Segnalazione del Centro Studi Federici
Il 1° maggio 1908 nasceva a Fontanelle di Roccabianca (Parma) Giovannino Guareschi: un grandissimo uomo, un grandissimo giornalista, scrittore e vignettista. Troppo cattolico per essere valorizzato dalla cultura ufficiale. Per le sue idee fu incarcerato dal governo democristiano: ricordiamo la vicenda con una serie di testi. 
Oggi certi personaggi presenti nel mondo tradizionalista, autentici trinariciuti conciliari, tendono ad appropriarsi di Guareschi, che dimostrò invece, in più di un’occasione, prima della morte avvenuta nel 1968, la sua profonda avversione al nuovo corso conciliare.
 
Quando De Gasperi mandò in carcere Giovannino Guareschi, di Dario Mazzocchi
26 maggio 1954: Giovannino Guareschi entra nel carcere San Francesco di Parma per uscirne il 4 luglio dell’anno successivo, dopo 409 trascorsi sotto la più stretta sorveglianza. È l’atto che chiude quella che il giornalista parmense aveva definito la vicenda del “Ta-pum del cecchino”: lo scontro con Alcide De Gasperi, prima verbale dalle colonne del Candido, in seguito ad alcune scelte strategiche del leader democristiano che puntava ad aprire a sinistra, poi a colpi di documenti in tribunale per diffamazione a mezzo stampa.
Una storia dell’Italia repubblicana, la cui costituzione all’articolo 21 tutela la libertà di stampa. Il 24 e il 31 gennaio 1954 sul settimanale diretto da Guareschi vennero pubblicate due lettere risalenti a dieci anni prima, in piena Seconda guerra mondiale, e firmate da De Gasperi, che ai tempi aveva trovato rifugio in Vaticano: due missive dirette al generale britannico Harold Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, chiedendo il bombardamento di alcuni punti nevralgici di Roma, come l’acquedotto, «per infrangere l’ultima resistenza morale del popolo romano» nei confronti di fascisti e truppe tedesche.
Materiale scottante, sottoposto a Guareschi da Enrico De Toma, nome che ritorna anche nella storia che riguarda il carteggio Benito Mussolini – Winston Churchill e che aveva prestato servizio come sottotenente della Guardia nazionale repubblicana ai tempi della Repubblica di Salò. Le lettere vennero riprodotte (Indro Montanelli ha più volte ripercorso i giorni precedenti alla loro pubblicazione, ricordando come in qualsiasi modo avesse cercato di convincere il collega a desistere e rivolgendosi direttamente all’editore del Candido, Rizzoli) e agli inizi del febbraio ’54 De Gasperi sporse querela. Istituito il processo, il 13 e il 14 aprile ebbero luogo la seconda e la terza udienza e il 15 giunse la condanna a dodici mesi di carcere per diffamazione.
Nel frattempo l’abitazione milanese di Guareschi in via Righi era stata visitata due volte da alcuni topi di appartamento e nella seconda occasione, nel mese di marzo, gli venne rubata la macchina da scrivere dalla quale era nata la saga di Don Camillo e Peppone e furono ispezionate alcune cartellette contenenti i documenti legati alla vicenda del “Ta-pum”, ma le due lettere incriminate non poterono essere trovate, dal momento che le custodiva De Toma in Svizzera. L’autore parmigiano non ricorse in appello e De Gasperi commentò la sentenza dichiarando: «Sono stato in galera anch’io e ci può andare anche Guareschi». 
«In tutta questa faccenda hanno tenuto conto dell’”alibi morale” di De Gasperi e non si è neppure ammesso che io possegga un “alibi morale”. Quarantacinque o quarantasei anni di vita pubblica, di lavoro onesto non sono un luminoso “alibi morale”?», si chiedeva il giornalista sul Candido del 25 aprile. Non contestando la sentenza («È regolare, ha il crisma della legalità»), contestava «il costume». «Mi hanno negato ogni prova che potesse servire a dimostrare che io non avevo agito con premeditazione, con dolo. Non è per la condanna, ma per il modo con cui sono stato condannato». Perché in tribunale, la perizia calligrafica avanzata dalla difesa sulle due lettere non venne mai ammessa. Al contrario, nel 1956, nel corso del processo intentato in contumacia contro De Toma, il tribunale di Milano affidò a un collegio di tre periti l’esame delle due lettere negato due anni prima a Guareschi e la conclusione fu che «non esistevano prove tali da stabilire inequivocabilmente la falsità delle lettere».
A quel punto ancora il tribunale incaricò un quarto perito che ritenne le lettere «sicuramente false». Tra un’analisi e l’altra, il 17 dicembre 1958 i giudici dichiaranono estinto per amnistia il reato di falso e assolsero De Toma dall’accusa di truffa per insufficienza di prove, con l’ordine di distruggere i documenti. 409 nove giorni di carcere, dei quali rimangono alcuni ricordi come una fotografia scattata di nascosto che ritraeva Guareschi dietro alle sbarre, con i consueti baffi che ornavano anche la sua firma. Ai dodici mesi di condanna si aggiunsero gli arretrati: già nel 1950 era stato condannato per diffamazione in seguito alla pubblicazione di una vignetta del collega Carlo Manzoni dove figuravano due file di bottiglie bene allineate recanti, in collage, l’etichetta “Nebiolo – Poderi del Senatore Luigi Einaudi” e che facevano “da corazzieri” al presidente della Repubblica Einaudi, disegnato sul fondo. Assolti in prima istanza, i due in appello furono condannati a 8 mesi di reclusione per vilipendio al Capo dello stato e non scontarono la pena l’applicazione della libertà condizionale, ma il conto gli fu presentato alla prima occasione giusta. Giovannino tornò definitivamente un uomo e un giornalista libero solo il 26 gennaio 1956, giorno della scadenza della libertà vigilata alla quale fu sottoposto una volta rientrato alla base, nella sua casa di Roncole Verdi. 
«Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione», affermò orgoglioso alla vigilia del suo ingresso in carcere, dove si presentò con la sacca che lo aveva accompagnato durante la prigionia nei campi tedeschi come Internato militare italiano dopo l’8 settembre 1943. Dalla Polonia rientrò con un fisico duramente provato, ma pronto a ricominciare con accanto la moglie Ennia, chiamata Margherita nei suoi racconti, e i figli Alberto e Carlotta. I giorni di Parma invece ne segnarono tremendamente il fisico e l’animo. Ma il galantuomo che era in lui non se n’era andato: De Gasperì morì il 19 agosto 1954, mentre Guareschi scontava la condanna. «Mi ha invece rattristato – scrisse – la morte improvvisa di quel poveretto. Io, alla mia uscita, avrei voluto trovarlo sano e potentissimo come l’avevo lasciato: ma inchiniamoci ai Decreti del Padreterno».
 
