ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 4 ottobre 2012

“…e noi suoneremo le nostre campane!”


 

(di Giovanni Tortelli) Quale rimedio per un cattolico che ha appena intravisto – nella sua prima fanciullezza – l’altare rivolto verso il tabernacolo, la balaustra che divideva il presbiterio dall’aula, il sacerdote splendidamente rivestito coi pesanti e luccicanti paramenti che bisbigliava parole allora incomprensibili, il popolo che si inginocchiava al momento della comunione, davanti alle imminenti e di sicuro fragorose celebrazioni di quell’evento che cancellò con un colpo di spugna tutta questa realtà?
Eppure non si trattava allora né di folklore né di effetti scenografici – questo lo intuivo già al tempo – né si tratta ora di nostalgia. Ricordo bene che le processioni del Corpus Domini su quelle amene colline sopra Firenze nelle tiepide notti di fine primavera, vedevano radunarsi lungo il percorso di quelle bianche strade di campagna centinaia e centinaia di persone che pregavano e si commuovevano, e anche i «rossi» – quelli che di solito trascorrevano la sera a giocare a carte nelle varie case del popolo – si alzavano in piedi, in silenzio, perché intuivano la serietà del momento, avvertivano che il sacerdote, che in altri momenti della giornata avrebbero diversamente avversato, ma che ora portava in adorazione “Cristo vivo e vero”, compiva realmente un’azione sacra ed agiva nella sua propria veste di ministro di Dio, quindi degno del massimo rispetto da parte di tutti.
Ma si sa, l’ultimo Concilio ha lavorato bene, cioè in lungo e in largo, al rinnovamento della Chiesa: dalla dottrina della fede, alla liturgia, all’ecclesiologia, ha aperto varchi nella Tradizione, ha formato un “nuovo popolo di Dio” e con esso nuove generazioni di sacerdoti e di religiosi in seminari dove i formatori formavano e formeranno ancora secondo lo «spirito del Concilio».
Già, questa entità indefinibile ed affatto ultraterrena ma riconducibile all’atmosfera rarefatta di quell’Assise ha finito per permeare il costume, l’educazione, la cultura in genere, compresa l’architettura sacra, ma ha avuto il merito di addolcire la Chiesa e di renderla infinitamente più accettabile agli occhi degli avversari. Cose risapute, ricollegabili alle parole d’ordine di «pastoralità», «dialogo» e «desistenza d’autorità», che furono le linee guida del Vaticano II.
E allora, quali rimedi per chi non vuol sentirsi assediato da celebrazioni che in massima parte ritiene inopportune, anzi in contrasto con la verità?
Davanti alla Chiesa che molto presumibilmente si porterà tutta e con fervore sul versante conciliarista, penso che il miglior antidoto per attutire il clamore dei celebranti e non perdere la via maestra della verità sia la meditazione sulle opere di Romano Amerio e di Brunero Gherardini.
Sia Amerio che Gherardini sembrano accomunati da una certa presa di distanze degli ambienti ufficiali, anche se nel caso di Amerio si è trattato di un vero e proprio ostracismo durato fino a pochissimo tempo fa, ma questo potrebbe essere in fondo l’unico elemento in comune fra le due personalità, per il resto così diverse fra loro per stato di vita, percorso intellettuale, interessi e produzione letteraria.
Tanto diverse, come fu diverso l’approccio di ciascuno dei due al Concilio: filosofico e storico-giudico per il Professore di Lugano, squisitamente dottrinale e teologico per il Professore del Laterano.
Ma la causa donde partirono: l’indiscusso amore per la Chiesa, e il punto d’arrivo al quale entrambi giunsero è identico: essi documentarono – partendo ognuno dal proprio versante – come i varchi dottrinali aperti dal Vaticano II avessero fatto virare pericolosamente di parecchi gradi la rotta della Chiesa fino a far seriamente dubitare di un cambiamento della sua natura, della nascita cioè di una Chiesa «nuova».
