Con questo pezzo inizia la sua collaborazione con noi Samuele Becci, classe 81, in arte Satiricus. Fu pugliese in una precedente vita, ora è Grigione per lavoro e per onore. Nonostante amasse molto la musica – o almeno i mottetti di Josquin Desprez e le Vexations di Satie – fino ad oggi ha perso tempo con altro: un po’ di lettere (soprattutto antiumanistiche), un po’ di filosofia (soprattutto anticattolica), un po’ di teologia (soprattutto antiteista). Siccome a tutto c’è rimedio, fuorché all’eterno, crede di poter tirare avanti bene lo stesso. È qui su invito e perché preferisce scrivere per Campari, anche se è rosso, che bersi le rubiconde boiate d’altri. Si scusa con tutti quelli che offenderà, tranne con chi non capisce l’italiano, il genere letterario, la militanza, il valgerolese stretto, Pierangelosequeri e l’ironia. Si consola: per quanto brutto possa essere un suo pezzo, non sarà mai vessante come quelli di Satie. Chiave di lettura e proclama d’autore: «La commedia non mi è piaciuta, però l'ho vista in condizioni sfavorevoli: il sipario era alzato».
Era
da un po’ che attendevo di scrivere su questo tema, e pure di iniziare
la mia collaborazione con la truppa di C&dM, ma non mi decidevo mai a
farlo – un po’ per pigrizia e un po’ vittima del rispetto umano. Non ho
potuto più trattenermi quando ho letto l’intervento abbacinante di Francesco Colafemmina prima sul suo sito e poi sulla Nuova Bussola Quotidiana: una
appropriatissima requisitoria contro i figli spirituali del beato
Alberione, rei di aver pubblicato un testo sull’infanzia di Gesù –
proprio nei giorni in cui usciva l’ultima fatica editoriale del Papa –
affidandolo a un autore massone, Antonio Panaino. Eh sì, perché
aspettare? Mandiamo tutti insieme gli auguri di un Santo Natale agli
amici della San Paolo. Quelli di Colafemmina, serviti con un buon
Campari.
Permettetemi di prenderla larga. Prima
delle San Paolo, prima della Grande Loggia, prima degli intellettuali
reazionari e prima dei saggisti mercenari: io, contesto Goethe. Sì, il
grande vate, del quale mi vanto non aver mai letto neppure una riga, che
poco meno di un secolo fa divenne la grande icona di un rinnovamento
culturale destinato a lasciare un grande segno: Goethe, e il suo Faust,
modelli ideali della gioventù tedesca – proprio di quella
gioventù tedesca – degli anni ’30. E ci mancherebbe altro. Un autore
eccelso, una penna accattivante, una trama convincente, un successo
commerciale garantito: come opporvisi? Tutti contenti di tener dietro ai
segni dei tempi. Tutti? Tutti o quasi. Tra le penne che si
levarono tempestivamente, quella di un’ebrea intellettualoide, un po’
fissata con le petizioni di principio, da poco convertita al
cattolicesimo, che avrebbe pagato con la vita il suo schieramento
reazionario e oscurantista. È di Edith Stein il monito vibrante, non
contro la San Paolo, non contro Panaino, ma contro il maggior poeta che
la Germania abbia mai celebrato:
Non
abbiamo da giudicare l'uomo Goethe, la sua fede, cosa accadde tra lui e
il Signore in quei momenti che decidono dell'eternità dell'uomo. Questi
sono misteri di Dio, in cui occhio umano non può penetrare. Siamo
davanti al più grande poema del più grande poeta tedesco e ci
domandiamo: possiamo porre quest'opera in mano alla gioventù tedesca e
al popolo tedesco, e dire: prendete, fatelo vostro, lasciatevi
completamente pervadere dallo spirito che in esso vive e da esso parla; è
il meglio che abbiamo da offrirvi, ciò che è massimamente necessario? Leviamo lo sguardo all'immagine del Crocifisso e diciamo: no. (da Natura e soprannatura nel “Faust” di Goethe)
Adesso,
a costo di sapermi condannato a una vita da claustrale carmelitano o a
una reclusione punitiva da qualche altra parte, faccio mie le parole di
Etidh e – per dirla secondo un lessico aggiornato – le retwitto. Così:
Non
abbiamo da giudicare l'uomo Curtaz, la sua fede, cosa accadrà tra lui e
il Signore in quei momenti che decidono dell'eternità dell'uomo. Questi sono misteri di Dio, in cui occhio umano non può penetrare.
Siamo davanti al più grande novità della più grande editrice cattolica
italiana e ci domandiamo: possiamo porre quest'opera in mano alla
gioventù cattolica e al popolo cattolico, e dire: prendete, fatelo
vostro, lasciatevi completamente pervadere dallo spirito che in esso
vive e da esso parla; è il meglio che abbiamo da offrirvi, ciò che è
massimamente necessario?
Leviamo lo sguardo all'immagine del Crocifisso e diciamo: no.
Leviamo lo sguardo all'immagine del Crocifisso e diciamo: no.
Carissimi
amici, non temete, ben meno di Goethe c’è qui: c’è Paolo Curtaz.
