Avete
taciuto abbastanza. E’ ora di finirla di stare zitti! Gridate con
centomila lingue. Io vedo che a forza di silenzio il mondo è marcito.
Santa Caterina da Siena
Eminenza Reverendissima,
ho letto sulla stampa che l’11 dicembre i Cardinali e i
Vescovi, superato lo scoglio dei teo-
logi, daranno il loro “sì” per la beatificazione di Paolo
VI, nonostante non abbia mai avuto, da vivo, una qualunque fama di santità, e sia stato, per di più, il primo
responsabile di tutti i guasti
attuali della Chiesa, per non dire, addirittura, che il risultato, poi,
del suo Pontificato è stato veramente
catastrofico!
Mi sia, allora, concesso al cardinale Montini quello che venne
riportato su “Avvenire” del 19
marzo 1999, a pagina 17, a gradi caratteri: “Ruini traccia il profilo del Papa (Paolo VI) che cambiò
la Chiesa”.
Verissimo!.. Noi l’avevamo dimostrato con la nostra
“Trilogia montiniana”, mai trovata né
falsa, né inficiabile, dai
miei oppositori, sempre limitati a scherni da piazza e insulti da trivio, senza mai
denunciare in pubblico, il “come” e il “dove”, il “perché” le nostre argomentazioni e i nostri docu- menti
sarebbero contrari al vero.
Certo, dire la “Verità”
non è affatto una offesa, neppure alla persona di Paolo
VI, ormai entrato nella Storia,
per cui tutto il suo vivere è oggetto di studio senza reticenze né
mistificazioni, senza mettere l’aureola
sulla sua testa, il che significherebbe metterla anche alla sua
“rivoluzione” ope- rata dalla Massoneria, per mezzo di Lui, in nome del Vaticano
II.
È doveroso, allora, riportare uno schema delle sue presunte
virtù, necessarie per avere una beatifi-
cazione. Il cardinale Ruini, nel suo discorso di chiusura del
“Processo diocesano”, disse: «La
sua Fede traluce dalla sua persona,
brilla nelle sue parole. Nel 1967, dà vita dell’Anno della Fede. Nel
1968, sul sagrato
di San Pietro, proclama il “Credo” del popolo
di Dio; una Fede basata
sul
“Credo di Nicea”».
Ora, in quanto a quella sua presunta
Fede, che il Cardinale disse addirittura
“appassionata”, la smentisce lo stesso Paolo VI
nel suo famoso discorso sulla auto-demolizione della Chiesa, in cui
disse: «La Chiesa si trova in un’ora di inquisizione, di auto-critica. Si
direbbe persino di auto- demolizione. Una Chiesa che, quasi quasi, vede colpire se stessa.
Tutti si aspettano dal Papa gesti clamorosi e decisivi. Ma il Papa non
ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesù Cristo, cui preme la sua Chiesa più che a qualunque altro. Sarà
Lui a sedare la tempesta».
Ma questo suo dire suona come tradimento al suo dovere di Vicario di Cristo, il quale, per la dife-
sa della Fede, si servì sempre dei suoi successori, iniziando subito con San
Pietro, Suo primo Vicario in terra. Quindi,
quel rifiuto deciso
di Paolo VI di difendere Lui stesso la Fede, fu un aper- to
rifiuto di fare quello che era, invece, il suo principale dovere. Quindi, la sua politica del
“non intervento”, fu una abdicazione al suo dovere
d’ufficio d’intervenire proprio in quella
auto-distru- zione della Chiesa, che LUI stesso
conduceva. Un rifiuto,
allora, che costituisce un autentico “pec- cato di omissione”.
Come pensare, quindi,
di voler portare
sugli altari alla venerazione dei fedeli un Papa che così gra-
vemente era venuto meno al suo principale dovere qual è, appunto,
la difesa del “depositum
fidei”?..
