La beffa della sete nel deserto svela l’equivoco dei falsi discepoli
Che cosa distingue il vero discepolo da quello falso?
Il vero discepolo è colui che, dopo lungo e sincero cercare, incapace di progredire da solo, s’imbatte in qualcuno che ha già intrapreso la stessa strada e l’ha percorsa per un tratto assai maggiore, vincendo le difficoltà davanti alle quali egli si era arreso; e che riconosce in quello una guida e un maestro, non tanto proclamandosi suo ammiratore, quanto, soprattutto, cercando di far tesoro della sua esperienza.
Il falso discepolo è colui che ha cercato, sì, ma con animo fiacco e con scarsa convinzione; e che, quando s’imbatte in colui che lo ha preceduto sulla strada della ricerca e si è spinto molto più avanti di lui, se ne entusiasma, lo riempie di lodi, ma, da parte sua, non si sforza affatto di imitarlo, bensì aspetta di ricevere la pappa pronta, non avendo compreso che il segreto della ricerca non è il risultato, ma precisamente la strada che si fa per tentare di arrivarci.
Il vero discepolo sa che il maestro, o meglio colui che egli ha eletto tale, è un essere umano con le sue stesse fragilità, che tuttavia ha lottato contro di esse con animo più impavido e con maggiore perseveranza e che ha costruito la sua vittoria giorno per giorno, a prezzo di sacrifici durissimi: una vittoria sempre parziale, della quale, peraltro, non si inorgoglisce, perché sa che non è stata opera sua, ma che un aiuto dall’alto l’ha resa possibile.
Il vero discepolo, quindi, non cade in ridicole forme di esaltazione e di adulazione nei confronti del maestro; non lo mette su un piedistallo, ad altezze irraggiungibili, scusando così, inconsciamente, la propria pigrizia e la propria mancanza di coraggio, ma si pone verso di lui in una relazione aperta e matura, in cui l’ammirazione non fa velo alla limpidezza dello sguardo e l’umiltà non si trasforma in una comoda strategia per cullare se stesso nell’inerzia.
Il falso discepolo pone una distanza invalicabile fra sé e il maestro, perché, così facendo, giustifica la propria pochezza; esaltando oltre ogni limite ragionevole le qualità di quello, rende più accettabili i propri difetti e, soprattutto, si esime dall’impegno di seguire l’esempio di lui. In fondo, quello che vuole non è un aiuto per riprendere il cammino, ma una relazione di sudditanza che gli consenta di vivacchiare nell’ignavia e, nello stesso tempo, di tenersi le mani libere per difendere a ogni costo il proprio equilibrio, che intuisce minacciato da quella relazione.
Il falso discepolo è colui che ha smesso di cercare, ma non ha la franchezza di ammetterlo; che si gratifica mediante un transfert, cioè realizzando la ricerca interiore per interposta persona; e che pone il maestro a una distanza tale da sé, che lo dispensi dal condividere ulteriori fatiche, a cominciare da quella di mettersi eventualmente in discussione.
La presenza del maestro è, potenzialmente e costituzionalmente, destabilizzante: manda in crisi gli equilibri faticosamente raggiunti, anche se poggianti su compromessi, falsità e menzogne; costituisce un continuo rimprovero nei confronti della propria pigrizia, della propria viltà e della propria infedeltà a se stessi: perché tutti, in fondo, potremmo essere dei maestri, cioè delle guide, nei confronti di chi è rimasto più indietro di noi.
Ecco, allora, che per neutralizzare il pericolo di essere destabilizzati, si ricorre all’espediente della ammirazione sproporzionata, della lode iperbolica: quanto più si esalta il maestro, tanto più lo si disumanizza; e, se egli non è più un uomo, ma una specie di dio, allora le umane debolezze del falso discepolo sono scusate in partenza e non occorre lavorare su di esse, basta imparare a memoria la lezione del maestro, già bella e pronta, per sentirsi in pace con se stessi.
Il vero discepolo si riconosce da quello falso da tanti piccoli segni, da atteggiamenti quasi impercettibili, da espressioni che possono sfuggire all’osservatore un po’ distratto, ma non all’occhio e all’orecchio ben esercitati.
C’è, comunque, una maniera infallibile per riconoscere il falso discepolo: si tratta di stare in attesa del momento in cui il maestro avrà sete. Il maestro è un essere umano, abbiamo detto, con tutte le debolezze che sono proprie degli esseri umani: egli è diventato una guida in quanto le ha sapute guardare in faccia e affrontare con coraggio, non in quanto non ne possiede; perché, se non le possedesse, non sarebbe un uomo, ma un dio.
