel vuoto.
Bisogna, pertanto, che quanti sono riusciti, a prezzo di duri sforzi solitari, ad intravedere un po’ di luce, sopportino l’ironia, il disprezzo e l’avversione degli altri, senza stancarsi di comunicare ciò che hanno scoperto.
Ciò che conta sono lo spirito di servizio e la gratuità: perché gratuitamente siamo stati aiutati a vedere un po’ di luce nelle tenebre, e gratuitamente dobbiamo trasmetterla a nostra volta….
di Francesco Lamendola - 30/04/2012

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