Una bella tradizione religiosa, che oggi è caduta parzialmente in oblio, era quella delle Quarant’ore: una solennità speciale, una festa dell’anima: l’adorazione eucaristica dal Venerdì santo alla vigilia di Pasqua, con l’altare magnificamente addobbato. Adulti e bambini delle diverse parrocchie si avvicendavano da una chiesa all’altra e pregavano davanti al Santissimo, immersi in una mistica atmosfera favorita dalla verticalità dell’altare, dalla profusione di fiori e di ceri accesi, che brillavano verso l’alto come fiamme di luce, sullo sfondo vermiglio dei paramenti.
Fuori la pioggia, il vento, non di rado la neve di marzo; dentro la chiesa, il profumo d’incenso, lo splendore dei candelabri, la penombra trepidante di attesa della Resurrezione.
Fuori la pioggia, il vento, non di rado la neve di marzo; dentro la chiesa, il profumo d’incenso, lo splendore dei candelabri, la penombra trepidante di attesa della Resurrezione.
Sbaglia, e di molto, chi pensa che la liturgia sia solo un abito esteriore della religione e che la Tradizione sia una fonte secondaria della Rivelazione, rispetto alla Scrittura: sono elementi essenziali, invece, perché offrono all’uomo il necessario sostegno verso la visione, o meglio la fugace intuizione, di una Verità che egli, da solo, non è in grado di raggiungere e che, se pure gli viene dall’Alto, non premia un suo personale sforzo, ma giunge dalla gratuita e ineffabile bontà divina.
Certo, la sete ardente di assoluto mette l’uomo nella giusta disposizione di spirito per la ricerca della Verità: ma sia che questa ricerca si rivolga, con la filosofia e la teologia, nella direzione dell’intelletto, sia che si rivolga, con la preghiera e con la fede, nella direzione dell’anima, non è da se stesso che l’uomo si illumina, come vorrebbero certe dottrine orientali e come suggeriscono le tendenze moderniste, idealiste, storiciste, che continuamente fanno capolino anche all’interno della Chiesa cattolica e che, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, credono sia giunta la loro ora per abbattere la Tradizione e per spianare la strada a una religione pienamente “umana”, cioè semi-ariana e semi-pelagiana - come quella delineata, ad esempio dal teologo ex cattolico Hans Küng - nella quale non è Dio, ma l’uomo a scrivere la prima e l’ultima parola.
Il concetto fondamentale è sempre lo stesso, e vale la pena di riaffermarlo e ribadirlo davanti ai mille e mille tentativi, ora subdoli, ora palesi, di sovvertire e snaturare il giusto ordine di rapporto fra l’ente e l’essere, fra la creatura e il creatore, fra l’uomo e Dio: la Verità, per sua stessa natura, è inintelligibile; l’uomo bensì la cerca, ma non potrà mai giungere a contemplarla faccia a faccia, da pari a pari. L’uomo, infatti, è una scintilla dell’essere, ma una scintilla che non si dà la luce da se stessa, la riceve; in lui è un riflesso di quella luce, non la luce medesima; se egli vuol cercare il proprio centro solamente ed esclusivamente in se stesso, non troverà né se stesso, né il mondo, né Dio, e ogni cosa gli diventerà assurda e incomprensibile.
Per avvicinarsi alla Verità, l’uomo deve farsi umile; deve riconoscere la sua piccolezza, la sua limitatezza, la sua insufficienza; deve confessare la sua presunzione, la sua superbia, la sua arroganza; deve dichiararsi, in altre parole, peccatore. Il peccato originale non è una favola per bambini, non è un simbolo o una metafora, come vorrebbero certi teologi modernisti che, con la scusa di “semplificare” e “aggiornare” la dottrina cristiana, la confondono e la stravolgono: è un evento reale, che si riflette su tutti gli esseri umani di tutte le generazioni e che ferisce la bontà originaria della loro natura, pur non annullando la loro capacità di riconoscere il Bene e di volgersi ad esso. Ma volgersi verso il Bene non è la stessa cosa che trovarlo e lasciarsene avvolgere: il passo è lungo, troppo lungo per le gambe degli esseri umani: qui c’è un salto, un salto che solo il mistero della Grazia può permettere all’uomo di compiere, con l’ausilio della fede.
