XI CONGRESSO TEOLOGICO DEL ‘COURRIER DE ROME’: “VATICANO
II, 50 ANNI DOPO: QUALE BILANCIO PER LA CHIESA?”, VERSAILLES-PARIGI 4-5-6
GENNAIO 2013.
resoconto di Cristina Siccardi
(seconda parte - per leggere la prima parte, clicca
qui)
Alessandro
Fiore ha chiuso il primo giorno compiendo una esaustiva rassegna sui
dibattiti e sulle pubblicazioni sul Concilio Vaticano II che in questi ultimi
anni hanno caratterizzato il panorama intellettuale italiano, sollecitato anche
dal celebre discorso del 22 dicembre 2005 di Benedetto XVI alla Curia romana
quando il Sommo Pontefice parlò delle diverse ermeneutiche dell’Assise.
Il 2009 è stato definito «l’année Gherardini»,
nel marzo di quell’anno, infatti, uno dei teologi più grandi della
contemporaneità, Monsignor Brunero Gherardini, ha pubblicato il celebre libroConcilio
Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, dove l’autore, con approfondite
argomentazioni ha posto in evidenza l’importanza di mettere sul tavolo la
questione Concilio, e da allora ha pubblicato altri libri dello stesso tenore.
Il suo appello non è rimasto senza risposta: nel dicembre 2010 la congregazione
dei Francescani dell’Immacolata ha organizzato un importante Congresso di studi
sul Concilio Vaticano II, dove sono intervenuti Padre Serafino Lanzetta,
Monsignor Luigi Negri, Monsignor Brunero Gherardini, i professori Yves Chiron e
Roberto de Mattei, Monsignor Athanasius Schneider, don Nicola Bux, padre
Florian Kolfhaus e il Cardinale Velasio De Paolis.
Nel 2011 è stato pubblicato Il Concilio Vaticano II.
Una storia mai scritta di de Mattei che con innumerevoli documenti è
stata ricostruita la storia dell’Assise, documenti che dimostrano la volontà di
un chiaro spirito di rottura con la Tradizione della Chiesa. Nello stesso anno
don Pietro Cantoni, che venne ordinato sacerdote da Monsignor Lefebvre ed ebbe
come maestro all’Università Lateranense Monsignor Gherardini, ha scritto il
libroRiforma nella continuità. Vaticano II e l’anticonciliarismo per
rispondere polemicamente alle affermazioni di Gherardini nel tentativo di
dimostrare la continuità del Vaticano II con la Tradizione della Chiesa alla
luce dell’ermeneutica della riforma nella continuità proposta da Benedetto XVI.
Il testo ha naturalmente suscitato la reazione del maestro Gherardini,
attaccato personalmente dal suo antico allievo, reazione che ha prodotto un
nuovo libro dell’insigne teologo, dal titolo Il Vaticano II. Alle
radici d’un equivoco. Nel mese di ottobre Roberto de Mattei ha pubblicato Apologia
della Tradizione, dove l’autore fa notare come in più episodi della storia
della Chiesa ci si è opposti alle decisioni e agli insegnamenti delle autorità
ecclesiastiche in nome della Tradizione. Nel 2012 padre Lanzetta, teologo dei
Francescani dell’Immacolata, ha pubblicato Iuxta modum. Il Vaticano II
riletto alla luce della Tradizione della Chiesa, dove sottolinea la
necessità di ricondurre il Concilio nel suo giusto alveo, togliendo quel
marchio di «superdogma» che gli è stato esageratamente imposto.
