ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 6 settembre 2012

Latinorum


Era colpa del latino se diminuiva la frequenza dei fedeli alla messa?

La decisione di abolire il latino come lingua liturgica e sostituirlo con le lingue moderne, benché non voluta né, forse, auspicata dal Concilio Vaticano II, senza dubbio è stata resa possibile dal clima culturale che il Concilio medesimo ha instaurato nel mondo cattolico.
In realtà, il latino era già da tempo sotto accusa, in taluni ambienti cattolici sedicenti progressisti: gli si imputava la responsabilità, in qualche modo, per la diminuzione della frequenza popolare al rito della messa e, pertanto, più o meno esplicitamente si auspicava che fosse accantonato, per cedere il passo alla lingua italiana.
Il cardinale Giuseppe Siri affrontava la questione, con la ben nota franchezza, in una data non sospetta, il 1958, ossia quattro anni prima dell’inizio del Concilio, in un documento ufficiale, di cui riportiamo alcuni passaggi chiave (da: G. Siri, «Non per noi Signore. Lettere pastorali» (Genova, Stringa Editore, 1971, pp.258 sgg.): 
«Dare al latino la colpa della diminuzione della frequenza popolare alle sacre funzioni è porre così male una questione da slittare nella ingiustizia e nella falsità.
Infatti le componenti della cognizione popolare della liturgia sono diverse; la intelligenza del latino è solamente una di quelle. Il popolo va meno in Chiesa perché non tutti abbiamo fatto il nostro dovere davanti a Dio in modo tempestivo e col grado di umiltà e sacrificio che si sarebbe richiesto. Dare al latino la responsabilità dei nostri difetti non è atto leale e veritiero e può essere facilmente multato di vigliaccheria. Se una soluzione vi può essere per la difficoltà recata dal latino, essa non può essere altra che questa, riportiamo il popolo alla profonda e nutrita cognizione del catechismo e del Vangelo, rieduchiamolo alla profondità e coerenza della vita religiosa e riavrà dalla liturgia tutti i benefici che ne hanno tratto per tanti secoli i suoi padri. […]
La liturgia non ha una sola dimensione, ne ha bensì tre ed il giudizio per quanto la riguarda non può essere dato secondo una sola dimensione; deve invece darsi secondo tute le dimensioni. […] la liturgia si protende anzitutto verso dio. In questo volgersi a Dio sta il primo aspetto che è essenziale ad essa. Ecco la prima grande dimensione della liturgia, quella che la estende “in alto”. La liturgia ha un essenziale rapporto all’ordine sacerdotale. […] la liturgia ha a che vedere col popolo cristiano e ciò a due titoli. Anzitutto perché è stata dotata, fatto unico nella storia umana, della funzione di veicolo della Grazia di Dio, realizzando un rapporto che va dal cielo alla terra. Questa grazia è per tutti i fedeli, anzi è a disposizione di tutti gli uomini. In secondo luogo perché la società dei fedeli realizza una comunità familiare il cui capo è Gesù Cristo e stabilisce una entratura familiare dei fedeli nelle cose che riguardano Dio. […]
L’equivoco (tanto per usare una parola benigna)su una parità di funzioni del clero e dei fedeli nella azione liturgica è aiutato dalla moda corrente (e non sappiamo per quanto, perché solo qualche lustro innanzi la moda era in senso contrario ed era già alternativa a mode contraddittorie) di anemizzare ed anche abolire ogni distinzione tra gli uomini, non avvertendo a ipocrisia e la instabilità della moda stessa, Infatti, per gli uomini che non sono santi, l’azione contro le distinzioni è sempre in funzione di ricercare nuove distinzioni e ciò è una finta. Altra cosa è attenuare le distinzioni che mancano di ragionevoli fondamenti; altra cosa è combattere le distinzioni basate sul bene della società, sul risalto dei pubblici uffici, sulla maestà della legge, sul valore, capacità e merito degli individui e sullo stesso divino decoro. Abolire la distinzione delle “funzioni” è tentativo di abolire la società (sia essa religiosa o civile); abolire la distinzione del valore e del merito è tentativo di abolire l’uomo. Gli equivoci e i complessi di inferiorità del nostro tempo non dobbiamo portarli in chiesa, neppure per battezzarli. […]
Si prova l’irresistibile voglia di trovare il colpevole, che sia possibilmente ben definito, unico e soprattutto facile a essere bersagliato. Così, a loro modo d’intendere, tutto si sistema con paca fatica. Il fatto è che a questo mondo nei fenomeni complessi quasi mai si hanno colpevoli unici e così facilmente definibili e condannabili. […] No, non è il latino il grande colpevole; è ben altro! In taluni ambienti operai la gente va pochissimo a Messa e niente a Vespro. La ragione è che là da decenni, se non da secoli, è completamente inefficiente od è stato inefficiente l’insegnamento del catechismo. Altrove la ragione è che i pastori on hanno avuto in grado efficace quegli elementi che arrecano la onesta e fruttuosa popolarità, per cui si sta vicini al popolo. Quegli elementi cominciano sempre dalla umiltà e dal sacrificio. In tale caso è semplicemente vigliacco dare la colpa all’ordinamento ecclesiastico, diventare autentici iconoclasti e costruire chiese che non hanno neppure l’apparenza di un vecchio e mal conformato solaio. Non è in quella viva carne della Chiesa che si debbono fare delle operazioni e delle asportazioni violente; è nell’anima di coloro che hanno così poca teologia in testa e così poca virtù nell’anima da trovarsi in complesso di inferiorità di fronte alle più squinternate esperienze della disperazione esistenzialistica moderna. […]
Concludiamo: bisogna comprendere che non la liturgia va abbassata, ma il popolo innalzato ad essa, che il culto è fatto per Dio e che non può aver come regola suprema le carenze di quelli che debbono servire Iddio, che la liturgia va considerata cosa ben più ampia (periodo più ampio) di quello che la massa popolare può e deve fare.»