I cari vecchi riti di un tempo, via via scalzati dalla mentalità secolarista, erano, insieme a una liturgia incentrata sulla trascendenza e non sull’immanenza, come oggi si vede spesso, utili e necessari strumenti di elevazione dell’anima, la quale non può innalzarsi da se stesso verso l’Invisibile, ma ha bisogno di essere aiutata e sostenuta mediante dei simboli e delle forme che alludono a ciò che non esistono parole per dire. Questo è il contenuto della religione, questo è il punto d’approdo della teologia: l’Invisibile e l’Inesprimibile. Sarebbe presunzione volerlo dire, così come sarebbe ingenuità scambiare il dito per la luna: i simboli rinviano a ciò che è radicalmente Altro, nondimeno l’uomo ha bisogno di essi, perché la sua mente non riesce a pensare il reale se non per analogia e per confronto, essendo incapace di astrazione pura. Vi è una profonda saggezza in ciò che la Chiesa ha rappresentato simbolicamente e in ciò che le generazioni precedenti hanno gelosamente custodito e tramandato.
L’uomo contemporaneo crede di non avere più bisogno di simboli, ad eccezione – forse – di quelli “profani” che Freud o Jung sono capaci di decodificare, o che si dicono capaci di decodificare; ma noi stiamo parlando di simboli di ciò che È, non di ciò che la mente umana ha elaborato da se stessa. Tale è il mistero del Soprannaturale: che non può rivelarsi all’uomo se non dall’Alto, e tuttavia egli non può accoglierlo se non nella sua coscienza finita, limitata, imperfetta, dunque non può accoglierlo se non in maniera ugualmente finita, limitata, imperfetta. Se noi potessimo fare esperienza dell’Invisibile e dell’Inesprimibile, allora non avremmo più bisogno di simboli: ma in tal caso non saremmo più creature umane, saremmo creature angeliche, fatte di luce. E se potessimo raggiungere la Verità con le nostre sole forze, con la nostra sola intelligenza, con i nostri soli ragionamenti, allora non saremmo più delle menti finite e inadeguate, ma saremmo una cosa sola con la Mente universale, cioè con Dio. Saremmo Dio: dovremmo solo capire di essere una sola ed unica cosa con Lui. Ma l’uomo non è Dio e, ogni volta che tenta di esserlo, è portato a divinizzare la natura, il pensiero, la storia, la ragione, la scienza, la tecnica, e così via. Ha divinizzato la natura nel panteismo (Bruno, Spinoza), il pensiero nell’idealismo (Fichte, Hegel), la storia nello storicismo (Vico, Marx, Dilthey), la ragione nell’Illuminismo (Kant, Voltaire), la scienza e la tecnica nel Positivismo (Comte, Spencer). Quando ha finito di divinizzare tutte queste cose, ha preteso di divinizzare l’utile (Hume, Mill, Bentham), o almeno di assolutizzarlo; poi si è accontentato di celebrare la vita in se stessa (Nietzsche, Bergson); da ultimo, ha dichiarato che nulla ha senso e che tutto è vanità, assurdo, macabro scherzo del caos (Schopenhauer, Leopardi, Sartre), che la vita è una prigione, un manicomio, un inferno, che l’unica cosa buona è il non essere e che tutto ciò che esiste, esiste solo e unicamente per il male.
Questo movimento circolare verso il Nulla, partendo dal Nulla iniziale che, per un atto di Amore, si anima e diventa la Realtà per mezzo del divino soffio creatore (il Verbo di cui parla l’incipit del Vangelo di San Giovanni), si delinea fin da quando l’uomo, inorgoglitosi della propria intelligenza, ritiene di potere, con essa, iniziare a colmare l’abisso che lo separa dall’essere in sé, dall’Essere con la lettera maiuscola, cioè da Dio. Tale alterazione del giusto rapporto fra il pensiero umano e ciò che è Impensabile si è iniziata per gradi, con l’Umanesimo; e, all’inizio, in maniera pressoché impercettibile e, probabilmente, inconsapevole.
