Nella dichiarazione "Nostra Aetate" sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, firmata da Paolo VI e dai padri conciliari il 28 ottobre 1965, si legge: «Se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello spirito di Cristo. La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, - prosegue la dichiarazione - memore del patrimonio che essa ha in comune con gli ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque. In realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di annunciare la croce di Cristo come segno dell’amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia».
Cade, quindi, l’accusa di deicidio nei confronti del popolo ebraico. Finisce, con questa storica dichiarazione del Vaticano II un antisemitismo latente ma presente nella Chiesa e di cui ancora oggi, seppur in misura marginale, si percepisce ancora la presenza. Il Concilio apre davvero le porte, così come aveva voluto il suo artefice, il beato Giovanni XXIII, e sceglie una strada che permetterà, alcuni anni dopo, il 13 aprile 1986, a un Papa figlio della nazione dove si trova il campo di concentramento di Auschwitz, di varcare la soglia di una sinagoga, quella di Roma. Pochi passi dal Vaticano per compiere il viaggio più lungo della storia per un Pontefice, anche per il globetrotter di Dio.
Senza il Vaticano II, cinquant’anni fa, nulla sarebbe cambiato. Da «perfidi ebrei», come recitava la preghiera del venerdì santo dell’antico messale tridentino di san Pio V, a «fratelli maggiori», secondo lo storico appellativo pronunciato dal beato Giovanni Paolo II, primo e unico Papa a citare il rabbino di Roma nel suo testamento.«L’eredità che vorrei adesso raccogliere - disse in quell’occasione Wojtyla - è appunto quella di Papa Giovanni, il quale una volta, passando di qui fece fermare la macchina per benedire la folla di ebrei che uscivano da questo stesso tempio. E vorrei raccoglierne l’eredità in questo momento, trovandomi non più all’esterno bensì, grazie alla vostra generosa ospitalità, all’interno della sinagoga di Roma. Questo incontro conclude, in certo modo, dopo il pontificato di Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, un lungo periodo sul quale occorre non stancarsi di riflettere per trarne gli opportuni insegnamenti. Certo non si può, né si deve, dimenticare che le circostanze storiche del passato furono ben diverse da quelle che sono venute faticosamente maturando nei secoli; alla comune accettazione di una legittima pluralità sul piano sociale, civile e religioso si è pervenuti con grandi difficoltà. La considerazione dei secolari condizionamenti culturali non potrebbe tuttavia impedire di riconoscere che gli atti di discriminazione, di ingiustificata limitazione della libertà religiosa, di oppressione anche sul piano della libertà civile, nei confronti degli ebrei, sono stati oggettivamente manifestazioni gravemente deplorevoli. Sì, ancora una volta, per mezzo mio, la Chiesa, con le parole del ben noto decreto "Nostra Aetate" “deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei ogni tempo da chiunque”; ripeto: “da chiunque”».
Stesso gesto compirà anche Benedetto XVI, che visiterà prima la sinagoga di Colonia all’inizio del pontificato, nel 2005, e poi quella di Roma nel 2010. E tra le due visite si fermerà ad Auschwitz, il 28 maggio 2006. «I potentati del Terzo Reich - dirà il Papa tedesco in quell’occasione - volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità e, in fondo, con l’annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno».
Ieri, Giornata della Memoria in ricordo dell’Olocausto delle vittime del nazismo, Benedetto XVI ha ricordato che «la memoria di questa immane tragedia, che colpì così duramente soprattutto il popolo ebraico, deve rappresentare per tutti un monito costante affinché non si ripetano gli orrori del passato, si superi ogni forma di odio e di razzismo e si promuovano il rispetto e la dignità della persona umana».
C’è ancora molto da lavorare, anche nella Chiesa, perché ciò avvenga. Ma nulla di tutto ciò sarebbe oggi possibile se più di cinquant’anni fa quel Papa di Sotto il Monte, eletto a settatasette anni al soglio di Pietro, non avesse testardamente indetto il Vaticano II. Prima di lui Pio XII era stato titubante e non aveva avuto il coraggio di prendere la stessa coraggiosa decisione. È grazie al Concilio che la Chiesa di Roma ha superato definitivamente il suo antisemitismo. Ed è grazie a due Pontefici figli della Polonia e della Germania che ha saputo testimoniare il legame che unisce i cristiani di tutto il mondo con i loro fratelli maggiori ebrei.
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