Questo, il falso discepolo non lo può capire e non lo può accettare; se lo capisse e se lo accettasse, allora non potrebbe più continuare il suo gioco, quello dell’eterno mendicante, della creatura eternamente fragile e bisognosa, eternamente alla ricerca di una guida e di un sostegno che la dispensino dalla fatica e dall’impegno di continuare a cercare, con le proprie forze e camminando sulle proprie gambe, invece di sedersi ai piedi della tavola altrui per mangiare gli avanzi che cadono a terra.
Ebbene, a un certo punto il maestro, come tutti gli esseri umani che intraprendono un lungo e pericoloso cammino nel deserto, avrà sete. Questa è una metafora per dire che anch’egli, a un certo punto, sarà afferrato dagli oscuri fantasmi dell’angoscia, della solitudine, dello smarrimento; e ciò avverrà tanto più facilmente, quanto più coraggiosamente si sarà spinto avanti nel deserto, sdegnando le piste già battute, avventurandosi fra le dune ove, forse, non si troveranno dei pozzi per molte giornate di cammino.
A quel punto anche il maestro, come tutti gli esseri umani, avrà il suo momento di crisi; anche lui sarà straziato dal tormento della sete e anche lui chiederà da bere. Ma il falso discepolo gli dirà, stupito e quasi scandalizzato: «Ma come, maestro, io dare da bere a te, che sei così nobile e grande? Io, con le mie mani impure, darti il mio otre d’acqua, io che non sono degno nemmeno di legarti i calzari? Non sia mai; la mia acqua è sporca e fangosa, e le tue labbra ineffabili meritano solo acqua purissima di fonte; la mia acqua è calda, mentre la tua sete può essere spenta solo dalla fresca acqua che scaturisce dalla montagna».
Così, il falso discepolo rifiuta di dissetare il suo maestro, perché dice di non esserne degno; e forse lo pensa davvero: ma, nel profondo, la vera ragione è che egli, nel suo feroce egoismo, non vuole vedere diminuita l’immagine di lui, vuole poterla conservare così come se l’è raffigurata: altissima, perfetta, sovrumana. È una forma di egoismo spietato, in quanto impone una maschera all’altro, quella della perfezione, per poter conservare la propria maschera, quella dell’indigenza: se il discepolo è costituzionalmente indigente, potrà continuare a mendicare e a vivere di elemosine, sentendosi sollevato da ogni responsabilità nei confronti degli altri e di se stesso.
Come è comodo, vivere da eterno mendicante! Certo, bisogna ingoiare l’amaro boccone dell’auto-umiliazione; ma, una volta superato questo scoglio, si finisce per scoprire che i vantaggi superano di molto il sacrificio della propria auto-stima: se non ci si potrà mai più reputare all’altezza di combinare qualche cosa di buono, in compenso ci si conquisterà un certificato permanente di indigenza cronica, che dà il diritto di elemosinare in qualunque circostanza e di aspettare sempre il boccone pronto dalle mani di qualcun altro - di qualche maestro di passaggio, cioè di qualcuno che abbia avuto più coraggio e che non si sia arreso.
La spietatezza di tale egoismo appare dal fatto che il falso discepolo, mentre nega un sorso d’acqua al maestro assetato, neppure per un istante è preso dalla compassione o dal rimorso; neppure per un attimo si commuove al pensiero che avrebbe potuto rendergli un servizio così grande, con così poca fatica e così poco merito; no, tutto quello che prova e che pensa è che il maestro, se si è abbassato a chiedergli un po’ d’acqua calda e fangosa, non era poi quell’essere semidivino che si figurava e quindi si sente deluso, perfino tradito.
È ben vero che il maestro non si era mai proclamato tale; consapevole dei suoi limiti, aveva solo acconsentito che il discepolo si ponesse alla sua sequela, che si nutrisse con il cibo da lui preparato, che si appoggiasse alla sua spalla nei tratti più difficili del cammino. A dichiararlo un maestro era stato il discepolo, sempre per quel suo bisogno di innalzare l’altro così da rendere accettabile il proprio auto-abbassamento; sempre per quella raffinata strategia di proclamare ricco l’altro, per poter scroccare i bocconi migliori alla sua mensa, in nome della propria indigenza.