Prendiamo il caso di uno dei massimi esponenti della “rinascita” umanistica, il matematico e astronomo tedesco Nicolò Cusano (1411-1464), il primo studioso cristiano che abbia chiaramente ed esplicitamente negato la finitudine dello spazio e l’idea che l’Universo abbia un solo ed unico centro. Egli ammette bensì che tra il finito e l’infinito, tra l’uomo e Dio, non vi è proporzione possibile: il suo infinito, però, sembra avvicinarsi pericolosamente ad un infinito matematico, dunque a un concetto puramente umano, piuttosto che essere una delle qualità di ciò che è radicalmente Altro, cioè l’infinito in senso spirituale e religioso. Infatti, dopo aver riconosciuto che Dio, in se stesso, si sottrae inesorabilmente alla conoscenza dell’uomo, cui non resta che riconoscere la propria ignoranza (una “dotta ignoranza”, comunque, per niente passiva e rinunciataria), ne trae la deduzione che l’uomo, proprio attraverso il riconoscimento dei propri limiti, si evolve attraverso un costante processo di approssimazione “che tende all’infinito mediante la progressiva acquisizione di valori infiniti” (si direbbe che un’eco di questa grandiosa cosmologia sia arrivata fino alla concezione di Teilhard de Chardin d’un universo che evolve verso il “punto omega”, cioè verso il Cristo cosmico). Egli ricorre alla similitudine del poligono e del cerchio: il sapere umano, spiega, è simile ad un poligono inscritto in un cerchio, e quel cerchio è Dio; l’uomo moltiplica, bensì, gli angoli del poligono, per tentare di approssimarsi a Dio, ma nessun poligono riuscirà mai a divenire uguale al cerchio, a meno che si risolva in identità con esso. Ed ecco che l’idea dell’universo materiale comincia a confondersi con l’idea dell’universo come metafora della pienezza e dell’assolutezza spirituali di Dio; tanto più che, per Cusano, Dio è anche “coincidentia oppositorum”, coincidenza degli opposti. Negando, contro Aristotele, che la Terra sia al centro dell’universo, e sostenendo che l’Universo è contenuto in Dio e che è “Dio contratto” (mentre Dio, a sua volta, ne è sia il centro, sia la circonferenza), Cusano apre la via al panteismo di Giordano Bruno, perché sembra confondere la dimensione naturale e quella soprannaturale. Certo, per lui la ragione deve annullarsi, perché solo annullandosi mette l’uomo in grado di risolversi in identità con Dio e diventare, così, infinita; ma che vuol dire, come egli afferma, che qualunque valore, moltiplicato per infinito, ha per prodotto l’infinito? Se l’uomo, davanti a Dio, è incommensurabile, perché tale è il finito davanti all’infinito, allora l’uomo è zero: e zero moltiplicato per infinito darà ancora e sempre zero. In altre parole: non è vero che l’uomo può tendere all’infinito mediante la progressiva acquisizione di valori infiniti: perché l’uomo è finito e il finito, davanti all’infinito, per quanto lo si moltiplichi, darà sempre e solo finito, cioè zero. Comincia qui, forse, la pericolosa illusione della creatura di poter trascendere il proprio limite ontologico e di auto-promuoversi a una condizione superiore, che, al contrario, non potrà mai darsi da sola, ma solo ricevere dall’Alto.
In fondo, in tutta la storia del pensiero, compreso quello teologico, quello che emerge chiaramente è la continua tentazione della creatura di volersi promuovere ad uno statuto ontologico che non le compete, di farsi autonoma e autosufficiente, di innalzarsi a giudice di se stessa e del mondo, decidendo da sé che cosa sia giusto e cosa ingiusto, che cosa sia il bene e che cosa il male: il vecchio peccato di Adamo ed Eva, appunto, che vollero mangiare il frutto dell’Albero della conoscenza del Bene e del Male, l’unico che era stato loro proibito.
Dentro il cristianesimo, è la vecchia tentazione di Pelagio: l’idea che l’uomo possa raggiungere da solo, con le sue forze, la salvezza; e, specularmente, è la vecchia tentazione di Ario: quella di abbassare la divinità, di negare l’Incarnazione, perché solo così, accorciando la distanza abissale tra finito e infinito, l’uomo può rivendicare la propria autosufficienza. Fuori del cristianesimo, è la linea di pensiero che incomincia con l’Umanesimo, anzi già con una certa Scolastica, fin dal tempo di Abelardo, e prosegue con il naturalismo rinascimentale, la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo, il razionalismo cartesiano, l’empirismo inglese, l’illuminismo, il criticismo, e poi su su, fino ai nostri giorni, attraverso l’idealismo, l’utilitarismo, il positivismo, l’evoluzionismo, lo storicismo, il neo-idealismo, il pragmatismo, la psicanalisi, la fenomenologia, l’esistenzialismo: le tappe di un progressivo allontanamento dall’essere, di un progressivo abbandono della metafisica, di una progressiva, pervicace, ostinata negazione della trascendenza.
Le parole sono state adattate, stravolte, capovolte, per piegarsi al nuovo orizzonte immanentista, riduzionista, materialista: “trascendentale”, per Kant, è divenuto sinonimo di conoscenza pura a priori, l’esatto contrario della trascendenza, sicché la sua filosofia spazza via, “per decreto”, tutto ciò che l’uomo potrebbe trovare, in se stesso, di diverso da sé; per Vico, soltanto quel che l’uomo fa è vero; per Jacques Chevalier, l’idea di progresso è sbagliata perché riduce l’uomo alla tecnica, non perché fa dell’uomo la fonte unica della propria auto-promozione; Hegel, poi, non sa dare dell’essere una definizione migliore di quella “in negativo”: l’essere – dice - è anzitutto determinato in generale con “altro”, una definizione che, evidentemente, non porta fuori dal vicolo cieco del solipsismo e sbarra la strada a qualunque Verità superiore all’uomo stesso (cfr. le riflessioni di Giuseppe Siri in «Getsemani. Riflessioni sul movimento teologico contemporaneo»).
