PERCHÉ PAPA RATZINGER-BENEDETTO XVI
DOVREBBE RITIRARE LE SUE DIMISSIONI.
di Enrico Maria Radaelli
L’11 febbraio 2013, festa della Santa Vergine di Lourdes, il
mondo ha ascoltato impietrito il Comunicato con cui è stato annunciato che Papa
Joseph Ratzinger-Benedetto XVI ha dato le dimissioni, con effetto il giorno 28
dello stesso mese, dal suo altissimo Trono di Vicario di Cristo, di Sommo Romano
Pontefice, di Vescovo di Roma e del mondo.
Le motivazioni adombrerebbero un sentimento di
riconoscimento razionale e ponderato di insufficienza della persona, ormai
molto avanti negli anni, impossibilitata ad affrontare i doveri cui è chiamato un Pontefice “del giorno d’oggi”,
ossia davanti al carico immenso, sempre più oneroso, oramai davvero
soverchiante, dell’altissimo ufficio.
Quel che qui si vuole esprimere potrebbe contrastare in qualche
misura o anche totalmente il punto di vista di persone religiose di diversa
sensibilità da quella di chi scrive, ma mi si permetta di esporre il mio
convincimento prendendolo quale vuol essere e non come forse nella foga del discorso
potrebbe apparire: una del tutto possibile congettura, un’ipotesi di lavoro;
certo: ragionevolmente convinta, adeguatamente argomentata – si crede –
logicamente e scritturalmente, che non vuole avere alcuno scatto di
perentorietà se non quello di sollecitare il tempo a fermarsi almeno per
qualche attimo, così da avere almeno per un giorno il sole fermo, e così non
permettere ciò che, nella prospettiva qui da me aperta, l’irreparabile appunto,
davvero avvenga.
In un lunedì di ordinario concistoro, divenuto
improvvisamente fatidico, la cattolicità resta frastornata, inebetita da un
annuncio inatteso, da una sonorità di tuono che quasi la
pietrifica: “Il Papa si dimette”. La notizia avvolge il
mondo in un baleno, e subito lo rinserra come in un’unica pietra.
Il Papa si dimette. Si dimette?! Come: “Si dimette”? E la madre
di famiglia? e la luna? è caduta anche la luna? Perché non si dimette la madre
di famiglia? perché non cade la luna?
Come fa il Papa a ‘dimettersi’?
Infatti la carica ricoperta da un Papa è carica dove il
sacrificio è natura sua indistruttibile e assoluta conditio a priori a ogni
altra considerazione: « “Simone di Giovanni, mi ami tu più
di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti
amo”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo: “Simone di
Giovanni, mi ami?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti amo”. Gli
disse: “Pasci le mie pecorelle”. Gli disse per la terza volta: “Simone di Giovanni,
mi ami?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?,
e gli disse: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo”. Gli rispose GESÙ:
“Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti
dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e
andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti
cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. » (Gv 21, 15-8).
La croce è lo status di ogni cristiano: Cristo, crocevia tra
Dio e gli uomini, Imago dell’Immagine di Dio per rappresentare dai Cieli Dio
agli uomini e dalla terra gli uomini a Dio, è il modello esemplare a ogni suo
seguace. Non c’è seguace di Cristo, non c’è “cristiano” cui la croce possa
essere alleggerita, né tantomeno tolta: a san Paolo, esemplarmente, che ben tre
volte supplicò il Signore di sollevarlo dai tormenti, Cristo rispose: « Ti
basta la mia grazia. La mia potenza infatti si manifesta pienamente nella [tua]
debolezza » (2 Cor 12, 9). E se si torna al Monte degli Ulivi, si sentirà
ancora l’eco delle decise parole di obbedienza e sottomissione del divino
Agonizzante: « Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io
lo beva, sia fatta la tua volontà » (Mt 26, 42).
Conseguenze: ribellarsi al proprio status, rigettare una grazia
ricevuta, parrebbe per un cristiano, da san Paolo in giù – per non dire da
Cristo in giù –, colpa (grave) contro la virtù
della speranza, contro la grazia e contro il valore
soprannaturale dell’accettazione della propria condizione umana, tanto più
grave se la condizione ricopre ruoli in sacris, come
è la condizione, di tutte la più eminente, di Papa.