Questa analisi ci sembra notevole per l’acume e la coerenza con cui viene affrontato il problema, doti che dovrebbero essere riconosciute anche da quanti si ponessero in una diversa prospettiva o non condividessero alcuni assunti di partenza.
L’uso del latino nella liturgia cattolica era un elemento consacrato da una tradizione antichissima; tutti i cattolici, mentre partecipavano alla messa, sapevano che milioni di altri fedeli stavano pregando con le stesse parole, nello stesso idioma; e questo era un potente fattore di unità spirituale, capace di scavalcare le frontiere e di rendere davvero ecumenica la liturgia, in un modo che nessuna altra lingua sarebbe stata in grado di fare.
Ma la fine degli anni Cinquanta e il principio dei Sessanta, in Italia e in Europa, erano un periodo di forti tensioni sociali e di intense aspirazioni psicologiche; dopo il trauma della guerra, la forte ripresa economica e l’avanzata del “benessere” avevano diffuso una mentalità nuova, bramosa di novità e di cambiamenti, insofferente del passato, dei vecchi modi di pensare e di sentire.
Nel nostro Paese, fu il decennio in cui si consumò il dramma della civiltà contadina, presa nelle maglie inesorabili della modernizzazione; civiltà contadina che venne smembrata e distrutta dall’interno prima ancora dall’esterno, dall’insorgere di una “forma mentis” basata sul guadagno ad ogni costo, prima ancora che dall’abbandono delle campagne. Il contadino vedeva la terra, per la prima volta, come una maniera di realizzare maggiori guadagni e non più come un modo di vivere, con i suoi valori e i suoi rituali: l’uso e l’abuso dei prodotti chimici per aumentare la produttività ebbe allora i suoi esordi, così come la distruzione delle siepi, simbolo del paesaggio rurale, per far passare i trattori e gli altri mezzi meccanici, in luogo del carro tirato dai buoi.
Era arrivata ovunque, e con forza incontenibile, la “fiumana del progresso”: si disprezzavano le vecchie abitudini provinciali, si voleva andare al cinema per vedere l’ultimo film di James Bond; nel modo di vestire, di parlare, di atteggiarsi, si voleva fare “gli americani”. Si cominciava a sognare la trasgressione, anche sessuale; si diffondeva l’idea che i giovani non avevano più niente da dire agli adulti e ancor meno agli anziani, e che i genitori servono più che altro per passare qualche soldo ai figli e per mantenerli agli studi: un “diritto” ormai indipendente dal merito e dall’impegno dello studente.
In questo contesto, il latino appariva come una tipica manifestazione del vecchiume mentale e culturale: una lingua morta, inutile, noiosa da imparare; tant’è che nel 1962, con la riforma della scuola media unica, il suo insegnamento obbligatorio venne abolito senza tanti complimenti e senza troppi rimpianti, sostituendolo con quello facoltativo; e ciò nel silenzio assordante della stragrande maggioranza degli intellettuali e degli uomini di cultura, degli scrittori, degli stessi operatori scolastici, presidi e professori.
In questo clima maturò anche dentro la Chiesa una nuova mentalità, ansiosa di novità, insofferente vero la tradizione e impaziente di qualunque indugio sulla via del “progresso”; si dava per scontato, da parte di molti, che il latino, e più in generale la liturgia, dovessero adattarsi al mutato clima culturale, proprio come stava avvenendo, o era già avvenuto, nel mondo laico, a cominciare dalla scuola pubblica dell’obbligo.
Svecchiare, svecchiare, rinnovare: queste erano le parole d’ordine; andare verso il futuro, sbarazzarsi della zavorra, del fardello del passato; la concezione illuminista della storia, basata sull’idea del progresso illimitato, era penetrata nella sfera del sacro e lo stava corrodendo e scardinando dall’interno, mediante le sue categorie immanentiste e materialiste, non senza esercitare un potente richiamo di seduzione tra le stesse file del clero.