La storia di Giovannino senza paura (1954) - 1954: la vicenda del “Ta-pum” (il processo De Gasperi) 
gennaio-aprile le due lettere pubblicate
 
26 maggio: entra nelle Carceri di San Francesco a Parma. Alla vigilia della scadenza del termine per ricorrere in appello inatteso arrivo di Scelba in Via Righi: Giovannino non lo riceve ma questi aspetta tre ore prima di andarsene. 
«No, niente Appello. La mia dignità di uomo libero, di cittadino e di giornalista libero è faccenda mia personale e, in questo caso, accetto soltanto il consiglio della mia coscienza.
«Riprenderò la mia vecchia e sbudellata sacca di prigioniero volontario e mi avvierò tranquillo e sereno in quest’altro Lager.
«Ritroverò il vecchio Giovannino fatto d’aria e di sogni e riprenderò, assieme a lui, il viaggio incominciato nel 1943 e interrotto nel 1945.
«Niente di teatrale, niente di drammatico. Tutto semplice e naturale.
«Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione.»
 
agosto-settembre: storie di “grazie e perdoni”
dicembre: esce il «Corrierino delle famiglie»  
«In queste ultimissime ore del 1954 l’appuntamento è con la Signora Coscienza. Si tratta di una chiacchierata serena, piacevole. La signora Coscienza non ha bisogno di permesso speciale per il colloquio. E la guardia non è mai presente. Ma potrebbe esserci. Non esistono traffici oscuri tra me e la Signora.
«È stato un ottimo anno, per me, questo 1954. Non bisogna badare all’apparenza. E c’è galera e galera.»
 
1955: il carcere di Parma 
Scrive in carcere il soggetto, la sceneggiatura e i dialoghi per il film «Don Camillo e l’onorevole Peppone»
«Io lavoro avviluppato – dalle pantofole alla cintola – in una coperta tenuta su da un asciugamani annodato sul ventre (il detenuto non può detenere né corde né cinghie per impedirgli di procurare grane al direttore impiccandosi): dalla cintola ai baffi sono immerso in un vasto campionario di maglie e maglioni. In cima a questo grosso fagotto di stracci un coperchio di lana a righe bianche e blu, inclinato in modo da lasciar liberi gli occhi e il naso (la Repubblica permette ai detenuti di tener chiusa la bocca respirando soltanto con una, due narici o tre narici). Il complesso è piuttosto massiccio e la guardia di servizio viene ogni tanto a sincerarsi che io sia effettivamente dentro il fagotto.»
 