Il falso discepolo è essenzialmente un manipolatore: dietro la sua apparente umiltà, dietro l’auto-disprezzo che riserva a se stesso, persegue una feroce strategia del dominio: vuole imporre una maschera all’altro, al maestro - la maschera della perfezione - per non doversi privare della propria maschera, che gli dà di che vivere come professionista dell’accattonaggio. Non vuol vedere il maestro per come è realmente, cioè per un essere umano, per non dover ammettere che lui stesso è un essere umano e che potrebbe alzarsi in piedi e smetterla di fingersi storpio o paralitico, perché le sue gambe, in fondo, funzionano benissimo.
Si potrebbe obiettare che il credersi o il sentirsi storpio e paralitico, pur senza esserlo, costituisce già di per sé una malattia e che il falso mendicante, in questo senso, è davvero malato, è davvero indigente; e, quindi, è davvero bisognoso di qualcuno che spezzi il pane per lui, che lo sorregga lungo la strada. Ma qui, appunto, emerge la differenza fra il vero discepolo e quello falso; ed è una differenza essenziale.
Il vero discepolo non fa della propria indigenza una professione; ne prende atto come di un dato doloroso, ma temporaneo, e va alla ricerca di una guida che lo possa soccorrere nelle sue presenti ambasce, che lo aiuti ad attraversare il deserto dell’anima. Se lo trova, glie ne sarà infinitamente grato; e se, a un certo punto, anche il maestro avrà sete, il vero discepolo non si scandalizzerà e non gli negherà dell’acqua, ma anzi sarà ben felice di potergli rendere un servizio.
Il falso discepolo, invece, anche se non lo ammetterebbe mai, gode della propria indigenza, perché intuisce in essa il mezzo per vedersi sollevato da ogni impegno, e soprattutto dalla responsabilità di alzarsi in piedi e di affrontare in prima persona la responsabilità di se stesso. Per questo è propenso ad inventarsi dei maestri dove non ce ne sono; ha bisogno di maestri come l’alcolista ha bisogno del bicchiere ed è propenso a vederne ovunque, anche sotto i sassi, mentre un vero maestro è cosa rara e, per riconoscerlo, bisogna che anche il discepolo abbia fatto un bel po’ di strada con le proprie gambe.
Il falso discepolo si attacca a tutti i falsi maestri, è un frequentatore di tutti i furbi chiacchieroni che promettono pillole di saggezza e saldi di conoscenza; non di rado, se possiede del denaro, è propenso a spenderlo per sottoporsi a ogni sorta di tirocinio, di terapia, di percorso di meditazione, affidandosi a imbroglioni senza scrupoli che non lo aiutano affatto; ma in fondo è proprio ciò che egli vuole: perché il falso medicante non vuole trovare alcun tesoro, altrimenti dovrebbe smetterla di mendicare e questo lo costringerebbe a diventare adulto.
Essere adulti è una responsabilità; meglio bamboleggiare e correr dietro ai falsi maestri che, a pagamento, si dichiarano infallibili; e da ciò si vede che costoro sono dei falsi maestri: perché nessuno è infallibile, tranne Dio.
Così, quando il falso discepolo si imbatte in un maestro vero, o non lo riconosce, o, se lo riconosce, subito vuole imporgli la maschera della perfezione; e sarebbe pronto a negargli un sorso d’acqua nel deserto, sarebbe dispostissimo a lasciarlo morir di sete, immemore dei benefici ricevuti, pur di non dover assumersi la responsabilità di essere un vero discepolo, cioè un vero essere umano, che non bara né con gli altri, né con se stesso.
Tutte le persone da poco vivono con la maschera e vorrebbero imporla agli altri, per non dover confessare l’impostura nei confronti di se stessi: vi sono i falsi discepoli che vorrebbero i maestri onniscienti e perfetti, e vi sono i falsi maestri che si spacciano per quel che non sono, ovvero onniscienti e perfetti.
Un vero maestro, dopo aver molto camminato nel deserto e dopo aver resistito per giorni e giorni senza bere, non si vergogna di dire: «Ho sete»; e il vero discepolo non se ne scandalizza, non si schermisce, non adduce la propria piccolezza a scusante del diniego, ma prontamente e con animo grato porge il suo otre al maestro, affinché questi si disseti.
Siamo tutti discepoli e tutti possiamo fare da guide, per un po’, ai nostri simili, cioè possiamo essere i maestri di qualcuno. L’importante è sapersi guardare dentro senza infingimenti, saper riconoscere ciò di cui si è privi e quello che si cerca; e, soprattutto, imparare a camminare con la schiena dritta...di Francesco Lamendola - 05/09/2012
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