Paolo VI abdicò
a quello, non assolvendo il suo compito
di “Capo” della Chiesa cattolica per met- tersi al “servizio” dell’Umanità
per conciliare tutte le credenze e tutti i culti in un’unica religione
universale. Ma sognando di diventare il grande unificatore dei popoli, Egli
sacrificava la Chiesa cattolica, la Tradizione, le Istituzioni, i fedeli stessi,
per formare quel Movimento d’animazione spirituale della “Democrazia Universale” che deve asservire
a tutte le Chiese al mondo.
Paolo VI, così, non
distinguendo più la Chiesa di Cristo, che è
“una e non due o più”, fu il primo Papa che evocò le comunità
religiose scismatiche ed eretiche, nel suo Discorso d’apertura della Terza Sessione, il 14 settembre
1964, dicendo:
«O Chiese lontane
e così vicine a noi!..
O Chiese oggetto
del nostro sincero pensiero! O Chiese della nostra incessante nostalgia!
Chiese delle nostre lacrime!»... e
annunciò, poi, a più ripre- se, il mutuo perdono per le reciproche colpe.
In seguito, la Sua incessante propaganda ecumenica, fu solo per
condurre al riconoscimento delle altre comunità cristiane
e non a vere comunità
di salvezza.
Ne è una riprova, anche quella Sua visita al “Consiglio Ecumenico
delle Chiese”, il 10 giugno
1969, dove fu ricevuto da ben 234 comunità religiose. Qui,
Paolo VI ne assunse
il linguaggio e partecipò addirittura a quello scisma
generale con questa affermazione: «la
fraternità cristiana... tra le Chiese
che fanno parte
del “Consiglio Ecumenico e la Chiesa
cattolica»... ignorando che non
ci può essere fratellanza tra la Chiesa cattolica e i
“dissidenti”. Invece, fu Lui stesso a solle- vare la questione, dicendo: «La
Chiesa cattolica deve diventare membro del “Consiglio Ecumenico”». E poi
disse: «in tutta fraterna grandezza, Noi non riteniamo che la questione della
partecipazione cattolica al “Consiglio Ecumenico” sia matura a tal punto che le si possa e si debba
dare una risposta positiva. La questione rimane ancora sul campo delle
ipotesi... gravi implicazio- ni... cammino
lungo e difficile».
Ma fu un discorrere “pallone-sonda”, perché, sotto sotto, c’era già il Suo “si”; Lo provò con que-
sto suo dire: «Lo spirito di un sano ecumenismo, che anima gli uni e gli
altri... richiede, come prima condizione di ogni fruttuoso contatto tra differenti confessioni, che ciascuno professi lealmente la propria fede»; e qui, Paolo VI invitò a riconoscere i valori positivi
cristiani evange- lici, che si trovano nelle altre
confessioni e ad aprire ad ogni possibilità di collaborazione... come nel campo della carità e della ricerca della pace tra i popoli.
Alla domanda, infine, se ci sia salvezza nell’una o nell’altra
di quelle 234 “chiese”, membri del “COE”,
mentre la dottrina
della Chiesa cattolica
aveva sempre risposto
negativamente, Paolo VI, al contrario, rispose affermativamente! Questa Sua “mens” la si vide, poi, sempre
accogliendo ebrei, musulmani, bonzi,
buddisti... e andando
da loro durante
i “viaggi apostolici”, per fare “dia- logo”.
Mai prima di Paolo VI, alcun Papa aveva declinato
la Fede al plurale; Paolo VI, invece,
diceva che le “fedi”
si rendono omaggio
vicendevolmente.
Durante il suo viaggio in Uganda, Paolo VI
parlò del “Martiri
ugandesi”; Egli andò, sì, a visitare
questi “Martiri cattolici”, ma li confuse, indiscriminatamente, con i musulmani, con i protestanti; secondo Lui, essi erano morti in “spirito ecumenico”, tutti uniti oltre i conflitti dogmatici.
Anche nel suo viaggio a Bombay (dove gli Induisti Gli regalarono un
piccolo idolo, e i buddisti Gli offri-
rono un Budda!), Paolo VI non mostrò alcun discernimento tra le religioni umane e quella
cat- tolica.