LA VICENDA DEL “TA-PUM del CECCHINO” narrata basandosi solo su documenti, consultabili nel Centro Studi del Club dei Ventitré.
Antefatto: il “caso” Guareschi – Einaudi 1950
Il 18 giugno 1950 GG pubblica su Candido n. 25 una vignetta di Carletto Manzoni dove figurano due file di bottiglie bene allineate recanti, in collage, l’etichetta “Nebiolo – Poderi del Senatore Luigi Einaudi”. Le etichette “fanno da corazzieri” al Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, disegnato sul fondo. Un’interrogazione alla Camera dei deputati degli onorevoli Treves (PSI) e Bettiol (DC) convince il sottosegretario alla Giustizia, onorevole Tosato, a concedere l’autorizzazione a procedere. GG Guareschi, direttore responsabile di Candido, e Carletto Manzoni, autore del disegno vengono assolti in prima istanza ma, su ricorso del Procuratore generale della Repubblica, vengono condannati in Appello a 8 mesi per vilipendio a mezzo stampa al Presidente della Repubblica. Non scontano la pena grazie all’applicazione della libertà condizionale.
Cronistoria della “vicenda”del “Ta-pum”
Il 20 e 27 gennaio 1954 GG pubblica su Candido due lettere attribuite a De Gasperi con un duro commento. 
Nei primi giorni di febbraio: De Gasperi querela GG. 
Viene istruito il processo e, dopo due rinvii, il 13 e 14 aprile hanno luogo la seconda e terza udienza del processo e GG, il 15 aprile, viene condannato a dodici mesi per diffamazione. 
Non ricorre in appello e il 26 maggio entra nelle Carceri di San Francesco a Parma e uscirà il  
4 luglio 1955 (409 giorni) in libertà vigilata. 
Il 26 gennaio 1956 termina la libertà vigilata.
Commento
GG, querelato da De Gasperi con ampia facoltà di prova, consegnò al Tribunale le lettere accompagnate da una perizia calligrafica che non venne tenuta in considerazione dal Tribunale. Nel procedimento l’ampia facoltà di prova, in pratica, gli fu negata perché non gli furono concessi né le nuove perizie richieste né l’ascolto di testimoni a suo favore. Sulla base delle testimonianze a favore di De Gasperi, del suo alibi morale e del suo giuramento che le lettere erano false, il Tribunale decise di aver raggiunto la “prova storica” del falso condannando GG a un anno di carcere per diffamazione. La sentenza metteva in evidenza il fatto che, anche nel caso di una perizia grafica favorevole all’imputato, “una semplice affermazione del perito non avrebbe potuto far diventare credibile e certo ciò che obiettivamente è risultato impossibile e inverosimile”. Per questa ragione GG non ricorse in appello e, avendo perso la condizionale nella precedente condanna a otto mesi per vilipendio del Presidente della Repubblica Lugi Einaudi- nonostante fosse stata nel frattempo decretata un’amnistia che riguardava reati ben più gravi – andò in prigione. Non chiese grazie o agevolazioni, non usufruì di condoni e, durante la sua incarcerazione, gli venne assommata la pena della precedente condanna. Scontò in carcere 409 giorni uscendone in forza di legge e grazie alla qualifica di “buono” ottenuta in carcere. Scontò i rimanenti sei mesi in libertà vigilata. 
Coda
Nel 1956, nel corso del processo intentato in contumacia contro Enrico De Toma, il fornitore delle due famose lettere a GG, il Tribunale di Milano affidò a un collegio di tre periti l’esame delle due lettere negato due anni prima a GG. La conclusione dei periti fu che “non esistevano prove tali da stabilire inequivocabilmente la falsità delle lettere”. Il Tribunale incaricò un successivo superperito che dichiarò le lettere “sicuramente false”. La difesa di De Toma impugnò la superperizia e ne chiede una di parte. Sconcertante il responso dei periti della difesa che dichiararono di rilevare “palesi diversità fra dette lettere e quelle pubblicate su Candido”. Il Tribunale non tenne conto di nessuna di queste perizie. Il 17 dicembre 1958 dichiarò estinto per amnistia il reato di falso e assolse De Toma dall’accusa di truffa per insufficienza di prove, con l’ordine di distruggere i documenti.
 
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