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giovedì 31 maggio 2012

Per teologi modernisti


Darwin era un invasato che sottometteva la ricerca scientifica alla sua  virulenta teofobia

La religione scientista oggi imperante ci ha trasmesso, insieme alla clamorosa falsificazione della verità circa la teoria dell’evoluzione delle specie per selezione naturale, indebitamente presentata come un fatto certo e dimostrato, anche l’immagine agiografica di un Darwin perfettamente sereno e imparziale nel valutare i pro e i contro della sua teoria, non mosso dal benché minino pregiudizio ideologico, ma solo e unicamente da un ardente e spassionato amore per la verità, quale che essa si riveli all’indagine scientifica.

In particolare, si insiste sul fatto che egli dovette continuamente fronteggiare il fanatismo e l’intolleranza dei suoi miopi e ottusi contemporanei, a cominciare dal capitano del «Beagle», Robert FitzRoy, che, secondo lo storico americano H. W. Van Loon, lo sottoponeva a sgradevoli soliloqui religiosi di tipo fondamentalista quando si trovavano riuniti intorno alla tavola del brigantino di Sua Maestà Britannica; per non parlare degli attacchi che gli vennero rivolti, dopo la pubblicazione dell’«Origine delle specie», da parte della Chiesa anglicana, e specialmente da parte del reverendo Samuel Wilberforce.
Secondo l’agiografia evoluzionista, dunque, Darwin sarebbe stato un uomo assolutamente superiore a tali, deplorevoli forme di oscurantismo e di ciarlataneria; preoccupato unicamente del vero, distaccato, signorile, addirittura irreprensibile nella sua rigorosa obiettività di scienziato.
A dire il vero, tanto distaccato e tanto signorile non era, vista la maniera in cui diede comunicazione della sua teoria, insieme a quella, pressoché identica, di Alfred Russel Wallace, che, dall’altra estremità del mondo, a lui si era rivolto per metterlo a parte, con assoluta fiducia, delle proprie congetture, ed inoltrarle alla Lynnean Society; ma di ciò abbiamo già parlato in altra sede, e non vi torneremo sopra (cfr. l’articolo «Darwin, un ambizioso “furbetto”, e la leggenda dei fringuelli delle Galapagos», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 09/03/2011).
Ma l’immagine di un Darwin tutto preso dalla ricerca spassionata della verità, asceticamente disinteressato, privo di ambizioni personali e superiore a qualsiasi sospetto di faziosità o partigianeria, riceve un duro colpo dalla lettura del suo carteggio con Wallace, il quale, a un certo punto, palesò il proprio dissenso rispetto all’impostazione rigidamente materialistica di lui, sostenendo che solo un fattore trascendente poteva spiegare lo sviluppo del cervello umano oltre qualunque necessità richiesta dal meccanismo dell’evoluzione naturale.
La sua reazione sdegnata, incredula, furente, ricorda quasi alla lettera quella che, mezzo secolo più tardi, avrà Sigmund Freud, il padre di un’altra famosissima teoria scientifica (o pseudoscientifica) che ha impresso una svolta alla visione del mondo moderno, quella psicanalitica, allorché il più brillante dei suoi discepoli, Carl Gustav Jung, manifestò il proprio dissenso, e per delle ragioni tutto sommato analoghe: il rifiuto di ammettere che la spiegazione dei fatti della psiche si esaurisca interamente nel meccanismo della sola mente individuale.
E, sia nel caso di Darwin che in quello di Freud, non si tratta semplicemente dell’indignazione del maestro che si sente tradito e che sente tradito il proprio lavoro - Wallace, peraltro, non era discepolo di Darwin, ma ricercatore suo pari, quindi l’accusa rivolta da Darwin a Wallace di aver ucciso se stesso e gli studi di lui, Darwin medesimo, partiva da una pretesa illegittima oltre che immodesta -; si tratta di qualcosa di più profondo e di più astioso.
Entrambi, Darwin e Freud, credevano alla propria teoria con la tetragona, viscerale passionalità con cui si aderisce a un credo religioso di tipo fideistico: con attaccamento feroce, totale, identificandosi e annullandosi in essa; qualunque obiezione nei confronti della religione di salvezza da essi ideata, specie se proveniente da qualcuno che essi credevano dalla loro parte, aveva il sapore di una intollerabile eresia, di una minaccia diretta alla sacra Verità.
