In memoria di don Antonio Persili,
ardente ricercatore della verità,
salito al Padre il 30 settembre 2011
Agli inizi del 1990 fui presentato da un comune amico a don Antonio Persili, parroco dell’antica chiesa di S. Giorgio situata nel centro storico di Tivoli. Avevo chiesto di incontrarlo dopo aver saputo del suo interesse per gli studi esegetici e, in particolare, di una sua interpretazione del capitolo 20, versetti1-9, del Vangelo di Giovanni, che da sempre è sembrato di significato oscuro. Di seguito i versetti in questione nella versione approvata nel 1974 dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI):
” 1 Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. 2Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». 3Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. 4Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. 5Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. 6Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, 7e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. 8Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 9Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti”.
Effettivamente leggendo il passo così tradotto non è per niente chiaro cosa possa aver visto Giovanni (il discepolo che Gesù amava) tanto da fargli credere che Gesù fosse risuscitato; consideriamo che Maria di Magdala aveva già detto che il corpo del Signore era stato sottratto dal sepolcro: se quello che aveva visto, dopo essersi chinato, erano delle “bende per terra” e “il sudario … piegato in un luogo a parte”, l’unica stranezza che poteva averlo colpito era la sottrazione del solo corpo “nudo” (non dell’insieme bende e corpo, cosa che avrebbe reso più rapida e più “pulita” la sottrazione).
Cosa aveva visto effettivamente Giovanni? Don Persili partì da questa domanda nella sua ricerca. Iniziò a riconsiderare l’orginale testo greco del passo in questione per vedere se potesse darsi una traduzione che avesse senso ragionevole.
Un primo aiuto gli venne dal confronto tra il testo greco e la sua traduzione in latino, che si riportano di seguito (per il testo latino si è scelto quello della Neo Volgata voluta da Paolo VI, anche se promulgata da Giovanni Paolo II nel 1979):
“1 Τῇ δὲ μιᾷ τῶν σαββάτων Μαρία ἡ Μαγδαληνὴ ἔρχεται πρωῒ σκοτίας ἔτι οὔσης εἰς τὸ μνημεῖον καὶ βλέπει τὸν λίθον ἠρμένον ἐκ τοῦ μνημείου. 2 τρέχει οὖν καὶ ἔρχεται πρὸς Σίμωνα Πέτρον καὶ πρὸς τὸν ἄλλον μαθητὴν ὃν ἐφίλει ὁ Ἰησοῦς καὶ λέγει αὐτοῖς· ἦραν τὸν κύριον ἐκ τοῦ μνημείου καὶ οὐκ οἴδαμεν ποῦ ἔθηκαν αὐτόν. 3 Ἐξῆλθεν οὖν ὁ Πέτρος καὶ ὁ ἄλλος μαθητὴς καὶ ἤρχοντο εἰς τὸ μνημεῖον. 4 ἔτρεχον δὲ οἱ δύο ὁμοῦ· καὶ ὁ ἄλλος μαθητὴς προέδραμεν τάχιον τοῦ Πέτρου καὶ ἦλθεν πρῶτος εἰς τὸ μνημεῖον, 5 καὶ παρακύψας βλέπει κείμενα τὰ ὀθόνια, οὐ μέντοι εἰσῆλθεν. 6 ἔρχεται οὖν καὶ Σίμων Πέτρος ἀκολουθῶν αὐτῷ καὶ εἰσῆλθεν εἰς τὸ μνημεῖον, καὶ θεωρεῖ τὰ ὀθόνια κείμενα, 7 καὶ τὸ σουδάριον, ὃ ἦν ἐπὶ τῆς κεφαλῆς αὐτοῦ, οὐ μετὰ τῶν ὀθονίων κείμενον ἀλλὰ χωρὶς ἐντετυλιγμένον εἰς ἕνα τόπον. 8 τότε οὖν εἰσῆλθεν καὶ ὁ ἄλλος μαθητὴς ὁ ἐλθὼν πρῶτος εἰς τὸ μνημεῖον καὶ εἶδεν καὶ ἐπίστευσεν· 9 οὐδέπω γὰρ ᾔδεισαν τὴν γραφὴν ὅτι δεῖ αὐτὸν ἐκ νεκρῶν ἀναστῆναι.