Non mi avvalgo delle centinaia di Pontefici che accettarono fino
allo stremo il durissimo incarico: a decine li troviamo, nei secoli più
terrificanti e bui della storia, eletti al Sacro Soglio magari già vecchi di
anni oltre ogni dire – e spesso, maliziosamente, eletti proprio in quanto
vecchi e acciaccati oltre ogni dire –, e Papi che ciò accettarono spesso ben
sapendo della malizia con cui si approfittava della loro canizie.
Chi non ha letto nei libri di storia dei Papi che gli eletti
dopo Papa Gregorio X, furono tutti di breve, di brevissima durata, perché
nominati con la machiavellica intenzione che per la loro età o la loro salute o
entrambe le cose, sul Sacro Soglio restassero poco, così da creare una
situazione insostenibile e poi prenderla ancor più facilmente in pugno?
Non mi avvalgo delle centinaia di Papi che eroicamente resistettero
davanti ai soprusi più sfacciati, alle angherie più ribalde, ai tormenti più
atroci: querce indomite, spesso però dal fisico di fuscelli e di men che
fuscelli, macerati poi di sovente anche da lunghi digiuni e da vere penitenze
(allora digiuni e penitenze si comandavano e si facevano), la Chiesa offre
boschi interi di forti Papi tanto ben radicati nell’amore a Cristo e nella fede
che di tale amore è la sostanza più interna e inflessibile: queste querce, come
Pietre son rimaste tutte al loro posto malgrado la violenza dei tormenti
soffiasse sopra di esse e tutt’attorno – e certo anche nei loro cuori di carne,
ben tremebondi com’erano per ciò che sapevano di essere se non avessero anche
saputo che era il Signore a comandarli dov’erano –, cercando di spazzarli via
come pagliuzze e anche abbruciarli.
Non mi avvalgo poi delle decine e decine di Papi
propriamente e materialmente ‘martiri’, sarebbe troppo facile: il loro sangue
si è sparso a fiotti per almeno tre secoli sulla rena del primo Cristianesimo
davanti a plebi e imperatori che sghignazzando li avrebbero anche volentieri
calpestati pur di annientare in loro il loro vero nemico, Cristo GESÙ.
Essi non si sottrassero al martirio, né al carcere
durissimo, né ai lavori forzati, ma tutto assunsero nella loro intrepida ma
anche trepidissima carne.
« “Simone di Giovanni, mi ami tu?” “Certo, Signore, tu lo
sai che ti amo”. “Pasci i miei agnelli”. ». Che è a dire: “Simone di Giovanni, vuoi
vincolarti a me con il vincolo più forte della morte?” “Sì, Signore, lo
voglio”. “Governa ciò che è mio”.
Neanche la morte può recidere un vincolo tre volte più forte
della morte come è questo vincolo. Non c’è un vincolo tra Cielo e Terra più
solido e indistruttibile di questo vincolo.
Dunque non mi avvalgo della storia. Ma è del Cristo che mi
avvalgo. La storia nulla è, se non le si riconosce l’intima sua qualità di rivestire,
di ricoprire, quasi di nascondere, un’essenza,
la quale essenza però, di suo, le sfugge, le è superiore, e
la governa: i Papi, molti, moltissimi Papi si sono sacrificati fino a dare la
vita, e non solo col sangue; molti, la maggioranza straripante, si sono
interamente regalati all’amore totale e totalizzante per il loro Cristo e per
il loro gregge, il quale è loro perché è del loro Cristo.
La storia dei Papi è stracolma di esempi straordinari di
immolazione sull’altare della fede e dell’amore per il loro GESÙ. L’essenza
rivestita dalla storia, immobile e sovrastorica, è l’amore divino che l’ha
generata, che da Dio fluisce ma pure che a Dio ritorna attraverso l’immolazione
dei suoi adoratori e seguaci.