Entrambi erano stati i primi convertiti alla religione da essi ideata; e, come è proprio dei neo-convertiti, specialmente se hanno dovuto superare dubbi e incertezze, la “conversione” finale ebbe il significato di una svolta irrevocabile non solo del loro modo di pensare, ma altresì del loro modo di SENTIRE: l’uomo vecchio, in essi, era morto per sempre, perché aveva deciso di suicidarsi, e l’uomo nuovo si era modellato sulle rocciose certezze del nuovo credo; non una verità, dunque, ma LA verità, l’unica Verità lecita, che non si può neanche immaginare di mettere in dubbio, pena l’auto-annullamento.
Si tratta di un atteggiamento niente affatto scientifico; ma né Darwin, né Freud avevano la “forma mentis” dello scienziato: entrambi erano propensi a formulare delle teorie generali, per poi andare in cerca dei fatti che potessero suffragarle, tralasciando quelli “scomodi”, che mal si sarebbero accordati con essa..
Darwin, in particolare, non aveva studiato da naturalista, ma da teologo; suo obiettivo era di trovarsi una tranquilla parrocchia al termine del suo viaggio sul «Beagle», per fare il pastore di anime; e salì a bordo della nave non come naturalista, ma come volonteroso dilettante di scienze naturali, grazie alle sue amicizie.
Non elaborò affatto la sua teoria nel corso degli anni della circumnavigazione, durante i quali prese molti abbagli, come nel caso dei fringuelli delle Galapagos, e commise molti errori nella raccolta e nella catalogazione dei campioni zoologici e paleontologici; la elaborò, assai lentamente, solo dopo il ritorno a casa, lottando contro le proprie resistenze di tipo teologico ad ammettere che il caso, secondo tale teoria, era il solo ed unico motore della selezione naturale.
Aveva alternato, per molte ore al giorno, la lettura dei «Principles of Geology» di Charles Lyell, da cui ricavò l’idea - essenziale alla sua teoria dell’evoluzione, ma in se stessa non verificabile - che i fenomeni naturali avvengono sempre in maniera lenta e uniforme, mai per “salti” o per scosse improvvise, con quella di ponderosi trattati di teologia morale, perfino di papi del tardo Medioevo, come Eugenio IV; e non riusciva a conciliare le diverse e pressoché opposte visioni del mondo che ne scaturivano.
La sua prostrazione fisica e la sua debolezza nervosa, manifestatesi negli anni in cui lavorava alla formulazione della sua teoria, hanno origine, probabilmente, da tale dissidio irrisolto, da tale lacerante conflitto interiore.
Quando, infine, ruppe gli indugi e decise di dare credito alla teoria dell’evoluzione - e chissà quando avrebbe trovato il coraggio di farlo, se la concreta possibilità che Wallace lo “scavalcasse”, ricevendo per sé tutta la gloria cui egli stesso, ardentemente, aspirava -, Darwin lo fece in maniera categorica e “fideistica”, portandovi, cioè, tutto il bisogno di irremovibile certezza che lo aveva straziato nel corso delle sue lotte interiori.
Del resto, finché si parlava delle specie vegetali e animali, il conflitto religioso poteva anche restare sullo sfondo; ma, quando si trattò di formulare, in maniera esplicita, una teoria dell’origine dell’uomo, deducendola dalle premesse generali dell’evoluzione, le cose stavano diversamente; e si può meglio comprendere la sua risentita, scandalizzata reazione di fronte alla posizione assunta da Wallace riguardo a tale questione.
Wallace, infatti, non era un discepolo qualsiasi, ma un naturalista che aveva elaborato per proprio conto la medesima teoria, le sue riserve circa l’interpretazione materialista dell’evoluzione, anzi, il suo rifiuto di sottoscriverle, almeno per quel che riguarda l’uomo, gli fecero rivivere l’incubo dei suoi stessi tormenti e delle tensioni morali precedentemente sopportati, e che non era più disposto a sopportare.
Scrive Francis Hitching nel suo libro «Atlante dei misteri» (titolo originale: «The world Atlas of Mysteries», 1978; traduzione italiana di Edy Minguzzi, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1985, pp. 23-24):