“1 Prima autem sabbatorum Maria Magdalene venit mane, cum adhuc tenebrae essent ad monumentum et videt lapidem sublatum a monumento. 2 Currit ergo et venit ad Simonem Petrum et ad alium discipulum, quem amabat Iesus et dicit eis:«Tulerunt Dominum de monumento et nescimus ubi posuerunt eum!». 3 Exiit ergo Petrus et ille alius discipulus et veniebant ad monumentum. 4 Currebant autem duo simul, et ille alius discipulus praecucurrit citius Petro et venit primus ad monumentum; 5 et cum se inclinasset, videt posita linteamina non tamen introivit: 6 Venit ergo et Simon Petrus sequens eum et introivit in monumentum; et videt linteamina posita 7 et sudarium, quod fuerat super caput eius, non cum linteaminibus positum, sed separatim involutum in unum locum. 8 Tunc ergo introivit et alter discipulus, qui venerat primus ad monumentum, et vidit et credidit.
9 Nondum enim sciebant Scripturam quia oportet eum a mortuis resurgere.
Risultava evidente a don Persili che la traduzione in italiano delle parole greche τὰ ὀθόνια κείμενα con “le bende per terra” non era corretta: il verbo greco κείμαι, di cui κείμενα è il participio, non indica qualcosa che è stato “gettato per terra”, quanto piuttosto qualcosa che è disteso, giacente, afflosciato, appiattito; questa interpretazione risultava confortata dalla Neo Volgatache riportava “linteamina posita” (posita, dal verbo poneo, che significa messa giù, ma anche appiattita). Don Persili capì quello che aveva visto Giovanni: le bende1 “afflosciate” su se stesse, facevano comprendere come il cadavere le avesse attraversate, si fosse sfilato da esse senza scomporle, come si affloscia un materassino di gomma quando l’aria fuorisce da un foro; ben altro chegettate per terra, come sembrerebbe indicare la traduzione in italiano del 1974 approvata dalla CEI.
Per don Persili c’era da risolvere un altro problema: sempre nella traduzione CEI si leggeva che il discepolo che Gesù amava vide “il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte”. E questo poteva confermare l’ipotesi del furto del cadavere. Stavolta il latino della Volgata non poteva aiutare perché sembrava dare la stessa interpretazione: “et sudarium, quod fuerat super caput eius, non cum linteaminibus positum, sed separatim involutum in unum locum”. Don Persili cercò allora di interpretare una per una le parole greche dell’ultima parte della frase in esame (χωρὶς ἐντετυλιγμένον εἰς ἕνα τόπον) cercando una traduzione che avesse un senso connesso al proseguio del passo del Vangelo di Giovanni2. Pensò di aver trovato la soluzione dando rispettivamente all’ avverbio χωρὶς non il significato di “a parte”, ma quello di “differentemente” o “al contrario”; al participio ἐντετυλιγμένον non quello di piegato, ma quello, appropriato, di arrotolato; alle tre parole εἰς ἕνα τόπον, non quella di “in un luogo” (per di più “a parte” come dice la CEI), ma quella di “in una posizione unica” (unica nel senso di “eccezionale”). Nella traduzione di don Persili, lessicalmente lecita, i versetti in questione dicono, quindi, dal versetto 5 all’8:
“[il discepolo che Gesù amava] chinatosi, scorse le fasce distese, ma non entrò. Giunge intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese e il sudario che era sul capo di lui, non disteso con le fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica”.
Questa traduzione in effetti poteva dare un senso al “vide e credette”: come spiegava don Persili, il sudario doveva essere rimasto come inamidato nella posizione che aveva quando avvolgeva il capo di Gesù: ciò poteva essere avvenuto a causa degli aromi (aloe e mirra) che asciugandosi avevano irrigidito la stoffa. Per di più mi confidò che credeva fosse possibile comprendere εἰς ἕνα τόπον come “nella stessa posizione”, “nello medesimo posto”, ma che ciò non sarebbe stato corretto dal punto di vista lessicale. Come vedremo nel seguito di questo scritto la sua intuizione era giusta.
Don Persili mi raccontò, sempre durante questo primo incontro, che si era recato all’Istituto Biblico di Roma per presentare questa sua traduzione, avere conferme o suggerimenti, ma che fu deriso dai Gesuiti, professori in quell’Istituto: gli dissero, infatti, che la cosa non era importante, che quello che contava era la fede nella risurrezione di Cristo e che questa derivava dall’elaborazione della primitiva comunità cristiana della predicazione di Cristo. Come ha ricordato il Vescovo di Tivoli, Mauro Parmeggiani, in occasione dell’omelia proclamata durante il funerale di don Persili, “gli studi di don Persili erano troppo in contrasto con molta della esegesi post conciliare avversa alla storicità della risurrezione”, perché succuba dell’esegesi del protestantesimo liberale e del coseguente modernismo condannato dalla enciclica Pascendi3.