Molti, non tutti, dicevo, sono i Papi ‘donatori di sé’:
molti, e non tutti, perché la storia, schiava del diavolo, mille volte cerca di
sottrarsi all’amore potente ma delicato di Cristo, e viene strattonata con le
unghie e con i denti dal vile menzognero, malgrado l’amore del Cristo sia mille
volte più ragionevole e diecimila volte più persuasivo delle insignificanti suggestioni
del feroce e astutissimo suo imitatore.
Sull’Appia antica, all’incirca all’incrocio con la via
Ardeatina, ai tempi della prima persecuzione di Nerone, gli Atti di Pietro, pur
apocrifi, narrano comunque di un Pietro fuggiasco, che, impaurito, terrorizzato
dalla ferocia neroniana scatenata come fuoco contro la nuova setta dei
Cristiani, temendo di presto perdere la vita corre sulla strada che porta
a Brindisi, per poi lì imbarcarsi verso Israele, verso
Ierusalem, ma si imbatte in GESÙ, che cammina in direzione contraria, verso
l’Urbe: « Quo vadis, Domine? », « Dove vai, Signore? », stupefatto gli dice. E
GESÙ: « Vado a morire al posto tuo, Simone ».
Notare bene: “Simone”, non “Pietro”.
Il fuggiasco non è più degno di portare il nome caricatogli
dal Cristo, Cefa, Pietra, Roccia, ‘L’Infallibile certezza di altissima Verità’.
Il pavido egoista e molto umano Simone, che certo avrebbe ricevuto la più
totale comprensione dai de Bortoli, dai Galli della Loggia, dai Magris, dai
Mancuso, dai Melloni, dai Messori, dagli Scalfari, dai liberali insomma di
tutto il mondo di
dentro e di fuori della Chiesa, quasi il suo sia « per il
bene della Chiesa » un gesto di libertà e di coraggio, « un gesto profetico », come
sussiegosamente esclamano persino i laicisti più spinti,
si trova nudo nel suo antico nome di pescatore da nulla: un
uomo slegato dalla Croce.
Ma qui ci si chiede se non si sia slegato, in qualche modo,
anche dalla Provvidenza dei Cieli.
Ecco cosa succede quando un Papa (ma anche un vescovo qualsiasi,
anche un chierico tra i tanti, dirò di più: persino l’ultimo dei fedeli) fugge
dal luogo dove l’ha spinto Cristo a penare, a soffrire, forse a morire: succede
che Cristo va a penare, a soffrire, forse anche a morire, sì, al posto suo.
Il fatto è che quella sofferenza qualcuno la deve fare, e la
deve fare perché la deve offrire, perché il male non può andare perduto: il
male, ogni singolo male, va redento, va riscattato,
ossia non solo va raccolto e tramutato nel bene originale che
era, ma, con l’avvento di Cristo, va fatto salire alla pienezza del bene divino
e di bene divino va riempito.
Cristo ha portato la croce nel mondo per togliere, «
inchiodandolo alla croce » (Col 2, 14), il male dal mondo, come dice il Salmo:
« Gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra
di me » (Sal 69, 10): il male, immane insulto dei demoni e dell’Inferno
alla meraviglia dell’opera della creazione compiuta da Dio Padre, è ricaduto
tutto sulla croce del Figlio,
tutto, così che essa ha raccolto tutto il male del mondo e
lo ha inchiodato a sé. Tutti i fedeli di Cristo si lasciano compenetrare dal
desiderio d’amore di dedizione di partecipare in crocifiggente pienezza al suo
Sacrificio anche solo con la propria semplice vita quotidiana da nulla, con
atti banali quali salire sui mezzi pubblici stracolmi, affrontare il freddo e
il gelo per fare anche qualcosa di più del proprio dovere, non rispondere a un
ingiusto rimprovero, preparare la tavola con amore anche quando a fine giornata
si è prostrati dalla fatica,
pronti sempre a salire nell’immolazione in atti sempre più
eroici – pubblici o silenti che siano – sempre nella più generosa offerta di
sé, nell’obbedienza anche estrema alle leggi di Dio e a ogni suo volere,
inchiodandosi in ogni modo comunque alla croce con lui e così, trafitti dai
medesimi chiodi dal demoniaco insulto, in ogni attimo invece vincerlo.