Quel che l’uomo deve cercare in se stesso non è il proprio Io, che darà sempre e solo Io e mai “tu” (e meno ancora “Tu” con la “t” maiuscola), ma la voce del Maestro interiore, che lo richiama alla propria scintilla o dimensione divina e che lo proietta verso lo scopo della sua esistenza: la ricerca di quella Verità che non viene dal contingente, ma dall’essere, e si fonda – perciò - sull’Assoluto…
di Francesco Lamendola - 27/03/2013
30 Marzo 2013
da Rassegna di Arianna del 20-3-2013 (N.d.d.)
È di Immanuel Kant la più celebre e pregnante definizione dell’Illuminismo: «Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. […] Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. È questo il motto dell’Illuminismo».
L’uomo, dunque, è stato un minore, forse un minorato, per secoli e millenni; probabilmente lo sono stati anche Platone, Aristotele, Agostino e Tommaso d’Aquino. Poi sono arrivati i “philosophes” e hanno reso l’umanità adulta, spronandola ad usare in modo libero e spregiudicato il proprio intelletto, senza la guida di altri, cosa che mai era stata fatta prima; ma, per fortuna, è giunto il tempo dei “lumi” della ragione e, con esso, l’inizio di una nuova èra, apportatrice di progresso, benessere e felicità per il maggior numero possibile di persone.
Ma che cos’è l’intelletto di cui parla Kant, di cui parlano gli illuministi? Che cos’è quest’intelletto che Platone, Aristotele e gli altri possedevano in misura così scarsa, mentre Voltaire, Diderot e gli enciclopedisti possiedono in misura così eminente? Certo non coincide con la ragione, dato che la filosofia greca e quella scolastica, per non parlare di quella rinascimentale, di sicuro non si possono definire carenti di razionalità; semmai, corrisponde a una ragione particolare, una ragione tutta strumentale e calcolante, una ragione fredda e tagliente come un meccanismo, come la lama della ghigliottina. Una ragione che non ha tempo né posto per lo stupore, per la gratitudine, per il senso del bello; che non deve sentirsi piccola davanti a nulla, che non deve ringraziare nessuno, che non esita a misurarsi con qualunque mistero, riducendolo all’ordine di un semplice problema: infatti i problemi, a differenza dei misteri, prima o poi si risolvono.
È una ragione senza amore: nelle cose non vede che strumenti di cui servirsi, nella natura non vede che un grande meccanismo di cui scoprire e dominare le leggi, e in se stessa non coltiva che una inesausta sete di potere, di conquista, di dominio, secondo il motto di Francis Bacon: «Knowledge is power», «sapere è potere». Non è, dunque, una ragione spassionata, che ama la conoscenza per la conoscenza, che sa contemplare con meraviglia e ammirazione lo spettacolo del mondo; è una ragione aggressiva, dominatrice, che si considera in guerra con tutto e con tutti e che non riconosce dei pari negli altri enti, ma dei potenziali avversari da piegare, da incatenare, da sfruttare: piante, animali, uomini: tutti devono inchinarsi alla sua superiorità, tutti la devono adorare.
L’intelligenza senza amore produce una scienza cattiva e una tecnologia demoniaca: gli oscuri mulini satanici di cui parlava William Blake, in piena rivoluzione industriale. Galilei, Cartesio e Newton sono i suoi cattivi maestri: intelligenze vivaci, ma superbe; anime fredde, presuntuose, arroganti, convinte che a loro e a loro soltanto è riservato il compito di decifrare il grande libro della natura, scritto appunto in caratteri matematici.
Noi siamo i figli e i nipoti di quella scienza e di quella tecnologia, di quella superbia luciferina. La scissione dell’atomo, i viaggi spaziali, la manipolazione genetica, la clonazione degli esseri viventi hanno a tal punto inorgoglito l’uomo moderno, da fargli smarrire anche l’ultima ombra di prudenza, l’ultimo bagliore di umiltà: nulla gli sembra impossibile alla sua ragione, nessun obiettivo troppo arduo, perfino quello di sconfiggere la morte.