Scriveva Amerio nella sua consueta, inimitabile prosa: “Ma può nascere una Chiesa nuova? Qui nell’invoglio di poetiche metafore e nel miscuglio dei concetti, si cela l’idea di cosa impossibile ad avvenire secondo il sistema cattolico, l’idea cioè che il divenire storico della Chiesa possa essere un divenire di fondo, una mutazione sostanziale, un trasferirsi da tutt’altra in tutt’altra. Secondo il sistema cattolico invece il divenire della Chiesa consta di una vicissitudine in cui cangiano le accidentali forme e le storiche congiunture, serbandosi identica e senza novazione la sostanza della religione. La sola novazione che l’ecclesiologia ortodossa conosca è la novazione escatologica con nuova terra e nuovo cielo (…). La Chiesa diviene ma non muta. Non si dà in essa novità radicale (…). Il tentativo di spiegare il Cristianesimo oltre sé stesso è un paralogismo e un errore teologico (Iota Unum, ed. Ricciardi pagg. 9 -10).
In altre parole, se la Chiesa dovesse cambiare natura, dal momento che le essenze sono immutabili, non sussisterebbe più lo stesso soggetto ma un altro: la Chiesa di prima non sarebbe più la Chiesa di dopo, e si avrebbe rottura. Sarebbe poi un errore teologico ogni mutamento sostanziale, poiché l’unico mutamento che è dato conoscere è quello di un elemento accidentale come il tempo, che è ammissibile: quindi la Chiesa può «divenire» nel tempo ma non cambiare nella sostanza.
E Gherardini, col linguaggio del teologo: “Non pochi pensan ad un rinnovamento della Chiesa nel senso d’una sua necessaria ed ininterrotta riforma”, e subito avverte della differenza di sostanza fra «rinnovamento» e «riforma», che non è altra che quella fra il «divenire» e il «mutamento» delle essenze. Solo che – aggiunge, andando avanti nell’argomentazione – nemmeno i padri conciliari sembra abbiano avuto molto chiara la differenza, se per esempio “LG 4/a dichiara che «con la forza dell’evangelo lo Spirito Santo fa ringiovanire la Chiesa, la rinnova ininterrottamente e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo» e LG 8/a allude alla presenza dei peccatori in seno alla Chiesa, che «per questo non tralascia mai la penitenza ed il suo rinnovamento» e LG 9/c attesta il continuo rinnovarsi della Chiesa «con l’aiuto dello Spirito Santo», il quale, secondo LG 12/b, distribuisce le grazie necessarie «al rinnovamento ed alla maggior espansione della Chiesa»”.
Questa confusione fra i due concetti binari «divenire-mutamento» e «rinnovamento-riforma», mutuata dallo stesso Lutero, è ormai penetrata anche nella cultura teologica cattolica che fa uso disinvolto dei doppi termini ma – prosegue Gherardini – “non d’ammodernarsi la Chiesa ha bisogno, ma d’essere se stessa; la sua singolare identità di Corpo mistico e Sposa di Cristo conferisce al suo volto lo splendore d’una perenne giovinezza” (Quod et tradidi vobis, pagg. 325 – 326).
Il fatto d’aver attribuito al Concilio, ancora alla sua vigilia, l’etichetta di “ventata d’aria fresca” secondo la celebre definizione dello stesso Giovanni XXIII, la diceva già lunga allora sulla voglia di cambiamento all’interno della Chiesa. Una voglia di cambiamento che probabilmente – fra le altre cause, ma non certo la minore – derivava anche dalla rottura dell’asse fra un sempre più forte corpo episcopale ormai quasi del tutto internazionalizzato e la Curia romana.
Proprio questo “rinnovamento – ringiovanimento – freschezza” fu gravido di conseguenze teologiche per la Chiesa in ordine alla spinosa questione della fedeltà alla Tradizione.