«Oltre ad essere, forse, il più grande dei misteri, il nostro cervello è anche una spina nel cuore della teoria darwiniana dell’evoluzione per selezione naturale, come lo stesso Darwin riconobbe.
Il suo grande amico Alfred Russel Wallace, che era pervenuto alle stesse conclusioni, contemporaneamente a Darwin, sul principio generale dell’evoluzione, concluse che c’era una sola specie a cui non si poteva applicare: l’uomo. Nel nostro caso, scrisse, abbiamo sfidato il principio della selezione naturale, secondo il quale “la natura non fornisce mai ad una specie doti superiori a quanto richieda l’esistenza quotidiana”. Eppure il cervello è uno strumento sviluppatosi ben oltre le nostre esigenze. La selezione naturale e la lotta per la sopravvivenza non potrebbe in nessun modo spiegare la genialità, o anche le normali abilità artistiche, matematiche e musicali. Deve essere intervenuto un altro fattore, che secondo Wallace sarebbe di natura trascendente.
Loren Eiseley, uno dei principali antropologi degli Stati Uniti, racconta che non appena Darwin lesse questa considerazione del suo amico, vi scrisse sopra angosciato un “No!”, e sottolineò pesantemente il “No” tre volte, animato da crescente furore.
Scrisse poi addolorato a Wallace: “Se non fossi stato tu stesso a dirmi che questa idea era tua, non l’avrei mai creduto. Le nostre divergenze sono profonde, e me ne dispiace. Spero solo che tu non abbia ucciso in modo troppo definitivo te stesso e il frutto dei miei studi.
Benché l’obiezione di Wallace sia così importante e così irrefutabile oggi come allora, ciò nonostante la teoria darwiniana non è mai stata affossata, soprattutto perché spiega in modo esauriente la maggior parte dello sviluppo delle specie animali e la selezione naturale è considerata un fattore fondamentale per spiegare l’esistenza della maggior parte degli esseri viventi.»

Quel triplice “No”, scritto con ira sopra le parole di Wallace, è altamente rivelatore; esso non discende da una pacata concezione scientifica, ma ci ricorda una condizione psicologica che chiunque abbia letto il Nuovo Testamento riconosce immediatamente: è il gesto di Caifa, nel Sinedrio di Gerusalemme, di stracciarsi le veste davanti a Gesù che, interrogato, si proclama il Cristo, Figlio di Dio.
Nella religione giudaica, il gesto di stracciarsi le vesti esprimeva il massimo dell’indignazione morale davanti a uno scandalo o a una affermazione sacrilega; e tale espressione è passata nel parlare degli uomini moderni, conservando, quasi alla lettera, il significato originario, anche al di fuori di una eventuale connotazione religiosa: essa esprime perfettamente lo zelo appassionato, viscerale, intollerante, di chi si ritiene il custode della sacra verità e non possa, né voglia, sopportare l’oltraggio di vederla offesa o deturpata.
Codesti “custodi” considerano la propria vita come una missione, quella di vigilare sulla verità, denunciando con il massimo vigore qualunque attentato contro di essa; è lo stesso meccanismo psicologico che spinge Freud a prendere per il braccio il giovane Jung e ad esigere la promessa che questi sarebbe stato sempre al suo fianco, per combattere contro la «nera marea di fango», come lo stesso Jung ricorda nel suo libro di memorie.
Tutto ciò, nel caso di Darwin, diviene più chiaro se si tiene presente il durissimo conflitto interiore che egli dovette sperare per giungere alla “verità” della sua teoria dell’evoluzione per selezione naturale. In fondo, egli si rammaricava che una tale teoria scacciasse dall’orizzonte l’immagine di un Dio pietoso e provvidente, cui aveva creduto nella propria giovinezza; e, come un innamorato deluso, non era disposto a riaprire in se stesso quella ferita, una volta convinto di essere rimasto solo e abbandonato.
Il suo stato d’animo è stato bene illustrato dallo scrittore Irving Stone nel suo libro «L’origine. Il romanzo di Charles Darwin» (titolo originale: «The origin. A biographical novel of Charles Darwin», 1980; traduzione italiana di M. Giardini Ozzola, Milano, Dall’Oglio, 1980, p. 771), là dove fa pronunciare al suo protagonista queste amare parole: «Le mie opinioni teologiche sono molto confuse. Non posso guardare all’universo come il risultato di cieca occasionalità, però non trovo una sola prova di un disegno superiore, anzi non vedo disegni di alcun genere. In quanto al fatto che ogni variazione debba per forza essere stata preordinataper un fine speciale, è come credere che il luogo su cui cade ogni goccia di pioggia sia stato predisposto.»

di Francesco Lamendola - 25/05/2012

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte] 
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