Edilizia profana. E il capriccio degli archistar
Non ci è dato sapere perché, lungo l’ultimo ventennio, nei sobborghi romani siano state erette ben quarantacinque chiese; rispetto alla densità dei fedeli, è un numero esagerato che ha comportato comunque una spesa sproporzionata, se si pensa agli ingenti compensi degli architetti superstar assoldati e a tutte quelle famiglie che laggiù, nella periferia del benessere capitolino, stentano quasi sempre ad arrivare alla fine del mese. Un insulto all’indigenza, quindi, oltre che al valore oggettivo della più elementare estetica.
Neanche l’alibi della riqualificazione – dietro il quale si è arroccato il Comune, in combutta con il Vicariato – ha funzionato granché; anzi, dai risultati postumi della sbronza urbanistica, pare proprio il contrario: si tratta di edifici avveniristici e megalomani dalle geometrie aerospaziali, confacenti più a Gotham City che alle parrocchie dei suburbi di Roma.
In occasione della presentazione del volume “Chiese della periferia romana” (edizioni Electa), tenutasi il 14 maggio scorso, Antonio Paulucci, direttore dei Musei Vaticani e sovraintendente dei beni artistici della Santa Sede, ha dichiarato che queste nuove chiese sembrano dei musei, bene che vada, o, peggio, dei grandi magazzini e che non invitano sicuramente né alla meditazione religiosa, né al raccoglimento spirituale. Un attacco, quello del professor Paulucci, indirizzato non soltanto ai curatori del libro – gli architetti Marco Petreschi, Nilda Valentin e monsignore Liberio Andreatta – ma anche all’arcinoto arcivescovo Camillo Ruini, fondatore del “Progetto culturale della Chiesa italiana”, che ai tempi aveva contribuito alla campagna per la realizzazione di cinquanta cappelle nelle periferie romane.
Ha avuto ragione Paulucci a non apprezzare, senza troppi salamelecchi, queste megalomanie edilizie, sostenute dai cosiddetti “poteri forti”, che hanno accantonato, quasi fossero davvero repertorio da museo, cupole, affreschi e atmosfere millenarie, che non hanno nulla né di glamour, né di temporale.
Se non è tollerabile che, ovunque e per qualsiasi genere di funzionalità, si dia spazio ad aberrazioni urbanistiche, ancora meno sopportabile e decisamente più paradossale è che queste facciano scempio delle tradizionali proprietà dei luoghi di culto – dalla magnifica austerità delle chiese medievali fino all’incanto pagano sprigionato dai dolmen – i quali, per loro intrinseca essenza, sono distanti anni luce dalla spettacolarità di un’architettura postmoderna e secolare e, di conseguenza, dall’autoreferenzialità di quegli archistar che, colti da insanabile delirio di onnipotenza, prendono per reale tutto ciò che è capriccio, innovazione e clamore, sottostando più al proprio personalissimo e minuto “demone” che algenius loci e al profondo sentire comune.
È nei luoghi di culto come chiese, moschee e templi che l’uomo, trascendendo se stesso e le sue tante finitudini – vanità, egotismo, transitorietà – rinuncia a quella volontà, che tutti i mistici definiscono un inutile fardello e si abbandona, finalmente, al Tutto.
Gli antichi non credevano affatto all’esistenza del profano, ecco perché riuscivano tanto bene a conciliare l’esoterico con l’essoterico e, dunque, la forma con la sostanza. I nostri civilizzati contemporanei, invece, oltre a deturpare la sola vera “Unità d’Italia” che fino a oggi ci è data, cioè la bellezza, non riflettendo il sacro, riescono benissimo a profanare persino la materia.
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