Il dibattito sul Concilio Vaticano II, ha ancora affermato
Fiore, si svolge anche su Internet, dove si possono trovare molti articoli di
diversi autori. È indubbio che ci sia stata una benefica influenza delle
discussioni tenute tra la Fraternità San Pio X e Roma sui dibattiti del
Concilio. Lo storico della Chiesa Giovanni Miccoli, di chiare simpatie
progressiste, ha scritto un libro La Chiesa dell’anticoncilio. I
tradizionalisti alla riconquista di Roma; l’autore mostra la sua
preoccupazione per un’operazione a Roma di restaurazione contro i progressi del
Concilio, utilizzando lo strumento della FSSPX, Fraternità peraltro elogiata da
Monsignor Gherardini nel suo saggio Quod et tradidi vobis. Anche il
domenicano padre Giovanni Cavalcoli con il suo libro Progresso nella
continuità. La questione del Concilio Vaticano II e del post-concilio ha
affermato di voler offrire un contributo utile alle discussioni fra Roma e la
Fraternità stessa. «Si può dunque dire che la Fraternità gioca un ruolo molto
importante per fare avanzare il dibattito, per animare una discussione
costruttiva, per esporre pubblicamente le sue posizioni e per avvalorare la sua
stessa esistenza». È chiaro che si è ormai aperta una strada che non potrà più
essere chiusa, una via che si oppone all’idea di un Concilio carismatico e
mistico di chiara impostazione soggettivistica, che tende a mitizzare, se non
ad adorare, il Vaticano II a discapito di tutti gli altri Concili della storia.
Nelle considerazioni conclusive Fiore ha affermato che il «Concilio Vaticano II
non è più “intoccabile”, non è più un super-Concilio. Anche al di fuori
del tradizionalismo si notano sempre più le carenze», certi teologi non esitano
a formulare delle critiche radicali e coloro che vogliono difendere a tutti i
costi l’ortodossia del Concilio spesso ammettono le deficienze del piano
pastorale, ovvero del livello specifico del Vaticano II, che ha mancato la sua
finalità propria e ha formulato delle attestazioni ambigue. Don Cantoni, per
esempio, nel suo libro Riforma nella continuità. Vaticano II e
anticonciliarismo, riconosce che nei documenti non è stato detto nulla
circa i pericoli del laicismo degli Stati. Padre Lanzetta parla sia di un certo
«pluralismo contraddittorio» nel Concilio, dove non sono chiari i limiti della
pastoralità e della dogmaticità, sia di discontinuità teologiche. Padre
Kolfhaus rimarca l’ottimismo dei padri conciliari che hanno rinunciato alle
definizioni dottrinali e alle solenni condanne. Padre Cavalcoli ammette che il
linguaggio del Concilio manca di precisione, univocità e chiarezza «che si
trova nei Concili precedenti», un linguaggio che ha finito per dividere in
qualche modo la Chiesa. Alessandro Fiore ha ancora affermato che il «Vaticano
II è un Concilio “mancato”: voleva essere pastorale, e non è stato pastorale.
In generale si percepisce un bisogno sempre più grande di chiarezza dottrinale
dopo la confusione creata dal Concilio e il dopo Concilio». Monsignor
Gherardini supplica il Santo Padre di mettere chiarezza in quale misura il
Concilio è stato fedele alla Tradizione; padre Lanzetta desidera un documento
metafisico-dogmatico del Magistero per definire l’interpretazione corretta del
Concilio; Monsignor Schneider ha proposto un Sillabo degli errori circa
l’interpretazione del Concilio Vaticano II; de Mattei sottolinea l’urgente
necessità di un nuovo Sillabo o di una nuova Professio fidei. «È
chiaro che le discussioni teologiche dureranno ancora per molto tempo, ma a me
sembra, ed è quello che volevo dimostrare, che diventiamo sempre più
consapevoli, almeno in alcuni ambienti, non solamente dei mali che affliggono
la Chiesa, ma anche delle cause di questi mali e delle responsabilità
dell’ultimo Concilio. Non possiamo che desiderare che un giorno le autorità
riconoscano tutto ciò e vengano applicati i rimedi - quale rimedio migliore se
non la Tradizione? - per il bene della Santa Chiesa».