Qui non ci si sta interrogando su quali possano essere le ragioni
di un ripiegamento, perché o si sta alle ragioni addotte – « sono pervenuto
alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata,
non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il
ministero petrino » –, o si possono aprire le porte alle illazioni più fantasiose,
ma lasciando nell’angolo il punto fondamentale:
se le dimissioni costituiscano o non costituiscano un bene per
la Chiesa, cioè se siano moralmente un lacerante vulnus o invece l’unica strada
da prendere per il prosieguo del suo
cammino di evangelizzatrice e santificatrice del mondo.
Davanti alla Chiesa si sono assiepati in questi ultimi
cinquant’anni conflitti teologici sempre più gravi, le eresie più antiche e
pericolose si sono ridestate come serpi alzando il capo davanti e fin dentro le
chiese di tutto il mondo senza che alcun Pastore le riconoscesse, le additasse,
le fulminasse; la sconcezza della libertà di Rito si è sparsa per gli altari dell’orbe
cattolico schiacciando al muro l’unico Rito che avrebbe avuto e difatti aveva
la forza di combattere e vincere il liberalismo e il modernismo dedogmatizzante
ora tanto vittorioso; per non dire delle terrificanti, squallide e odiose cancrene
in cui sono stati e sono tutt’ora coinvolti a centinaia i suoi Pastori, e, di
questi, proprio quelli che più dovrebbero mostrare integrità celestiale per il
loro contatto con la purezza infantile; premono infine da ogni dove, ossia persino
dalle voci inaspettate di cardinali ad alta visibilità e ad ancor più alto
progressismo come il defunto Carlo Maria Martini, e in generale oramai direi da
pressoché tutta l’universalità cattolica, che, avendo subito negli ultimi
cinquant’anni una forte accelerazione alla propria già latente
protestantizzazione dal Rito dedogmatizzato del Novus Ordo Missæ, ora non
chiede che di uniformarsi, nei costumi, alle dottrine naturalistiche assorbite,
premono, dicevo, le richieste per equiparare i costumi cattolici a valenza
soprannaturale a quelli laicisti a valenza naturalistica, e quest’ultimo è
forse, di tutti, l’elemento più vistoso, e magari anche lo scatenante.
La marcatura naturalistica è oramai nella Chiesa
spiccatissima (vedi Comunione e Liberazione), il sentire semiprotestantico prepotente
(vedi Bose, Taizé, Sant’Egidio, Neocatecumenali e Focolarini), e quelle pur
larghe sacche cattoliche integre che ancora volentieri sarebbero anche disposte
a rigettare l’una e l’altro, sono intimidite, intimorite oltre ogni dire dalla
voce grossa e boriosa dei potentissimi laicisti e liberisti, i quali, esterni e
interni alla Chiesa, dettano legge, nel senso che, appropriatisi da decenni dei
registri accademici e
dei tabulati degli organici di filosofia, scienza, cultura,
pedagogia, di tutte le arti e della comunicazione, impongono come vere e come
naturali quelle leggi velleitarie e innaturali
che da se stessi si sono a propria misura procacciate.
Da qui le richieste di rivoluzionare finalmente i costumi concedendo
per esempio la comunione alle coppie divorziate e ai risposati, il matrimonio
alle persone dello stesso sesso,
il diritto alle medesime, una volta “sposate”, di adottare bambini,
per non parlare delle pretese che si hanno nel vastissimo e delicatissimo campo
del diritto alla vita, pressato dalla nascita alla morte da richieste germinate
non da altro che dal più sfrenato naturalismo.
Ma perché non chiamarlo con il suo nome? Esso nient’altro è
se non sfrenato puro e
semplice egoismo.
Tutte queste varie maree che sui due piani – teoretico
sopra, pratico sotto – sono da tempo straripate nella Chiesa dopo il Vaticano
II, che ha aperto le porte della doppia esondazione
allorché trapassò il linguaggio della Chiesa, da naturaliter
dogmatico qual era, a simpliciter pastorale, che poi neanche pastorale è, come
dimostro ne Il domani – terribile o radioso? – del dogma appena pubblicato, in
tal modo polverizzando l’unica e sola diga veritativa che avrebbe potuto e dovuto
tenere la Chiesa a propria difesa dal demonio e dal mondo, e, in sé, l’uomo, e
intorno a sé la civiltà, la storia, l’avvenire tutto, per tutti tenere e tutti
portare nella realtà.