Curtaz, non un massone patentato, né certo un anticattolico
decostruzionista. Un bonomo. Uno che, come molti e troppi nella triste
stagione di emorragie vocazionali postconciliari, aveva intrapreso la
via più alta, la via della perfezione (si sarebbe detto qualche decennio
fa), ma poi gli è sfuggita di mano. Paolo, Paolo – un tempo don Paolo – visto e sentito in occasione di un paio di conferenze: a mio modesto avviso non è nocivo. Anche se mi lascia sempre un po’ di saudade vedere questi non più preti che per campare continuano a scrivere libri da preti, di preti e per preti.
Amen. No, non riesco a dire nulla contro il buon Paolo, che da parte
sua ha ogni diritto a provarci, in qualsiasi settore gli garbi. Tanto
più – aggiungo – che pare non aver ancora preso le derive apertamente
(cioè sui libri) eretiche di don Vito Mancuso o nascostamente (cioè nei discorsi privati) antiromane dell’economista Enzo Bianchi.
Paolino, non posso che augurarti tanta fortuna. E ti lascio stare dove
sei. Il problema per me sta altrove. Altrove si orienta il mio fastidio.
Il problema sta in chi si mette di piglio per pubblicare certi autori:
il problema da sempre e per sempre sono ’ste strabenedette San Paolo!
Sono loro a reclutare l’amico Paolo, sono loro ad affidargli non un
libretto a caso sulle solite esegesi di moda o sui problemi giovanili,
bensì la collana sull’Anno della Fede. Perbacco, carissimi signori della
San Paolo, noto finalmente un’idea intelligente: nella foresta di
opposizioni che teologi e catecheti hanno sollevato contro l’augurio di
Benedetto XVI (Motu Proprio Porta Fidei), nella generale
contestazione del suo consiglio di tornare al Catechismo lasciando
perdere per un po’ l’esasperazione della Parola di Dio e tanto più i
patetici trionfalismi nostalgici pro-conciliari, in questa selva di “no”
voi avete detto un “sì”, e avete escogitato una piccola collana,
quattro testi che riprendessero le quattro parti del Catechismo seguite
da un po’ di commento popolare. Bravi. Peccato aver affidato l’impresa a un teste tra i meno quotati in casa cattolica.
Ora, gentilissima editrice alberoniana, so che sto per farvi domande inutili. Da un équipeche non disdegna di pubblicare Antonio Panaino non mi attendo più nulla.
Però alcune cose io devo chiederle. E parto con la mia cascata di:
perché? Perché con tutta la gente che prepariamo nei seminari, nelle
università, nei movimenti, nelle parrocchie, nelle scuole della parola
abbiamo bisogno di affidarci sempre più spesso ad autori borderline?
Perché? Perché gli affidiamo i titoli più appariscenti, le vetrine più
luminose, le collane più accattivanti? Perché un tema tanto delicato a
un personaggio in qualche misura compromesso? Perché l’amatissimo formato del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica abbinato a una penna quantomeno opinabile?
Perché, voi che invocate “meno maestri e più testimoni”, ci rifilate un
maestrino testimonialmente impresentabile? Cosa o chi cercate di
raggiungere con questi “nomi”? Cosa pensate di ottenere? Io non lo
capisco
La fede non è questione di idee o di
dottrina, i libri che ci parlano di fede – specie se rivolti alla gente
comune – dovrebbero darci qualcosa in più di un paio di nozioni o di
consigli pratici. Ci serve una buona guida spirituale: le librerie
cristiane hanno da offrirci questo. O questo o la logica di mercato.
E la direzione spirituale non è questione di consigli chiacchierati, ma
è comunicazione tra spiriti feriti, in cui le anime più forti
sostengano nella risalite quelle più fiaccate. Credo profondamente in
questo; ecco perché resto perplesso di dover ricevere consigli dal buon
Paolo – che per me è e resta un contro-testimone, anche se nei testi è
ammiccante, simpatico, modesto. Gli manca l’essenziale, rispetto al suo impegno di saggista. Possibile che una casa editrice non se ne avveda?
Me
lo spiego. So bene infatti che questa mia fede nella comunicazione
spirituale non è più condivisa. È pane quotidiano dei grandi santi della
nostra tradizione, ma non dei grandiosi teologi sulla cresta dell'onda.
E' esperienza quotidiana della Chiesa nei secoli, ma non strategia
convincente nell'era della pastorale d'assalto. Anche qui abbiamo perso, abbiamo già perso. Il buon senso anzitutto. E poi la trasparenza.
Pastorale d'assalto, ideologia a buon mercato, Popolo di Dio trasformato in populismo-di-dio: sono questi i motivi per cui gli editori progressive devono volgersi sempre più spesso a penne eclatanti.
Basta,
mi fermo. Come primo articolo sono sicuro di aver già ecceduto – lo
farò sempre, credo di servire solo a questo. Concludo, mitigandomi con
altre sagge parole della signorina Stein, che sento calzanti:
Ciò
non significa cedere ad una critica priva di maturità. Significa
soltanto salvaguardare da un'ammirazione cieca, significa solo ammonire
che noi siamo in possesso d'un criterio assoluto che non è lecito
deporre e di un simbolo mediante il quale la nostra via si differenzia
da qualsiasi altra via.
Cara San Paolo, giusto per evitare confusioni: il Simbolo è Cristo, non il compasso. Buon Natale.
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