La questione dell’infallibilità papale è sempre stata maneggiata con cautela dai papi del Novecento. Anche i più ancorati alla tradizione, come i campioni della lotta al modernismo à la Pio X. Pesava sul dogma il modo in cui era stato concepito, il clima storico che faceva sì che il Concilio Vaticano I, fortemente voluto da quello che sarebbe stato l’ultimo Papa re, si svolgesse mentre l’eco dei cannoni piemontesi iniziava a sentirsi in lontananza.
Non tutto l’episcopato guardava entusiasta al progetto di Pio IX, e una minoranza di vescovi francesi e tedeschi preferì lasciare Roma piuttosto che certificare l’atto di un Papa inquieto che sentiva la sua autorità politica e spirituale messa sempre più in discussione dallo spirito del tempo. La “Pastor Aeternus”, non a caso costituzione definita dogmatica, stabilisce che quando il Pontefice interviene ex cathedra è infallibile. Tema controverso, ambiguo, anche perché definire quando un Papa parla dalla cattedra non è sempre chiaro. Qualcuno, ad esempio, neanche vent’anni fa aveva ipotizzato che tra le righe dell’Evangelium Vitae, l’enciclica di Giovanni Paolo II, si intravedessero almeno due dogmi. Argomenti lasciati cadere, mancavano le prove e le certezze. E poi Wojtyla non si espresse al riguardo. E’ certo invece che solo un Papa, da quel 1870, si è servito del dogma dell’infallibilità. Pio XII, nel 1950, per definire l’Assunzione in cielo della Vergine Maria. Questione non certo traumatica o di rottura, che non fece alzare le cappe magne di cardinali inorriditi da tale innovazione.
Eppure, come ha scritto lo storico e giornalista americano Garry Wills sull’utimo numero della New York Review of Books, l’infallibilità si manifesta anche senza la pompa del pronunciamento dalla cattedra. Basti pensare alle canonizzazioni: certo, c’è il parere illuminato di decine di medici, scienziati, investigatori; ci sono migliaia di documenti da leggere e testimoni da sentire; c’è un iter burocratico spesso interminabile che a volte rallenta l’intero processo per decenni. Ma alla fine, è il Papa, che non a caso ha il titolo di vicario di Cristo, a decidere tutto. Decide se un miracolo è stato compiuto, se il “candidato” a essere iscritto nell’albo dei santi è meritevole del privilegio, se le sue virtù sono davvero straordinarie. Senza discussioni. Anzi, può perfino decidere che non sia necessario accertare il compimento del miracolo. Basta il curriculum, la storia personale, ciò che si è fatto in vita. Un pensiero assai condiviso da Francesco, il Papa che senza troppi dubbi ha deciso la settimana scorsa di santificare Giovanni XXIII, il Papa del Concilio, pur senza la prova evidente che qualcosa di soprannaturale per sua intercessione sia mai avvenuto. Dunque è Bergoglio a certificare “infallibilmente” per lui.
Angelo Roncalli sarà elevato agli onori degli altari insieme al “conservatore” (se le categorie hanno un valore) Wojtyla: prova evidente, sottolinea Wills, che la beatificazione di Roncalli (nel 2000), che avvenne in accoppiata all’antimoderno per eccellenza Pio IX, ha fatto da precedente. Il Pontefice, poi, può decidere di accelerare l’iter canonico senza dare troppe spiegazioni (nel 2005 Benedetto XVI dispensò dall’attesa dei cinque anni previsti prima di avviare la causa di beatificazione del predecessore).
Ogni volta che un Papa decreta in modo chiaro e definitivo che dal cielo qualcuno “è in grado di fare miracoli”, non fa altro che stabilire qualcosa di incontrovertibile, nota Wills. E’ una sorta di infallibilità implicita e neppure troppo rischiosa. D’altronde, aggiunge provocatoriamente l’autore americano, se il Papa ha il potere e la capacità di conoscere gli eventi soprannaturali, “quale conoscenza umana potrebbe essergli negata?”. Un’infallibilità strettamente connessa al primato petrino, che nonostante i ripetuti richiami e accenni alla necessità di sviluppare la sinodalità e la collegialità all’interno della chiesa, è un principio caro anche al gesuita e decisionista Bergoglio.
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