Quindi si deve capire bene, a mio avviso, che non è certo questo
il momento in cui – se per ipotesi la cosa si potesse realizzare, ma ora si
vedrà che no: non si può – si possano
dare le dimissioni da Vicario di Cristo: la Chiesa è sotto schiaffo
ora più che mai, e il timoniere, con gli argomenti portati, a mio avviso deve
stare ben saldo, malgrado tutto, al suo posto di timoniere.
A Dio il sommo timone: egli sa commisurare le nostre forze
alle altrui, e ciò mi basta.
Le dimissioni di Benedetto XVI vanno inquadrate in questo
scenario ipodogmatico, a basso profilo veritativo, in questa che Amerio
chiamava « desistenza dell’autorità », dove
dominano i gesti e i linguaggi artificiali, i gesti e i
linguaggi di legno, finti, irreali, portati dal mondo nella Chiesa in occasione
dell’assise di cinquant’anni fa, che siano quelli del linguaggio magisteriale
piuttosto che quelli della liturgia, quelli delle nuove comunicazioni con cui
ancora il magistero si inerpica con una certa dose di sprovvedutezza, tipo
Biennale di Venezia o twitter, alla ricerca della società, o quelli di
irrevocabili decisioni del supremo Pastore: magistero pastorale post Vaticano
II, Novus Ordo Missæ e dimissioni papali sono tre eventi epocali, grandiosi,
abnormi, protratti per decenni nel tempo o ratti come fulmine che siano non ha alcuna
influenza né importanza: restano comunque artificiali, restano avvenimenti
disgiunti, sconnessi, avulsi dalla realtà.
Il motivo per cui sono “di legno”, come ho detto, i
linguaggi di magistero e liturgia post Vaticano II, lo spiego esaurientemente nel
mio appena citato Il domani … del dogma;
quello invece per cui lo sono le attuali dimissioni papali
lo argomenterò ora:
va considerato infatti che il canone 333 del Codice di
Diritto Canonico, di recessione dal triplo mandato che le consentono(recessione
del munus docendi, del munus regendi e del munus sanctificandi), non a caso
voluto da quel Papa autodimissionato che Dante inchioda come vile (Inf., III,
60), Pietro da Morrone-Celestino V, usa assolutamente del potere che gli è
conferito di monarca sommo e assoluto, ma è un canone che mette in
contraddizione il papato con se stesso, e ciò, a mio avviso, non è possibile.
Infatti, nemmeno Dio usa assolutamente del suo potere
assoluto, né lo potrebbe, ma solo relativamente, come ben spiegato da san Tommaso,
che in primo luogo ricorda: « Nulla si
oppone alla ragione di ente, se non il non-ente » e spiega:
« Dunque, alla ragione di possibile assoluto, oggetto dell’onnipotenza divina,
ripugna solo quello che implica in sé simultaneamente l’essere e il nonessere.
Ciò, infatti, è fuori del dominio della divina onnipotenza,
non per difetto della potenza di Dio, ma perché non ha la natura di cosa fattibile
o possibile. Così, resta che tutto ciò che non implica contraddizione, è
contenuto tra quei possibili rispetto ai quali Dio si dice onnipotente »
(S. Th., I, 25, 3).
Solo la nozione di Dio degli Islamici è una nozione
assolutista, perché per essa Dio è onnipotente nel senso che può persino – per
tale sua illimitata potenza – volere di non essere
Dio. Ma san Tommaso mostra che Dio, Essere tutto in atto,
non può volere ciò che repelle all’essere: lui, l’Essere, non può volere di non
essere (e neanche lo può pensare).
Solo un Papa, si dice, può avere il potere di dimettersi, ma
io dico che tale potere non l’ha neanche il Papa, perché sarebbe l’esercizio di
un potere assoluto che contrasta con
l’essere di se stesso medesimo, di non essere quel che si è.