E potrei continuare a lungo su questo tema della Fede. Basterà
accennare, qui, a quel suo scanda-
loso gesto che fece consegnando, con uno scritto
di scuse, il “glorioso stendardo di Lepanto”
ai Turchi, quasi a
scusarsi ch’essi non furono lasciati liberi di occupare tutta l’Europa cattolica
per consegnarla all’Islam.
In quanto al suo “Credo
del popolo di Dio”, che il cardinale Ruini accostò al “Credo di Nicea”, e che ciò come il non plus ultra della “Fede” di Paolo VI, c’è da dire, invece, che il detto “Credo”
recitato in pubblico sul sagrato
di San Pietro, prima di formularlo, Paolo VI aveva premesso “due precisazioni”: la prima, che Lui
voleva dare una “ferma testimonianza alla verità divina affidata alla Chiesa (e questo è
lodevole!), ma con la seconda precisazione rimetteva tutto in discussione, perché escludeva, espressamente, che il suo “Credo” fosse “una definizione dogmatica”.
Difatti, disse:
«Noi ci accingiamo a fare una professione di Fede, a pronunciare un “Credo” che, senza essere una
definizione dogmatica, e pur con qualche sviluppo richiesto dalle condizioni
spirituali del nostro tempo».
Ora, questo suo dire,
toglieva al nostro “Credo” cattolico, la firma di infallibilità,
di essere, cioè, delle
“Verità rivelate”, di fede divina
e di fede cattolica, attestate nella Sacra Scrittura e nella Tradizione.
In San Pietro si legge: «Inde oritur unitas sacerdotii», ossia il Papa deve essere il vincolo della “Carità”, e, quindi, dell’unione. Invece, Paolo VI onorava e preferiva
“Coloro che sono lonta- ni”
più di quelli vicini nella Fede, mostrando, per questo, spesse volte, una fredda amicizia,
ammi- rava il linguaggio, i
riti religiosi e le tradizioni degli “altri”, mentre perseguitava gli
appartenenti all’antica tradizione cattolica. Le porte di casa sua erano sempre
aperte per i teologi avventurieri, per gli agitatori, per quelli che spargevano
scandali ed eresie,
non dissimulando mai, invece, la sua
animosità verso i tradizionalisti e integristi che difendevano quello che Lui voleva distruggere. Non li
scomunicò perché non avevano motivi canonici, ma prendeva, però, precauzioni
per non avere personalmente contatti diretti. Il che è più che una scomunica, perché è “annullamento”, è “soppressione dialettica” dell’avversario che, come il
sottoscritto, non si è mai piegato alle fol-
lie, ai capricci, alle storture, alle stravaganze di molto clero progressista,
ubbidiente alla don Abbondio nel portare a termine, come disse
il cardinale Garrone, “la disfatta
dell’altro partito”. Di tanti fatti della sua falsa “Carità”, potete leggerne non pochi nei miei tre libri su Paolo
VI, riguardo a quel suo settarismo che aveva tutto il sapore dello scisma. Si,
perché lo scisma, essen- do la separazione dalla Chiesa cattolica
di una porzione di fedeli,
dà il diritto di definirlo
un “peccato-delitto” contro la Carità, che è amore, guidato dalla Fede e dalla Speranza;
e che implica, necessariamente, l’odio contro
il Regno di Dio, la Chiesa, per indebolirla e per strapparle le anime, mediante, appunto,
scissioni ed eresie!
Per questo, Paolo VI non avrebbe mai potuto lanciare
quel Suo grido:
«CHARITAS CHRISTI URGET NOS!».
Dopo quello che ho scritto
su Paolo VI sono
obbligato a mettere
in evidenza il profondo mistero della “mens” di Paolo VI modernista attraverso “fatti”
e “detti”, perché
questi costituiscono la ragione della mia reazione
spirituale che tanto mi fa soffrire.
Si degni, Eminenza, di prendere in considerazione il mio lavoro,
espressione del mio rispetto e della
mia preghiera.
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