L'ultima sua intervista, pubblicata postuma, ha acceso la polemica.
Le alte gerarchie della Chiesa l'hanno passata sotto silenzio, con
l'unica eccezione del cardinale Ruini. Un motivo in più per analizzarla
criticamente
ROMA, 6 settembre 2012 – "Il cardinal Martini non ci ha lasciato un testamento spirituale, nel senso esplicito della parola. La sua eredità è tutta nella sua vita e nel suo magistero e noi dovremo continuare ad attingervi a lungo. Ha, però, scelto la frase da porre sulla sua tomba, tratta dal salmo 119 [118]: 'Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino'. In tal modo, egli stesso ci ha dato la chiave per interpretare la sua esistenza e il suo ministero".
Con queste parole pronunciate il 3 settembre nell'omelia dei funerali del suo predecessore cardinale Carlo Maria Martini, l'arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, ha revocato la qualifica di "testamento spirituale" all'intervista di Martini pubblicata il giorno dopo la sua morte dal "Corriere della Sera":
> L'ultima intervista: "Chiesa indietro di 200 anni. Perché non si scuote, perché abbiamo paura?"
In effetti, se davvero questa intervista fosse la quintessenza del lascito di Martini alla Chiesa e al mondo – come i curatori della stessa hanno voluto far credere – la figura del defunto cardinale corrisponderebbe proprio a quell'etichetta di "antipapa" che gli è stata applicata negli anni da circoli interni ed esterni alla Chiesa, ma che cozza clamorosamente con le alte e commosse attestazioni di stima espresse più volte nei suoi confronti dallo stesso Benedetto XVI, da ultimo nel suo inusuale messaggio all'arcidiocesi di Milano nel giorno dei funerali di colui che ne fu l'arcivescovo dal 1979 al 2002:
> "Cari fratelli e sorelle, in questo momento desidero esprimere..."
A raccogliere l'intervista, lo scorso 8 agosto, tre settimane prima della morte del cardinale, è stato il gesuita austriaco Georg Sporschill, accompagnato da un'italiana residente a Vienna, Federica Radice Fossati Confalonieri.
Padre Sporschill è il medesimo che nel 2008 curò la pubblicazione del libro di maggior successo dello stesso Martini, anch'esso in forma di intervista, "Conversazioni notturne a Gerusalemme".
Se a questo libro si aggiungono gli altri libri-intervista pubblicati da Martini in questi ultimi anni, scritti a quattro mani con dei cattolici "borderline" come don Luigi Verzé e il medico Ignazio Marino e irti di tesi ambigue o eterodosse sull'inizio e la fine della vita, il matrimonio e la sessualità, la divaricazione tra questo cardinale e gli ultimi due papi apparirebbe ancor più marcata.
Tra le alte personalità della Chiesa che nei giorni scorsi si sono espresse sulla figura del cardinale defunto, il solo cardinale Camillo Ruini, presidente della conferenza episcopale italiana dal 1991 al 2007, non ha sottaciuto questa divaricazione.
In un'intervista a Marina Corradi su "Avvenire" del 1 settembre, all'osservazione che su temi come fecondazione artificiale e unioni omosessuali "Martini sembrava più aperto alle ragioni di certa cultura laica" e "ha espresso pubblicamente posizioni chiaramente lontane da quelle della CEI" di cui faceva parte, Ruini ha risposto:
"Non lo nego, come non nascondo che resto intimamente convinto della fondatezza delle posizioni della CEI, che sono anche quelle del magistero pontificio e hanno una profonda radice antropologica".
E in una successiva intervista al "Corriere della Sera" del 5 settembre ha così commentato l'affermazione di Martini, nel suo presunto "testamento spirituale", secondo cui "la Chiesa è indietro di 200 anni":
"A mio parere, occorre distinguere due forme di distanza della Chiesa dal nostro tempo. Una è un vero ritardo, dovuto a limiti e peccati degli uomini di Chiesa, in particolare all'incapacità di vedere le opportunità che si aprono oggi per il Vangelo. L'altra distanza è molto diversa. È la distanza di Gesù Cristo e del suo Vangelo, e per conseguenza della Chiesa, rispetto a qualsiasi tempo, compreso il nostro ma anche quello in cui visse Gesù. Questa distanza ci deve essere, e ci chiama alla conversione non solo delle persone ma della cultura e della storia. In questo senso anche oggi la Chiesa non è più indietro, ma è più avanti, perché in quella conversione c'è la chiave di un futuro buono".
A parte Ruini, però, nessun altro importante dirigente di Chiesa ha fatto cenno, nel commenti seguiti alla sua morte, agli elementi effettivamenti controversi della figura del cardinale Martini.
La memoria è andata esclusivamente e genericamente ai suoi meriti di biblista e di pastore, alla Scuola della Parola, alla promozione della carità, al dialogo con i non credenti, alla prossimità alle difficili situazioni esistenziali.