Don Persili si risolse, quindi, di pubblicare a sue spese nel 1987 un libro dal titolo Sulle tracce di Cristo risorto – Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, che riportava la sua ricerca. Data la contraria teologia imperante, il libro ebbe una divulgazione limitata.
Durante un ulteriore incontro che ebbi con don Persili gli riferii che avevo scoperto come gli estensori della Bibbia di Navarra4, pur lavorando sul testo CEI del 1974, avevano scritto un ampio commento al passo 20, 1-9 del Vangelo di Giovanni, nel quale esprimevano tesi identiche a quelle di don Persili, pur senza darne alcuna spiegazione filologica. Non so se don Persili abbia preso contatto con i suddetti estensori e, ad ogni modo, sulle sue ricerche per molto tempo calò il più assoluto silenzio.
Don Persili aveva mandato, però, una copia del suo libro a Vittorio Messori, capace e fortunato divulgatore delle dottrine cristiane ortodosse. Come quest’ultimo confessò, il libro rimase a dormire, non letto, nella sua libreria per qualche anno, finché lo riscoprì. Lo scritto fece una forte impressione a Messori che nel 2000 pubblicò un suo libro, Dicono che è risorto – un’indagine su un sepolcro vuoto, nelle edizioni SEI, nel quale riprendeva ampiamente le tesi di don Persili: il libro ebbe un successo di vendite strepitoso. Ovviamente tutto ciò fece scalpore5, tanto che (si disse) il Papa raccomandò che se ne tenesse conto anche nella nuova edizione della Bibbia programmata dalla Cei e che fu pubblicata nel 2008.
Malgrado il clamore suscitato da Messori, la nuova edizione CEI tradusse ancora senza senso i versetti del Vangelo di Giovanni di nostro interesse:
“5Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. 6Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, 7e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte”.
Sembra solo peggiorato l’italiano (“posati là”, viene da chiedersi “dove?”).
Il “sasso gettato nello stagno” da don Persili ha avuto, però, degli effetti: ha fatto emergere studi, tacitati, che erano stati fatti in precedenza sul passo di Giovanni 20,1-96 e ha spinto a che si arrivasse alla spiegazione definitiva della questione.
Questa spiegazione è stata trovata da studiosi che conoscono la lingua aramaica, che sta “dietro” al testo greco del Vangelo di Giovanni: la madre lingua di questi era, infatti, l’aramaico ed è probabile che continuasse a pensare nella lingua nativa e, scrivendo in greco, trasferisse semplicemente i termini dall’aramaico al greco (come facciamo noi italiani quando parliamo in inglese e spesso usiamo modi di dire non corretti: ci limitiamo, infatti, una traduzione ad litteram dalla nostra lingua, arrivando frasi che per un inglese sono di significato oscuro)7.
E’ quello che è successo nel testo greco di Giovanni 20,1-9; cercherò di spiegarlo riportando in sintesi di studi effettuati da esperti conoscitori dell’aramaico8. Se si esamina questo testo, vediamo che il versetto 1 recita:
Τῇ δὲ μιᾷ τῶν σαββάτων Μαρία ἡ Μαγδαληνὴ ἔρχεται πρωῒ σκοτίας ἔτι οὔσης εἰς τὸ μνημεῖον καὶ βλέπει τὸν λίθον ἠρμένον ἐκ τοῦ μνημείου.
Se osserviamo come viene tradotto in diverse versioni italiane e latine, puntando l’attenzione al vocabolo μιᾷ (alla lettera in italiano “una” femminile di “uno”; in greco “uno” è εἰς; “una” è μιᾷ; il neutro è έν), troviamo:
- testo CEI 1974: Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro (si tratta di una traduzione “a senso”, dove il termine μιᾷ ,”una”, è scomparso);
- testo Neo Volgata: Prima autem sabbatorum Maria Magdalene venit mane, cum adhuc tenebrae essent ad monumentum et videt lapidem sublatum a monumento (il termine μιᾷ, “una”, viene tradotto con “prima” (anche se più vicina all’originale, è ancora una traduzione “a senso”);
- Volgata di San Girolamo: Una autem sabbati Maria Magdalene venit mane cum adhuc tenebrae essent ad monumentum et videt lapidem sublatum a monumento (come si vede μιᾷ è stato tradotto alla lettera e solo la traduzione “a senso” della CEI fa capire che stiamo parlando del primo giorno dopo il sabato ebraico, quel giorno che in seguito noi cristiani abbiami chiamato “domenica”).