L’uomo moderno, figlio della Rivoluzione scientifica e dell’Illuminismo, si crede diventato un dio: uno ad uno, è riuscito a realizzare dei disegni che solamente un dio pareva in grado di compiere. Non era forse una proprietà divina, quella di regnare nei cieli? E lui ha sfondato la barriera del suono, è andato sulla Luna, ha inviato satelliti verso Marte, Giove, Saturno, Urano ed oltre, nello spazio profondo. Non era una prerogativa divina quella di dare la vita? Ed egli la sa ormai manipolare in maniera stupefacente: può rendere madre una donna di sessant’anni; può creare specie altamente selezionate, modificandone il patrimonio genetico; può fare in modo che un individuo morto abbia dei figli, fecondando una cellula-uova, anche in un utero artificiale, mediante lo sperma dell’individuo estinto, appositamente conservato in congelatore; può fabbricare delle repliche identiche di creature viventi, che sono, al tempo stesso, figlie e sorelle di quelle da cui ha prelevato una cellula-uovo.
Che cosa non è capace di fare, davanti a quali ostacoli è costretto ad arrestarsi? Solo un dio poteva riportare in vita un uomo già afferrato dai tentacoli della morte; ma adesso la chirurgia, per esempio, è capace di impiantare un organo vitale, anche il più delicato, cuore compreso, nel corpo di un uomo condannato a morire, dopo averlo prelevato da un animale appositamente ucciso o da un altro essere umano, morto da così poco tempo che, forse, l’ultima scintilla di vita non lo aveva ancora del tutto abbandonato: ed ecco, la morte stessa deve arretrare, deve mollare la presa, e colui che stava già varcando i cancelli dell’Ade viene richiamato indietro, torna a vivere come se nulla fosse stato.
Forse era inevitabile che, davanti a tali successi, l’uomo moderno insuperbisse oltre ogni misura e giungesse alla conclusione che un dio, se mai è esistito, non può essere che lui; che lui solo ha la responsabilità della vita, della natura, del domani; che a lui e a nessun altri che a lui spettano le grandi decisioni relative al futuro, alla sopravvivenza o meno delle altre specie, al rimodellamento della superficie terrestre, alla costruzione del proprio destino.
Forse era inevitabile che l’uomo si sentisse solo in un universo disertato dagli dèi, e provasse la tentazione di riempire quel vuoto, collocandosi egli stesso nel suo proprio Olimpo, posto magari nella base spaziale di Cap Canaveral, oppure nelle basi nucleari sotterranee del New Mexico e del Nevada, oppure ancora nel grande impianto per l’accelerazione delle particelle presso il CERN di Ginevra. Dentro il suo camice bianco e davanti ai suoi supercalcolatori elettronici, egli si sente finalmente un dio: si sente finalmente uscito, come diceva Kant, dall’antico e prolungato stato di minorità, e proiettato verso le magnifiche sorti e progressive.
Forse era inevitabile; o, almeno, era inevitabile date le premesse: date, cioè, il tipo di ragione, il tipo di scienza e di tecnica che egli ha creato e messo a punto in Europa occidentale, a partire dal XVII secolo, per poi imporle al resto del mondo, nei quattro secoli successivi; forse, dicevamo, tutto ciò era inevitabile, ma certo ha creato in lui un delirio di onnipotenza, lo ha posto completamente fuori centro rispetto a se medesimo, e lo ha collocato in una posizione falsa, ambigua e pericolosa nei confronti della creazione.
Perché l’uomo non è Dio; e l’uomo che gioca a fare Dio, cessa di essere un uomo, per diventare una creatura dissociata e posseduta, alla lettera, da una forza più grande di lui, non benefica né benevola, anzi intimamente malvagia, che lo sospinge là dove egli nemmeno si rende conto di andare, che lo costringe a fare delle cose che egli crede di compiere liberamente, mentre è ormai diventato lo schiavo e lo zimbello di quella forza potente e malefica, alla quale non sa resistere perché non la riconosce e, forse, non sospetta nemmeno che esista.
[…]
I nostri predecessori, i nostri avi, i nostri nonni lo sapevano, con saggezza istintiva, anche se non avevano frequentato le moderne università, dove si forgia l’uomo-dio e dove gli si inculcano i falsi principî della sua onnipotenza: sapevano che il giunco resiste alla forza delle onde perché vi si piega e la asseconda, mentre la quercia viene scalzata e rovesciata, perché pretende di opporvisi; sapevano che nulla può fare l’uomo contro la natura, ma solo in sintonia con essa; e che il massimo della debolezza è il voler vincere sempre, il voler trionfare su tutto, sottomettere ogni cosa, imporre ovunque la propria supremazia: credersi, appunto, un dio [...
Francesco Lamendola
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