Da Barbiana, dov’era arrivato nel dicembre del 1954 in seguito ai contrasti con il vescovo di Firenze, don Lorenzo Milani si preparava a lanciare un nuovo modello pedagogico che, di cristiano, conservava più che altro il nome, e di ecclesiastico nemmeno quello; sacerdote, insegnava ai suoi alunni un modo di porsi di fronte alla realtà sociale che era sostanzialmente lo stesso del marxismo, con la sua analisi tutta laica e immanente dell’ingiustizia e senza alcun riferimento alla condizione antropologica del peccato, fondamento e presupposto del Vangelo cristiano. Come per Marx e per Lenin, il male sociale è frutto dell’egoismo di pochi e si può combattere, forse eliminare, mediante la rivendicazione di classe, dura e intransigente; e, per intanto, don Milani non esitava a rinfacciare agli insegnanti “borghesi” la loro ipocrisia nel bocciare gli alunni impreparati, senza tener conto della loro estrazione proletaria, che li rendeva oggettivamente sfavoriti.
Il latino, dunque in una tale atmosfera, doveva necessariamente apparire come la testa di turco contro la quale tutti sono d’accordo di accanirsi, nella ferma convinzione che, una volta eliminatolo dalla liturgia, le pecorelle smarrite sarebbero tornate all’ovile; senza riflettere che la lingua liturgica è soltanto un mezzo per trasmettere una verità soprannaturale e che cambiare uno strumento può non servire a nulla, se i problemi autentici sono a monte.
Con coraggio e onestà intellettuale, Giuseppe Siri denuncia l’illusione o, peggio, la viltà di quanti se la prendono con il latino, per non guardare in faccia le vere cause della disaffezione popolare nella frequentazione della Chiesa: la mediocrità di un corpo sacerdotale inerte e passivo, oltretutto straziato da penosi complessi di inferiorità verso il mondo moderno e incapace, pertanto, di porsi come guida salda e credibile per i fedeli.
Certo, l’analisi non è spinta sino in fondo: così come era viltà scaricare sul latino colpe non sue, è pure ingeneroso prendersela con il clero secolare nel suo insieme: perché la secolarizzazione è uno di quei fenomeni storici che partono da lontano e che maturano lentamente, nel corso dei secoli, per poi manifestarsi in tutta la loro forza, quando ormai è tardi per correre ai ripari o anche soltanto per individuare delle risposte efficaci. Ed è un fenomeno che va molto, ma molto oltre la buona o la cattiva volontà dei singoli rappresentanti della Chiesa, la probità degli esempi che sono in grado di dare ai fedeli, la loro autentica fedeltà al Vangelo.
Il grande problema è sempre lo stesso: il contraccolpo, lento ma devastante, prodotto dalla Rivoluzione industriale, che ha strappato milioni di persone in tutto il mondo ai loro precedenti modi di pensare e di vivere e ha imposto ovunque il dominio tirannico di forze economiche sempre più impersonali, articolate e inafferrabili.
Quel contraccolpo ha provocato l’urbanesimo e l’utopia ruralista, il romanticismo e il positivismo, il nazionalismo e l’internazionalismo, le due guerre mondiali e le rivoluzioni russe, il comunismo e il fascismo, lo strapotere della finanza e la riduzione del lavoratore a operaio, la democrazia e il suo svuotamento pratico. E siamo ancora in mezzo al guado; stiamo ancora annaspando, divisi fra tentazioni reazionarie e fughe in avanti, nei dubbi paradisi della tecnica e del “progresso”.
La soppressione del latino in Chiesa non è stata che un episodio secondario di questa crisi epocale...
di Francesco Lamendola - 06/09/2012
Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte] 
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=43960

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