Per comprendere questa diversità di traduzione ci si deve ricordare che in ebraico e in aramaico uno, due, tre, ecc. valgono anche per primo, secondo, terzo, ecc; e che i giorni della settimana sono: giorno uno (della settimana), giorno due, giorno tre … sabato (il giorno sette, che noi giustamente diciamo il settimo giorno). Così il μιᾷ del versetto in questione è stato reso da San Girolamo, alla lettera, come una [dies] e dal testo della Neo Volgata, alla lettera, ma già parzialmente “a senso” come prima [dies].
Ugualmente, sempre secondo i conoscitori dell’aramaico, εἰς ἕνα τόπον del testo greco di Giovanni versetto, tradotto nelle dueVolgate che abbiamo esaminato con “in unum locum”, andrebbe reso in italiano con “nel primo luogo”, intendendo “primo” per “medesimo” o “stesso”, come aveva intuito don Persili.
In ultimo mi appoggio in tale questione all’autorità del prof. don Renato De Zan, biblista, grecista, conoscitore dell’ebraico e dell’aramaico: nel corso di una delle sue lezioni di Liturgia, cui partecipai, disse che l’esatta traduzione del passo di Giovanni 20, 6-7 è il seguente: “vide le bende afflosciate e il sudario che gli era stato posto attorno al capo, non afflosciato come le bende, ma ripiegato su se stesso nel medesimo luogo”. Aggiunse il prof. De Zan che per arrivare a una tale traduzione bisogna saper intuire il testo aramaico che sta dietro quello greco. Questa traduzione il prof. De Zan l’ha riportata alla pagina 91 del volume La Parola per la Chiesa – Commento alle letture delle domeniche e delle feste – Anno B, composto assieme al prof. Roberto Lauria (EDB 2005).
Mi sembra interessante trascrivere quello che il prof. De Zan aggiunge nel libro dopo questa traduzione: “le bende non sono un testimone muto: se vengono guardate con l’occhio della fede sanno parlare di risurrezione; come il Cristo risorto entrerà a porte chiuse nella stanza (Gv 20, 19-26), allo stesso modo uscirà dall’involucro della sindone. Il discepolo che si sente amato da Diovede e crede. Queste tele avevano avvolto Gesù e ora giacciono afflosciate come un bozzolo, intatto e vuoto, tranne che dalla parte del capo. Ed il sudario teneva ancora leggermente alte le bende. Il corpo del Maestro aveva trapassato le bende senza romperle o scomporle. Egli vide e credette. Maria Maddalena e Pietro, invece, dovevano ancora compiere un itinerario di ascolto. Non compresero: la Parola doveva ancora illuminarli”.
E’ vero infatti che la risurrezione è un mistero, in quanto noi non sappiamo come essa è avvenuta, in quanto siamo a diversi livelli di esistenza: quella terrena, la nostra, e quella gloriosa di Gesù. Ma mistero non vuol dire che abbiamo a che fare con qualcosa che non si può per nulla conoscere, ma piuttosto con qualcosa di cui bisogna fare esperienza, entrarvi dentro. Noi siamo già su questa strada perché siamo stati battezzati, morendo con Cristo (all’entrata nell’acqua) e risorgendo con Lui (all’uscita dall’acqua): siamo quindi già penetrati parzialmente nel mistero, anche se per “vedere” Gesù abbiamo ancora bisogno dei segni che Lui ha voluto lasciarci: il sepolcro vuoto, ma anche i Sacramenti e, tra questi, soprattutto, l’Eucaristia; sempre più lo potremo vedere se ci faremo guidare da questi segni ed illuminare dalla sua Parola.
E’ quello che ha sempre fatto don Persili, come, del resto, altri perseveranti ricercatori prima e dopo di lui.
Pasqua 2012
Salvatore Scuro
Segretario della Fraternitas Aurigarum Urbis
1In effetti si trattava della sindone e di alcune bende, messe come fasciature, che assicuravano la stessa al cadavere (si veda in proposito il capitolo del Vangelo di Giovanni, che parla della preparazione del corpo di Gesù per la sepoltura). Secondo gli studiosi della Scuola esegetica di Madrid (vedi successiva nota 6), sindone e othonia nel greco dei LXX sono sinonimi e traducono l’ebraico “grande pezza di tela”.
2Anche se don Persili ha svolto il suo servizio di parroco con grande umiltà e nella povertà evangelica, non si deve pensare che fosse uno sprovveduto; intanto aveva una perfetta padronanza del latino e del greco ed inoltre aveva una comprovata scienza ecclesiastica, come dimostrano alcuni degli incarichi assunti nel tempo: professore nel Seminario diocesano, direttore dell’Ufficio catechistico, Cancelliere vescovile.