Sabato 5 gennaio è stato preso in esame il punto di vista
dottrinale e sono intervenuti padre Patrice Laroche, professore del Seminario
tedesco di Zaitzkofen («Un tentativo di dogmatizzare il Concilio Vaticano II»);
il professor Giovanni Turco dell’Università di Udine («La modernità e il
Vaticano II); padre Yves le Roux, direttore del Seminario di Winona negli Stati
Uniti («Un Concilio non come gli altri»); padre Franz Schmidberger,Superiore
del distretto di Germania («L’ermeneutica della continuità o della rottura?»);
padre Jean-Michel Gleize, professore del Seminario di Écône («Due concezioni di
Magistero») e padre Alain Lorans, redattore di D.I.C.I. («Lo sguardo della fede
e la lezione dei fatti»).
Padre Laroche ha spiegato che il tentativo di dogmatizzare
il Concilio Vaticano II è viziato fin dalla partenza. «Alla domanda sui
rapporti tra Roma e la FSSPX, il Prefetto della Congregazione per la Dottrina
della Fede, Monsignor Gerhard Ludwig Müller ha affermato, nell’autunno 2012 in
un’intervista alla radio tedescaNorddeutscher Rundfunk: “La porta è
sempre aperta... ma non vi è alcun compromesso in termini di fede cattolica,
soprattutto perché è stata definita regolarmente dal Vaticano II ... Non
possiamo negoziare la fede cattolica, non ci può essere nessun compromesso».
Con queste parole pare che con il Vaticano II si sia dato un insegnamento
definitivo e, quindi, immutabile e infallibile o quasi. Ebbene, ha proseguito
il professore, oggi «come lo era 30 o 35 anni, Roma è estremamente imbarazzata»
quando si afferma che esistono alcuni testi del Concilio sbagliati o che alcune
decisioni del Vaticano II sono dannose per la fede. Esistono dei significativi
esempi al riguardo: il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede,
il Cardinale Seper, scrisse a Monsignir Lefebvre il 28 gennaio 1978, a
proposito della libertà religiosa: «Questa Dichiarazione conciliare è
chiaramente un insegnamento del Magistero, anche se non è l’oggetto di una
definizione, richiede obbedienza e consenso (cf. Cost.. Dogm. Lumen Gentium,
25). Perciò non è lecito respingerlo come errato».
A proposito del Novus Ordo, ancora il Cardinale
Seper ha detto: «Un fedele non può mettere in dubbio la conformità con la
dottrina della fede di un rito promulgato dal Supremo Pastore, soprattutto se è
il rito della Messa, che è al centro della vita della Chiesa». Sullo stesso
argomento il Cardinale ha chiesto a Monsignor Lefebvre, durante un
interrogatorio alla Congregazione per la Dottrina della Fede, il 12 gennaio
1979:
«Può un fedele cattolico pensare e dire che un rito
sacramentale, specialmente nella Messa, approvato e promulgato dal Sommo
Pontefice, sia incompatibile con la fede cattolica o favens haeresim?».
Monsignor Lefebvre diede questa risposta: «Questo rito non professa la fede
cattolica chiaramente come l’ordine della Messa di prima e, quindi, può
promuovere l’eresia». Inoltre, disse ancora il fondatore della Fraternità
Sacerdotale San Pio X: «la cosa stupefacente è il sapore protestante
dell’Ordine di questa Messa e quindifavens haeresim». Monsignor
Lefebvre dichiarò, quando fu rimproverato di un comportamento “scismatico”:
«Penso che sia possibile, come hanno fatto molti altri nella storia,
manifestare riluttanza, su alcune decisioni, nei confronti del Papa e della
Curia Romana. [...] Fino a quando non si impegna l’infallibilità papale, la
presentazione pubblica di certe difficoltà, da parte di un vescovo, non è un
crimine di ribellione, se la presentazione stessa è basata sulla tradizione».