In altre parole, il ricordo quasi esclusivo è stato per il Martini arcivescovo, non per il Martini leader d'opinione degli ultimi anni, esaltato dai media laici, oltre che dai fautori cattolici di un immaginario Concilio Vaticano III e di una Chiesa democratizzata.
Si è assistito cioè, nei giorni scorsi, a un diluvio di commemorazioni fortemente selettivo. Con un quasi universale silenzio calato sugli aspetti problematici del personaggio e sulle sue uscite pubbliche degli ultimi anni.
Ciò non ha impedito, però, che l'intervista presentata come "testamento spirituale" di Martini, da lui "letta e approvata", abbia fatto il giro del mondo, consolidando proprio quella sua immagine di profeta alternativo che ai vertici della Chiesa si vorrebbe esorcizzare.
Un motivo in più per rileggere e analizzare criticamente questa intervista postuma, come fa il professor Pietro De Marco, docente all'università di Firenze e alla facoltà teologica dell'Italia centrale, nella nota che segue.
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L'ULTIMA INTERVISTA DI CARLO MARIA MARTINI
di Georg Sporschill S.I. e Federica Radice Fossati Confalonieri
D. – Come vede lei la situazione della Chiesa?
R. – La Chiesa è stanca, nell'Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l'apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (…) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell'istituzione.
D. – Chi può aiutare la Chiesa oggi?
R. – Padre Karl Rahner usava volentieri l'immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell'amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque.
D. – Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa?
R. – Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un'autorità di riferimento o solo una caricatura nei media? Il secondo [è] la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (...). Né il clero né il diritto ecclesiale possono sostituirsi all'interiorità dell'uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti. Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l'indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (...). L'atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l'avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della comunione noi preghiamo: "Signore non sono degno..." Noi sappiamo di non essere degni (...). L'amore è grazia. L'amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?
D. – Lei cosa fa personalmente?
R. – La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall'aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l'amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l'amore vince la stanchezza. Dio è amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?
(Dal "Corriere della Sera" del 1 settembre 2012)
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La genesi dell'intervista nella ricostruzione fatta dal "Corriere della Sera" del 4 settembre:
>"Voleva che l'ultima intervista fosse inserita nel testamento"
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NOTE CRITICHE SU "L'ULTIMA INTERVISTA" DEL CARDINALE MARTINI
di Pietro De Marco
È spiacevole accostarsi allo scomparso cardinale Carlo Maria Martini con una disposizione critica. "De mortuis nil nisi bonum". Ma la cosiddetta sua "ultima intervista" me lo chiede in coscienza, per la forte equivocità dei rilievi e dei giudizi sulla Chiesa affidati dal cardinale al padre gesuita Georg Sporschill e a Federica Radice Fossati Confalonieri.
I temi, i lasciti, presenti alla mente di Martini tre settimane prima della morte, così come ci vengono riportati nel testo dell’intervista, sono dunque:
- la stanchezza della Chiesa e l’assenza di ardore e di eroismo;
- l’arretratezza della Chiesa rispetto alla storia, per cui la paura prevale sul coraggio;
- la semplicità del cuore come criterio pastorale, anzi ecclesiale: "Solo l’amore vince la stanchezza".
Queste tracce di spiritualità hanno nel Martini dell’intervista almeno due caratteristiche paradossali:
1) sembrano presumere in chi parla un sofferto isolamento, mentre esse, incluse le aspre note riformistiche e critiche, suonano ripetitivamente da decenni su tante bocche, diversamente qualificate;
2) si avvalgono di argomenti o di richiami teologicamente approssimativi; anche questo non è nuovo e mi è capitato di notarlo più volte su questo sito, tra il 2007 e il 2009.
Valga un esempio dalla risposta centrale, la più estesa. “Né il clero né il diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti”. Bello, forse, per chi si arresti al suono delle parole, ma equivoco, poiché la recezione di una formula del genere, oggi, non può essere che soggettivistica: il dogma (quello trinitario, ad esempio) sarebbe dato per "chiarire" la voce della coscienza individuale in me o nella mia relazione con l’altro! Non mi sorprende che questo registro di religiosità tardoborghese ottenga consenso nello "stanco" Occidente.
Ma torniamo all’inizio dell’intervista. La Chiesa è vecchia e stanca e la grandezza materiale delle chiese, la pesantezza degli apparati, degli abiti, la sfiancano. Abbiamo bisogno di liberarci di tutto questo per essere, almeno, più vicini al prossimo. Se qualcuno ha l’eroicità, la vitalità, di farlo non deve subire vincoli dall’istituzione. Anche questo è un "topos" antico, ricorrente. E, ad un tempo, è misconoscimento di dati religiosi e cattolici essenziali, come sanno bene la dottrina e il discernimento della Chiesa sui carismi e la profezia.