Ora, imporre a se stesso di non essere se stesso è
impossibile, come si è visto essere impossibile persino a Dio, perché, come a
Dio, ciò implica la contraddizione dell’essere.
Un occhio non può dire a se stesso di accecarsi, né un piede
di rattrappirsi. Essi ricevono da altri la vista e il moto, e da altri ne
riceveranno l’annichilimento. Certo, altri sono i
datori di vista e moto e altri i loro distruttori, come nel
caso di un Papa i datori del suo essere sono i cardinali elettori e il suo
rapitore Dio, ma, come si vede, i soggetti: occhio, piede o Papa che sia, per
quanto perfetti in ciascuna delle specifiche loro forme di occhio, di piede e
di Pontefice Massimo, sono del tutto impotenti in quanto alla loro propria vita
e sussistenza.
Cosa vuol dire infatti “essere Papa”? Ecco cosa vuol dire:
come il sacerdote riceve uno status, un marchio – l’ordine del
sacerdozio – che rimane in eterno, perché riceve dal vescovo la partecipazione
al sacerdozio di Cristo che è sacerdozio
eterno, così anche la papalità riceve da Dio un munus spirituale:
la vicarietà di Cristo Capo della Chiesa in eterno, che solo Dio può togliere.
E Dio la toglie solo con la morte.
Ma la toglie solo al corpo che muore, non all’anima che non muore.
È solo in questo senso che si dice che Dio fa scendere dalla Croce: perché il
corpo ha smesso di soffrire.
I poteri che implicano l’eternità possono essere interrotti solo
materialiter, non substantialiter, infatti chi è consacrato sacerdote rimane
sacerdote in eterno, che egli sia post mortem eletto al Regno dei Cieli o
gettato nelle fiamme perenni.
Nella Chiesa esiste un solo sacerdozio in Cristo, come sappiamo,
ma i gradi di sacerdozio sono due: uno universale, al quale partecipano tutti i
battezzati, e uno sacramentale, conferito con l’Ordine.
Ma anche questo grado di sacerdozio, metafisicamente
parlando, si distingue in due gradi: uno
è quello di tutti i chierici, l’altro è quello, ad personam,
conferito unicamente al Vicario di Cristo, al Papa, in virtù della sua
vicarietà: egli solo è rappresentante di Cristo in terra.
Il Papa riceve da Dio ad personam un vincolo mistico tra sé
e il Corpo mistico della Chiesa, vincolo che lo lega ad essa con un legame
divino unico, che non ha assolutamente nessun altro membro della Chiesa, come
ad essa con il suo amore divino – e dunque legame divino – è legato il Cristo.
Questo vincolo, tre volte stretto all’essere dal nodo
perentorio della risposta « Signore, tu lo sai che ti amo » alla perentoria domanda
di Cristo: « Simone di Giovanni, mi ami tu? », è un
vincolo che solo la morte può togliere.
Ma, ripeto, è, questa, un’interruzione unicamente materiale:
l’amore proclamato e dunque affermato come ‘fatto dato nell’essere’,
nell’essere rimane, e vi rimane in eterno.
Le dimissioni sono permesse legalmente, il canone
congetturato dalla persona stessa che aveva maturato la volontà di dimettersi
ne configura le modalità. Ma l’istituto delle
dimissioni non è stato mai indagato nella sua conformazione metafisica,
e tutti hanno sempre ritenuto che esse potessero discendere dal potere assoluto
del monarca, che può tutto, senza distinguere – come invece fa san Tommaso – tra
potenza assoluta in sé e potenza assoluta relativamente alla ragione di ente,
ossia al principio di non-contraddizione.
Le dimissioni non sono permesse metafisicamente, e
misticamente, perché nella metafisica sono legate al nodo dell’essere, che non
permette che una cosa contemporaneamente
sia e non sia, e nella mistica sono legate al nodo del Corpo
mistico che è la Chiesa, per il quale la vicarietà assunta con il giuramento
dell’elezione pone l’essere dell’eletto su un piano ontologico non
accidentalmente ma sostanzialmente diverso da quello lasciato: dal piano già
alto del sacerdozio sacramentale di Cristo lo pone sul piano ancora più
metafisicamente
e spiritualmente più alto di Vicario di Cristo.