È importante, per chiarire ogni cosa, considerare l’autorità
dottrinale del Concilio Vaticano II. La risposta la troviamo in un comunicato
ufficiale della Commissione dottrinale del 6 marzo 1964, ribadita il 16
novembre 1964, in cui si afferma esplicitamente:
«Compte tenu de l’usage des conciles et du but pastoral
du concile actuel, celui-ci ne définit comme devant être tenus par l’Eglise que
les seuls points concernant la foi et les mœurs qu’il aura clairement déclarés
comme tels. Quant aux autres points proposés par le Concile, en tant qu’ils
sont l’enseignement du magistère suprême de l’Eglise, tous et chacun des
fidèles doivent les recevoir et les entendre selon l’esprit du Concile lui-même
qui ressort soit de la matière traitée, soit de la manière dont il s’exprime,
selon les normes de l’interprétation théologique».
Alla base di tutte le dottrine moderne, vi è un nuovo
concetto del rapporto della Chiesa con il mondo e tale disegno di base non ha
radici nella Scrittura e nella Tradizione plurimillenaria della Chiesa
cattolica romana. Questo è ciò che può rendere le decisioni non infallibili,
sospendendo, pertanto, l’obsequium religiosum, necessario in circostanze
normali. San Paolo (Gal 2, 11-14) non ha resistito a san Pietro, perché Pietro
aveva sbagliato ad associarsi a coloro che «non camminavano rettamente secondo
la verità del Vangelo»?
Con valide ragioni Monsignor Lefebvre ha scritto che la
nuova professione di fede è accettabile, ma, nella fattispecie, con la condizione
di non cadere in dottrine che si contraddicono fra di loro. Si può, allora,
notare che il Vaticano II e il Magistero post-conciliare sono diventati «più
esigenti di quanto fosse la Chiesa prima del Concilio. In precedenza il religiosum
obsequium è stato richiesto quando si trattava di errori di condanna o
punti controversi che il Papa ha voluto risolvere. Oggi un cattolico dovrebbe
accettare ciò che insegna Roma, anche se si tratta di nuove dottrine, una volta
condannate, anche se le applicazioni portano alla perdita della fede e sono
rovinose per la vita cristiana. Il obsequium religiosum è
diventato un modo di pensare e di agire».
Il professor Giovanni Turco ha poi affrontato la questione
del metodo, precisando che l’autentica intelligenza filosofica è la via, «il
pronao», per l’intelligenza teologica. «Il Concilio Vaticano II si presenta
programmaticamente ed intenzionalmente come “pastorale” (pur senza definirne
esplicitamente la nozione). La pastoralità ne individua perciò la natura ed il
criterio - donde la peculiarità, l’indole ed il registro - e perciò il limite
intrinseco (dichiarato esplicitamente dagli stessi testi conciliari). Anzi, la
pastoralità -che propriamente è inconfondibile con il campo dottrinale e con
quello disciplinare, pur essendo ovviamente ad essi strettamente connessa - ne
fissa la singolarità (assoluta). In tal senso il Vaticano II, con i suoi
documenti, eleva un metodo ed un linguaggio - quello appunto pastorale - a
criterio di elaborazione e di espressione di ogni suo testo e di ogni suo atto.
Sicché il metodo ed il linguaggio precedono il contenuto (tanto sotto il
profilo dottrinale quanto sotto quello disciplinare). Il metodo sarebbe dato,
il contenuto da darsi. Il linguaggio sarebbe fissato, il messaggio sarebbe da
formulare. Il metodo ed il linguaggio assurgono così al rango di filtro
attraverso il quale occorre comunicare qualsivoglia nozione.