Che cattedrali, paramenti e ordinamenti siano un peso per la vitalità della Chiesa è un pensiero ottocentesco, un po' da socialismo utopistico cristiano, un po' da primato liberale della coscienza, del sentire interno: sensibilità diverse che suppongono entrambe un precedente smarrimento della verità del segno e del sacro.
Al contrario, edifici sacri e splendore liturgico parlano di Dio, con un potere di trascendimento della chiusura soggettiva che nessuna parola consolatoria, nessuna umana "vicinanza" hanno.
Considerare l’apparire, la manifestazione visibile e sacramentale, della Chiesa come in gran parte "cenere" è, allora, un singolare equivoco. L'idea, attinta a Karl Rahner, di “così tanta cenere sopra la brace” è, in sé, una metafora offensiva per gran parte della Chiesa: finisce col far coincidere con la "cenere" tutto, opere e istituzioni, dalla gerarchia al dogma, alla carità, per elevare arbitrariamente a "brace" i soliti protagonisti, i cosiddetti "profeti" e alcuni "martiri" sociali, e i loro ammiratori che, infatti, ora si esaltano alle parole e al lascito del cardinale.
L’idea, poi, delle dodici persone al governo della chiesa, vicine ai poveri e circondate da giovani, “in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque”, sa di utopismo visionario. La letteratura del Novecento europeo (penso al "Maximin" di Stefan George) è ricca di giovani che aprono la storia "nuova" col passo leggero e lo sguardo puro di chi non è gravato di passato. Ma nella vitalità di una tradizione religiosa non è la condizione giovane come tale che conta. Giovanni Battista non è profeta perché giovane.
Il riferimento, nella lunga risposta centrale, ai sacramenti come "aiuto per gli uomini nel momento del cammino e nelle debolezze della vita", fa pensare a una concezione non misterica, non ontologica, dei sacramenti: non a caso il rinnovamento liturgico è fallito, smarrendo subito, nel dopoconcilio, la teologia liturgica dei Casel, degli Jungmann, dei Vagaggini, per un nuovo soggettivismo della "partecipazione" assembleare al rito.
Su un tale sfondo, le notazioni pastorali del cardinale restano orizzontali, pragmatiche, troppo "umane". A questo contribuiscono anche le domande degli autori dell’intervista, dove la Chiesa è assimilata a una organizzazione, da "curare" con "strumenti" pastorali che sono poi principalmente strategie di "esonero" morale e dogmatico.
Lascio per ultima la battuta: "La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni". Nei lontani anni Sessanta – anni che nelle rievocazioni dell’imminente cinquantenario conciliare sarà opportuno trattare con la severità che meritano – simili stereotipi erano il pane quotidiano dell'eloquio "riformatore" e secolarista. Ma oggi non hanno più senso, dopo mezzo secolo di fallimenti di quelle teologie improvvisate e soprattutto dopo mezzo secolo di chiarimenti critici sulla modernità. Il metro evoluzionistico che ci fa misurare avanzamenti o ritardi culturali tra contemporanei non ha consistenza filosofica e la modernità non deve godere di nessun privilegio.
La debolezza di fronte alle obiezioni dei moderni è una sindrome che ha colpito molti nel corso del Concilio. Il cardinale Martini ha parlato spesso del "non credente" che era in lui. Certo: chi non ha vissuto o non vive questa dialettica? Ma altro è scoprire in se stessi ragioni e sofferenze del non credere, altro è "ospitare" in sé esistenzialmente il non credente, dargli uno spazio, lasciargli occupare legittimamente il "foro interno". Qui sta l'equivoco di Martini come di molte generazioni e intelligenze cristiane.
Mi si dice: vanno criticati gli stereotipi, non la santa, amata, persona del cardinale gesuita. Ma non ci si impedisca di vedere che quella santa persona non è stata in grado di evitare a se stesso di proporre alla Chiesa e ai "lontani" proprio quei ripetitivi enunciati che i "lontani" conoscevano a memoria, provenendo da loro.
Lo stesso richiamo a non avere "paura" del nuovo è uno dei più triti, e non coincide davvero con il memorabile "non abbiate paura" di Giovanni Paolo II, anzi, ha il significato opposto.
Equivocare la cura cattolica per principi e verità e vita – cardini del magistero degli ultimi papi – con una "reazione di paura" di fronte al nuovo, è rovesciamento della realtà.
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Del professor De Marco, www.chiesa ha pubblicato a suo tempo l'ampia recensione critica del libro del cardinale Martini "Conversazioni notturne a Gerusalemme", anch'esso in forma di colloquio con il medesimo gesuita, Georg Sporschill, che ha raccolto la sua cosiddetta "ultima intervista":
> Dio non è cattolico, parola di cardinale (12.11.2008)
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