ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 5 aprile 2013

Ne faranno un presidente di Sinodo...


Il Papa è re oppure no?

Paolo Mieli ha spiegato con acume di storico proprio ieri nel Corriere della Sera che Costantino era un imperatore giusto (regnò dal 306 al 337 dopo Cristo), e che saranno solo i successori a trasformare l’abbraccio della religione cristiana da parte dell’autorità imperiale in un processo discriminatorio che negava la libertà religiosa per gli altri. Va bene che questa è una questione controversa da secoli, e che la storiografia contemporanea si cimenta con il problema senza che si veda la fine della discussione.
Ma la questione è decisiva anche per il nuovo Papa Francesco. Infatti la gloria del Concilio Vaticano II, per i suoi sostenitori, consiste nell’aver rovesciato il concetto reazionario, ottocentesco, di una chiesa cattolica romana assediata dalla violenza secolarizzatrice, e gelosa del suo potere sia spirituale sia temporale, in un’idea di fede che sottostà alla croce di Gesù, che non porta più neanche una traccia della gloria di Cristo Re, ma solo percorre il solco amabile, piangente e intimo, umano troppo umano, della sua sofferenza redentrice. Un Gesù personale, di coscienza più che di dottrina e di deposito della fede in un contesto ecclesiale, fuori da uno spazio pubblico consegnato per l’essenza alla dittatura del relativismo culturale e alla sovranità indivisa dello stato separato dalla chiesa. E’ una specie di assolutizzazione delle esperienze del giurisdizionalismo ottocentesco, quando gli stati definirono il prepotere dell’autorità laica su quella ecclesiastica, insomma l’accettazione piena, perché questo fu anche il grande evento del Vaticano II, della modernità che emargina e parcellizza la religione, facendone una funzione dell’atto del credere, e non un linguaggio, una cultura che dice la fede e la argomenta nell’equilibrio con la ragione, in modo tale da bruciare le frontiere troppo nette, i muri innalzati tra società laica e società della chiesa (quest’ultima tendenza, con differenze dirimenti, si esprime tra l’altro nell’essenza teologica e pastorale del papato giovanpaolino e benedettino).
Piero Ostellino ha protestato ieri, sempre nel Corriere della Sera, contro un fenomeno di cui ha avvertito i primi vagiti: l’imitazione ciarliera e opinionistica del nuovo Papa all’insegna del pauperismo, inteso come una ideologia para e postmarxista (ma di un marxismo che avrebbe fatto inorridire Karl Marx) incline alla distruzione dell’individualismo, della competizione, della vocazione o chiamata, Beruf, alla produzione di sviluppo, lavoro, ricchezza, opportunità, libertà d’intrapresa eccetera.
Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo cercato di vagliare il grano del concetto teologico di povertà, e della sua complessità nella predicazione gesuitica del Novecento come nella dottrina della fede cristiana nei secoli, con un bel saggio di Maurizio Crippa che separava questo alimento nutritivo della chiesa di sempre dal loglio dell’enfasi e della pomposità straccionista.
Ma per andare all’essenziale che interessa i cattolici riformatori alla Melloni e i preti anche più spicci e benigni verso il regno di questo mondo come un don Sciortino, sia nel genere “fine dell’alleanza neocostantiniana” sia nel genere “povertà”, ecco una faccenda che il Papa Francesco prima o poi dovrà affrontare: i Concordati. Quello italiano, rivisto da Craxi e Casaroli sotto Giovanni Paolo II, è produttivo di molte complesse sfumature comportamentali, chiamiamole così, esaminate con malizia nel resoconto laico e anticlericale di Massimo Teodori (Vaticano rapace - Lo scandaloso finanziamento dell’Italia alla chiesa, i grilli Marsilio editore). Per una chiesa povera, e anticostantiniana, il Concordato è un problema. I vescovi diretti da Camillo Ruini, e dai suoi Papi, sapevano che cosa fare delle enormi risorse liberate, in termini strutturali (anche come alimentazione della macchina educativa e del personale religioso), dal rapporto esplicito e codificato tra la chiesa istituzione e lo stato laico e unitario, insomma la nostra Repubblica. Una linea nuova andrà definita in relazione a una chiesa episcopale romana che eserciti il suo primato in una sfera spirituale “povera”, cioè destituita di carisma politico e temporale, fuori appunto dallo spazio pubblico che fu il grande teatro della predicazione gesuana di Wojtyla e di Ratzinger. Il francescanesimo ha le sue esigenze, e Papa Francesco dovrà tenerne conto.

Giuliano Ferrara

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