Da tale premessa si profila, a ben vedere, un primo problema
essenziale ed imprescindibile. Esso riguarda il significato stesso del metodo e
del linguaggio, in rapporto ad un contenuto (quale che sia). Nei suoi termini
essenziali ne emerge un quesito ineludibile. È possibile fissare un metodo ed
un linguaggio aprioristicamente rispetto al proprio oggetto? Può darsi un
metodo ed un linguaggio che costituiscano un prius (per se
stesso) rispetto al proprio contenuto? In altri termini, può il metodo ed il
linguaggio subordinare a sé il proprio oggetto (sia pure, per quanto attiene al
proprio campo)? Ovvero, può il metodo ed il linguaggio essere considerato
autonomamente rispetto al proprio contenuto?
Come si rileva, tale questione è filosoficamente
ineludibile. La risposta affermativa o negativa rinvia al rapporto tra metodo e
fondamento ed altresì tra linguaggio ed oggetto. È il metodo per sé fondante?
Il metodo dipende dal fondamento o il fondamento dipende dal metodo? Il
linguaggio dipende dal suo oggetto oppure l’oggetto dipende dal linguaggio?
Altrimenti, il linguaggio ha un rapporto estrinseco oppure intrinseco al suo
oggetto? A ben considerare, tertium non datur.
Anzitutto è da osservare che né il metodo né il linguaggio
sono metafisicamente ed assiologicamente indifferenti. Nessun metodo, come
nessun linguaggio, è neutrale rispetto ai principi logici ed etici. Nessun
metodo, come nessun linguaggio si risolve in una mera tecnica. Al contempo
neppure la tecnica è per sé indipendente dal suo oggetto e dal fine per il quale
è impiegata. Il problema del metodo non è un problema di metodo. Il problema
del linguaggio non è un problema di linguaggio. Il metodo non spiega il metodo.
Il linguaggio non spiega il linguaggio. Analogamente può essere rilevato che la
pastoralità non spiega la pastoralità (né come metodo né come linguaggio). Come
per se stesso il finito non spiega il finito, ma esige necessariamente il
fondamento.
Tanto il metodo quanto il linguaggio - anche ovviamente
quando l’uno e l’altro si connotano come pastorali - rinviano al “ciò per cui”
essi sono tali, ovvero rimandano a ciò che, trascendendoli, ne costituisce
l’intima ragion d’essere, ed assicura ad essi validità specifica. Tanto il
metodo quanto il linguaggio sono tali in quanto veri (e veramente tali), non
sono veri in quanto tali. Essi rinviano, cioè, ad un criterio di validità, in
ragione del quale un certo metodo (come un certo linguaggio) è valido ed un
altro no. Ed il criterio di validità null’altro è se non il criterio di verità,
ovvero il criterio di conformità intrinseca, secondo cui un metodo (ed un
linguaggio) in rapporto al proprio oggetto, è autentico oppure no.
D’altra parte, è chiaro che il problema del metodo come
quello del linguaggio (analogamente a quello della conoscenza), proprio per la
loro relazione essenziale a ciò rispetto a cui costituiscono rispettivamente
viainveniendi e via loquendi, non si pone in termini
generici, ma necessariamente in termini specifici. Esso richiede la
determinazione di ciò rispetto a cui il metodo (come il linguaggio) è
propriamente tale. Altro è il metodo (ed il linguaggio) della metafisica, altro
quello delle scienze empiriche, altro quello della teologia altro quello delle
arti. Altrimenti, come evidenzia Platone (nel Gorgia) un metodo (o una
pratica), che pretende di essere avulso dall’oggetto, e perciò di valere per
qualsiasi contenuto (come quello sofistico), può persuadere solo gli ignoranti
(non i competenti).
Ora, va osservato che la modernità esordisce con Cartesio e
con Bacone – ed ancora prosegue emblematicamente con Spinoza e con Locke, con
Kant e con Comte – affermando il primato del metodo e facendo della filosofia
prioritariamente una questione di metodo, fino a far coincidere – lungo
direttrici distinte eppure omologhe – metodo, linguaggio e contenuto con Hegel,
da una parte, e con la filosofia analitica, dall’altra. Dove il metodo ed il
correlativo linguaggio non hanno una mera priorità metodica (cosa che
porterebbe chiaramente ad un circolo vizioso, ovvero ad una petitio
principii) ma hanno una priorità costitutiva del sapere stesso».
