di Enrico Maria Romano
Le
ambiguità del cosiddetto ecumenismo post-conciliare sono divenute così
evidenti e così note a tutti che pare inutile e vano starle ad elencare
ancora una volta. Basti pensare che, contro la Rivelazione, la
Tradizione, il Magistero e la migliore teologia (cf. per tutti, S.
Tommaso, Summa theologiae, II-II, 5,3) si osa attribuire, in un
documento conciliare, ai “fratelli separati”, presi indistintamente, la
virtù sovrannaturale della fede (UR 3), totalmente incompatibile in verità con la professione pubblica e reiterata dell’errore e dell’eresia.
Oppure quando nel medesimo testo si asserisce che i dissidenti hanno
“la Parola di Dio scritta”, mentre giustamente la Costituzione Dei Verbum
insegna che chi non possiede né la Tradizione né il Magistero (come è
il caso sia dei luterani sia degli ortodossi), non ha neppure la
Scrittura, né l’autorità per interpretarla (DV 10).
In
questo campo anche autori noti per la loro prudenza e per la loro
moderazione hanno ultimamente alzato la voce contro il confusionismo
ecumenico diffusosi a partire dal Concilio in tutti i gangli vitali
della Chiesa e della cristianità (cf. Padre Giovanni Cavalcoli, Il problema dell’eresia oggi, ed. VivereIn e mons. Brunero Gherardini, Ecumene tradita, ed. Fede e cultura).
Ebbene sull’Osservatore del 9 novembre u.s. (p. 8) è stato pubblicato il “Messaggio del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso agli indù per la festa del Deepavali” (?).
E’ difficile, se si crede in Cristo, incarnatosi e morto “per la
salvezza di tutte le genti” (DV 7), non rimanere sbigottiti dal
contenuto del Messaggio, il quale tra l’altro si situa all’opposto di
ogni volontà di “nuova evangelizzazione”. La Dichiarazione Dominus Iesus, pubblicata nel 2000 dal cardinal Ratzinger, faceva notare che le
altre tradizioni religiose non solo non sono di per sé salvifiche, ma
contengono errori, ambiguità e superstizioni che, come tali, allontanano
i loro seguaci dalla via della salvezza. I loro membri poi non
hanno la “fede” che sola rende accetti a Dio, ma posseggono una semplice
“credenza”: il nostro dovere, come membra vive della Chiesa, è quello
di proporre loro la verità salvifica di Cristo e della Chiesa.
Quest’ultima, ricorda il catechismo “è l’arca di Noè che, sola, salva dal diluvio” (CCC, 845, corsivo mio).
Come
se tutto questo non appartenesse al Sommo Magistero cattolico, il
cardinal Tauran si dichiara “lieto” di presentare agli induisti, a nome
del suo Dicastero, “cordiali saluti e felicitazioni in occasione delle celebrazioni di Deepavali”, con un incoraggiamento per giunta di tenore laico e mondano:
“Possano l’amicizia e la fraternità illuminare sempre più le vostre
famiglie e comunità”. Nel corpo del testo il tema centrale è quello
della pace, bene certo desiderato da tutti gli uomini di buona
volontà, e non solo dai credenti. Noi però come cristiani sappiamo bene
che Cristo è il solo portatore della pace, e la vera pace sociale il
mondo – e tutte le sue false religioni – non possono procurarla. Si cita quindi Papa Giovanni che nel 35 la Pacem in terris
scrisse che i fondamenti della pace sono la verità, la giustizia,
l’amore e la libertà (n.), ma poi si omettono i primi due impegnativi
termini, per concludere che “è necessario che ad ogni giovane si insegni
soprattutto ad agire sinceramente e rettamente nell’amore e nella
libertà”. Ma senza la verità e la giustizia, di quale amore e libertà si parla, visto che la vera libertà si fonda sulla verità?
Si
arriva a dire che “in ogni educazione alla pace, le differenze
culturali si dovrebbero certamente considerare come una ricchezza, e non
come una minaccia o un pericolo”. Ma può godere di una vera pace una
società che si fonda sull’indifferenza verso Dio, come insegnano sia
l’induismo che il buddismo? E che pace interiore (o sociale) può
derivare dalle dottrine orientali dell’apatia, del nirvana e della
reincarnazione? Dovremmo accettare queste deviazioni, diametralmente
opposte alla pacificante dottrina di Cristo, come “ricchezza” così come
ci chiede esplicitamente il Messaggio? È evidente che qui si sta
parlando non della pace che Dio volentieri offre a chi lo supplica, ma
di quel pacifismo di tipo gandhiano, mondano o sincretistico che è
portatore di relativismo etico, indifferentismo religioso, ateismo pratico.
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