3Per sapere come sia nata e si sia sviluppata una tale esegesi si legga La vita di Gesù dall’abate Ricciotti, libro pubblicato nel 1941, ma continuamante ristampato: in una lunghissima introduzione l’abate spiega come negli ambienti degli illuministi, alla fine del XVIII secolo, siano sorte innumerevoli pubblicazioni con lo scopo di demolire ogni validità dei racconti evangelici, a partire dai miracoli, che certo per quegli “intelligenti” erano fatti che non potevano essere avvenuti. Per conoscere come questa propaganda continui ancora adesso si legga il recente libro della prof.ssa Marie-Cristine Ceruti-Cendier, I Vangeli sono dei reportages, anche se a qualcuno non va, pubblicato in edizione italiana da Mimep-Docete nel 2088: la studiosa spiega che si tratta di una propaganda subdola, perché coloro che la portano avanti spesso non si presentano come atei o come persone ormai lontane dalla Chiesa, ma come cristiani particolarmente “intelligenti”, magari anche come “teologi”, e questo allo scopo di essere letti più facilmente dai fedeli, che altrimenti sarebbero in guardia: così il dubbio può essere meglio seminato
4La Bibbia di Navarra – I quattro Vangeli, ed. italiana ARES 1988. E’ stata redatta dall’Università di Navarra con il testo latino della Neo Volgata e un ricchissimo apparato di note, molto basate sugli scritti dei Padri della Chiesa.
5L’argomento fu ripreso nello stesso anno da Civiltà Cattolica e da 30 Giorni.
6Tra gli studi più accurati in proposito si devono citare quelli di Francesco Spadafora, sviluppati a partire dal 1952 e ora riproposti nel suo volume La risurrezione di Gesù, Cantagalli, 2010. In questo libro molti dei seminatori di dubbi sono nominati e si sottolinea che il “marcio” spesso si trova ai più alti livelli della gerarchia ecclesiastica. La traduzione del passo di Giovanni 20,1-9 che riporta è soddisfacente.
7A tale proposito sono importanti gli studi di Jean Carmignac, profondo conoscitore delle lingue ebraica e aramaica, che ha dimostrato l’esistenza del sostrato semitico dei Vangeli (vds. La sua pubblicazione La nascita dei Vangeli sinottici, San Paolo 1986), e quelli della Scuola esegetica di Madrid, che cerca di spiegare le difficoltà linguistiche dei testi evangelici sempre ricercando questo sostrato semitico: a tale proposito si ricorda il libro di José Miguel Garcia La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli, ed. BUR 2005. Si veda anche il libro di Claude Tresmontant Le Christ Hèbreu. La Langue et l’age des Evangiles, ed. Albin Michel 1992.
8L’indicazione l’ho trovata soprattutto nel già citato libro della prof.ssa Marie-Cristine Ceruti-Cendier, I Vangeli sono dei reportages, anche se a qualcuno non va: alle pagine 173 e 174 viene riportato un passo che sembra determinante alla risoluzione della questione: «Ecco cosa scrive su questo punto Hervé-Maria Catta in “Cahiers du Renouveau” n. 22: Il est vivant!, dicembre 1978 pag. 22: “Che cosa vede, dunque, questo discepolo, perché subito il suo cuore sia illuminato dalla fede? … Egli vede i panni afflosciati, e il sudario, che era stato sul suo capo, non afflosciato come i panni, ma, al contrario, arrotolato come si trovava in origine”». E aggiunge la prof.ssa Catta: «A questo punto si trova la seguente annotazione: Letteralmente “nel primo luogo”, e non “in un altro luogo”, come a volte si traduce: ἕνα è lo stesso aggettivo utilizzato per dire “il primo giorno della settimana” al versetto 1 dello stesso capitolo 20.
Di uguale tenore è quanto ha detto, nel febbraio 1997, il prof. Don Claudio Deaglio in un corso di Teologia per laici in cui era relatore: «Giovanni usava un greco molto ebraico: “εἰς ἕνα τόπον” o “in unum locum” non sono rispettivamente espressioni greca o latina, ma tipicamente semitica, dove l’aggettivo “stesso” è sostituito dal numerale “uno”; “in un luogo” per dire “in un unico, nello stesso, nel medesimo posto” (la lezione si trova al seguente indirizzo elettronico http://www.symbolon.net/Temi%20biblici/Ges%C3%B9%20Cristo/11-Il_fatto_della_risurrezione.pdf
Bellissima, la stavo cercando ma non ricordavo il nome del sacerdote. Ottima scelta, grazie.
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