Il primato del metodo e del linguaggio caratterizzano il
razionalismo moderno. «Il primato del metodo coincide con l’autereferenzialità
del razionalismo moderno, che (come ha acutamente diagnosticato Cornelio Fabro)
presume di porre l’essere alle dipendenze del conoscere. La precedenza del
metodo è la precedenza del conoscere sull’essere, ed ancor prima presuppone la
priorità del volere rispetto al conoscere stesso. La metafisica, così, finisce
per dipendere dalla gnoseologia».
Diversamente, nel pensiero classico è il contenuto a fondare
il metodo ed il linguaggio, come è l’essere a fondare il conoscere: la verità di
una proposizione e di un ragionamento dipende dal suo contenuto, non dal suo
metodo, neppure dal suo linguaggio, come chiarisce Aristotele nella Metafisica
(libro VI).
«San Tommaso d’Aquino insegna che il discorso persuasivo
(per sé distinto da quello dimostrativo), non svuota la ragion d’essere della
fede ed è fondato su ciò che ne costituisce il contenuto. Una scienza non rende
evidenti i propri principi, ma in virtù dell’evidenza dei principi, rende
evidenti le conclusioni. La scienza dipende dai principi, non i principi dalla
scienza. Senza principi non vi può essere scienza, né qualsivoglia autentico
sapere.
In definitiva, è il contenuto a fondare il metodo, non
viceversa. Il metodo sta sul fondamento dei principi, non i principi sul
fondamento del metodo. Il metodo, come il linguaggio, non è mai neutrale nei
confronti dei principi. È l’oggetto a giudicare del metodo – e del linguaggio –
non il metodo a giudicare dell’oggetto. Il metodo come il linguaggio o sono
ricondotti all’essere, oppure pretendono di sostituirsi ad esso».
Tali considerazioni vanno esposte anche per il criterio
della pastoralità che caratterizza il Concilio Vaticano II. «Il primato della
pastoralità equivarrebbe al primato del metodo e del linguaggio. Ma tale
primato non può darsi sotto il profilo epistemologico, né propriamente sotto il
profilo ontologico. Il metodo come il linguaggio non hanno alcun primato:
dipendono essenzialmente dall’ordine del vero, cioè dall’ordine dell’essere.
Anche là dove la conformità in cui consiste la verità si riferisce al contenuto
della Rivelazione.
L’impostazione dei documenti del Concilio Vaticano II pone,
quindi, un fondamentale problema epistemologico. Anzitutto nella prospettiva
epistemica soggiacente all’elaborazione dei testi, la quale proprio in quanto
pastorale non è né dottrinale né disciplinare. Nel primo caso essa ha la verità
(delle proposizioni e del ragionamento) come fondamento; nel secondo caso la
giustizia (e l’equità). Diversamente, la pastoralità (per se stessa da
misurarsi sulla dottrina e sulla disciplina) ne costituisce al contempo il
criterio e la questione. Essa è già una interpretazione, a parte ante.
Proprio per questo, a sua volta, richiede una interpretazione, a parte post.
Per sé non spiega, ma deve essere spiegata. Come tale, non può che essere una
misura da misurarsi. Appena enunciato – il criterio della pastoralità – vede
emergere ineludibilmente i problemi essenziali relativi alla sua stessa ragion
d’essere. Problemi che non possono essere occultati, affinché vi sia autentica
intelligenza dei testi».
XI CONGRESSO TEOLOGICO DEL ‘COURRIER DE ROME’: “VATICANO II, 50 ANNI DOPO: QUALE BILANCIO PER LA CHIESA?”, VERSAILLES-PARIGI 4-5-6 GENNAIO 2013. Resoconto di Cristina Siccardi – (seconda parte)
(continua)
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