Questa, si potrebbe chiamare, ubriacatura di giovanilismo che il Concilio ebbe a vivere – forse giustificata dall’entusiasmo per tanta imponenza di lavori – senza pensare alle altre conseguenze, ebbe infatti a produrre l’uso improprio del concetto di «Tradizione vivente», come libera ed incontrollata introduzione nella Chiesa di elementi e contributi della più eterogenea e contingente cultura. Questa «Tradizione vivente», nell’uso volgarizzato che se ne fece e se ne fa, in realtà non ha nulla ha a che fare con la Tradizione come fonte della Rivelazione, come spiega sempre Gherardini, il quale ricorda come già un ventennio prima del Vaticano II, il card. Parente avesse denunciato la “strana identità” fra Tradizione come fonte della Rivelazione e il Magistero vivo – questo sì – della Chiesa (Quod et tradidi …, pag. 246).
Ma fu la trovata del cavallo di Troia: col ricorso alla «Tradizione vivente» si spalancarono le porte della Chiesa ad ogni tipo di ispirazione del momento, anche all’estemporaneità, di qualunque vescovo o sacerdote, fatta passare come «magistero vivo» ed autentico della Chiesa. Se ne conoscono esempi a bizzeffe disseminati per tutta la Chiesa postconciliare.
Questo varco fu aperto chiaramente dalla Unitatis redintegratio la quale, al punto 3b-d del cap. I parla – giova rammentarlo – di “«elementi o beni, dal complesso dei quali la stessa Chiesa è edificata e vivificata» esistenti fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica”. Per tacere dell’autostrada aperta dalla questione del «subsistit in» (LG 8b), sulla quale tralascio per brevità.
Dunque vi fu continuità o rottura? Il problema sta nel fatto che il Concilio Vaticano II non spese mai una parola per definire sistematicamente ed ex professo il concetto di Tradizione, ma – com’è noto – vi si riferì innumerevoli volte ma solo a seconda dei temi che ne occasionavano il rinvio.
Fu proprio questa vistosissima carenza conciliare che determinò prima Iota Unum e, un trentennio dopo, Quod et tradidi vobis.
Difficile organizzare un discorso generale sulla fedeltà del Concilio Vaticano II alla Tradizione, quando il Concilio stesso non ebbe mai a dare un significato di Tradizione, cioè il lemma che avrebbe dovuto costituire il medio della successiva discussione.
Per ovviare a questa lacuna, sia Amerio che Gherardini dovettero ricorrere al criterio oggettivo indicato da san Vincenzo di Lérins, per cui è cattolica la professione di fede che resta nel “quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est”. Ciò non significa fissità, infatti il Lerinense prosegue: “Intelligitur illustrius, quo ante obscurius credebatur. Eadem tamen quae didicisti, doce, et cum dicas nove, ne dicas nova”.
Ma era proprio il contenuto da assegnare a questo «sviluppo genuino» dei principi rivelati “deposti nell’esordio storico della Chiesa e custoditi nella Tradizione apostolica” a costituire il campo di battaglia per stabilire la continuità o la rottura del Vaticano II con la Tradizione. Perché, mentre l’ultimo Concilio e la pubblicistica filoconciliare al seguito, hanno sempre rivendicato la fedeltà alla Tradizione, replicando alle accuse che si trattava di un “modo nuovo” di esporre principi rivelati, Amerio concludeva nel senso opposto di una vera e propria interpolazione della Tradizione da parte di quell’Assise, la quale in parecchi casi avrebbe compiuto un vero saltus ad aliud.
Anzi, Amerio era ancor più esplicito, come lo sarà più tardi Gherardini, poiché affermava come da parte dell’Assise si cercasse di dissimulare il saltus mettendolo sotto l’insegna di un’altra categoria, questa innocua, quella della modalità.
Ma non erano certo modi nuovi di dire principi antichi quelli che il Professore di Lugano citava a carico dei documenti ufficiali, ne cito i più scandalosi: “Il peccato originale riguardato come atto solidale del genere umano, che lascerebbe la persona singola in una perfetta innocenza, si propone come dottrina che continua senza rottura il dogma cattolico della corruzione trasfusa in ciascun individuo”; “La presenza puramente simbolica di Cristo nell’eucaristia è figurata come un modo nuovo di concepire la presenza reale”; “L’ascensione del Signore presa come simbolica e spirituale ascensione del cristiano nella fede, subentra come proposizione equivalente alla corporale ascensione del Risorto”, e così via (Iota Unum, pagg. 592 – 595).