Non considerare questi fatti è a mio parere un colpo al dogma,
dimissionarsi è perdere il nome di Pietro e regredire nell’essere di Simone, ma
ciò non può darsi, perché il nome
di Pietro, di Cephas, di Roccia, è dato su un piano divino.
Il dogma rigetta il colpo, e non ne risente, perché l’atto, come
solito, non è stato formalizzato dogmaticamente, ma ne risente la Chiesa nel
suo ambito umano, che difatti accusa il colpo nella sua confusione estrema,
nella prostrazione e nel turbamento massimi subito corsi per tutta la
cattolicità.
Si può suggerire a un Papa ciò che il Papa deve fare? In linea
di massima non si potrebbe, sarebbe cosa davvero massimamente disdicevole. Ma
il momento è di tale gravità, è di tale straordinarietà, è di tale turbamento
che si rende necessario osare ciò che in tempo ordinario è proibito, e qui si
compie proprio questo atto: si osa mettere sul tappeto davanti al Trono più
alto ciò che si considera essere un dato da prendere in seria considerazione, e
ciò si osa fare prima che sia troppo tardi, prima che sia compiuto
l’ineluttabile.
La considerazione finale è dunque questa, e la porto dopo aver
fatto tutte le premesse che ho fatto sul valore assolutamente scientifico e
dunque del tutto ipotetico delle mie osservazioni e argomentazioni, e il
rispetto sommo da dare alla persona e ancor più alla figura del Sommo
Pontefice.
Papa Joseph Ratzinger-Benedetto XVI non dovrebbe dimettersi,
ma dovrebbe recedere da tale sua suprema decisione riconoscendone il carattere
metafisicamente e misticamente inattuabile, e così anche legalmente
inconsistente.
« Cristo fu tentato per tre volte dal diavolo nel deserto –
dice sant’Agostino commentando il Salmo 60 –, ma in Cristo eri tentato anche
tu. Perché Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la
morte, da sé la tua vita, da te l’umiliazione [la fragilità, la minimanza,
l’inettitudine], da sé la tua gloria [sulla sua croce], dunque prese da te la
sua tentazione, da sé la tua vittoria ».
Con nell’animo queste considerazioni, non le dimissioni, ma
il loro ritiro diventa sì un atto di soprannaturale coraggio, e Dio solo sa
quanto la Chiesa abbia bisogno di un Papa
soprannaturalmente, e non umanamente, coraggioso. Un Papa
cui non inneggino i liberali di tutta la terra, ma gli Angeli di tutti i Cieli.
Un Papa martire in più, giovane leoncello del Signore, porta più anime al Cielo
che cento Papi dimissionati (quanti saranno da oggi in futuro i Papi).
Atto dunque dettato da argomenti soprannaturali,
riconoscendo che dalla Croce gloriosa non si scende perché comunque non si può
scendere, meglio: perché, pur tentati, non c’è la strada per scendere, e la
strada che si intravvede non è vera, ma è una strada di nuvola, di niente, e
tanto più non può scendere e percorrere quella strada inconsistente la persona
del Papa: la propria libertà, in specie se libertà di Papa, è affissata, è
inchiodata alla volontà divina, unica, potente e vera Realtà che sulla Croce
mistica ha voluto con sé il suo Vicario.
* * *
Enrico Maria Radaelli
Director of Department of Æsthetic Phylosophy
of International Science and Commonsense Association (Rome)
www.enricomariaradaelli.it
16 febbraio 2013
San Giuliano
ENRICO MARIA RADAELLI. IL DOMANI – TERRIBILE O RADIOSO? –
DEL DOGMA.
Enrico Maria Radaelli
IL DOMANI - TERRIBILE O RADIOSO? - DEL DOGMA.
Edizione pro manuscripto, in-8°,
Milano 2012, pp. 261, € 35
(Acquistabile anche con
una E-MAIL all’autore)
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