Oltre alla negazione della manipolazione del dogma, secondo Amerio il Concilio copriva il dogma anche con una sorta di damnatio memoriae. “Le novità del Vaticano II sono lumeggiature di parti del dottrinale cattolico che corrispondono all’oblivione corrispettiva di altre parti. L’oblio copre il dogma della predestinazione sotto la verità della vocazione universale; quello dell’inferno sotto la verità della misericordia divina; quello della presenza reale sotto la verità della presenza spirituale di Cristo nell’assemblea (…), quello dell’infallibilità di Pietro sotto la verità del magistero collegiale dei vescovi” (Iota Unum, pag. 626).
Gherardini coglieva nell’allocuzione di papa Benedetto XVI alla Curia romana del dicembre 2005, nella quale per la prima volta si accennava a un’ermeneutica del rinnovamento nella continuità oppure a un’ermeneutica della discontinuità, per dimostrare come nello stesso Pontefice fosse trasparente la difficoltà di una «giusta interpretazione del Concilio» (Quod et tradidi…, pag. 413). Ed arrivava alla stessa considerazione di Amerio di fronte alla consapevolezza del Vaticano II su se stesso e sulla sua fedeltà agli altri concili della Chiesa: “(…) Se io pongo la stessa domanda direttamente al Vaticano II, esso senz’esitazione alcuna mi risponde: in piena continuità. Naturalmente, dietro le quinte d’una tale risposta resta il problema di fondo: quale tradizione? Quali tradizioni?” (Quod et tradidi…, pag. 418).
Ciò che colpiva Gherardini, come prima aveva colpito Amerio, era insomma questo “tentativo di tutto collocare sotto il manto della Tradizione. E tutto presentare come fedeltà alla più pura Tradizione”, quando in realtà si doveva assistere alle scandalose espressioni del “subsistit in” (LG 8b) – che alla fine non individua in nessuna delle Chiese esistenti la vera Chiesa di Cristo ma di tutte un po’ – e della Chiesa “governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui” (LG 8b) – confondendosi goffamente sui differenti significati di comunione e di collegio.
Concludo con Gherardini e col suo richiamo all’omogeneità, cioè alla fedeltà evolutiva della Tradizione vera, la quale “non si tira indietro dinanzi all’opportunità d’un miglioramento estrinseco, l’accoglie anzi in sé per proporlo alla Fede comune, opponendosi solo a quel progresso sostanziale che sarebbe la propria condanna a morte (…). Lo spazio è riservato a stadi omogeneamente collegati da una medesima linfa vitale anche quando s’allineano in un passaggio dal meno al più, da un grado ad un altro certamente superiore quanto ad intensità non quant’alla natura”.
Solo che “…dal 1962 in poi questa linea s’interrompe”. “Da tempo – assicura Gherardini – la nouvelle théologie aveva lavorato a tal fine…” (Quod et tradidi…, pag. 433 – 435).
Le conseguenze, a livello dottrinale, sono sotto gli occhi di tutti: i dibattiti se continuità o rottura vi fu si susseguono a ritmi incalzanti e ora l’una o l’altra tesi sembra offrire qualche spiraglio d’uscita.
Da un punto di vista pratico, molto modestamente ritengo che il nodo di Gordio potrebbe essere tagliato solo dalla Somma autorità la quale – attraverso un nuovo Sillabo, o se la parola fa paura, un altro strumento di interpretazione autentica – mettesse fine a questa attuale sospensione di giudizio di cui si è avvalsa la Chiesa in questo cinquantennio. Sospensione di giudizio che ha gravato il Christifidelis di un peso spesso insopportabile, ha talvolta attribuito al teologo la funzione di legislatore, ma soprattutto ha disorientato la Chiesa magari distogliendola dalla sua missione di prosecuzione dell’azione di Cristo nel mondo.
Ritornando e concludendo su Amerio e Gherardini: due lezioni, due stili, due uomini che hanno perseguito la Verità lungo la via maestra della continuità della Tradizione nel segno dell’omogeneità e della genuinità del Magistero.
(Giovanni Tortelli)

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