Ci vuole un santo
Giuseppe Prezzolini è stato un protagonista dell’altro secolo, italiano
eccentrico ma così scettico da autoconsiderarsi un «italiano inutile».
Deluso e miscredente, si occupò anche di religione, assai colpito dalla
sua secolarizzazione. Conservatore che si atteneva ai fatti, non avrebbe
capito questa voga etica che travolge oggi l’Italia politica. Il
tradimento di Machiavelli gli sarebbe apparso un inganno di qualche
nuovo potente più furbo. O forse una ondata di religiosità laica, di
bigottismo infondato, nel vuoto della religione cattolica. Il giudizio
cupo sulla natura umana (corrotta in sé, altro che le piccole reciproche
corruzioni che tanto turbano i nostri contemporanei) gli derivava,
oltre che dal carattere, dal realismo italico dei migliori teorici
politici e dei migliori letterati e artisti del Belpaese. Un tale
pessimista non poteva non tenere in massima considerazione la Chiesa di
Roma che predicava, come unica via d’uscita, i precetti evangelici e il
rispetto del magistero, onde arginare la stoltezza che regna sulla
terra. Naturale dunque che, quando l’ultimo Concilio prese ad adulare
l’umanità, accettandone tutti i difetti e promettendo, invece della
salvezza nell’aldilà, un benessere sindacale quaggiù, Prezzolini si
irritasse pur dialogando serratamente con papa Paolo VI. Una volta,
quasi centenario, si recò perfino in Vaticano per polemizzare con il
pontefice nei Sacri Palazzi Apostolici, senza tuttavia convertirsi ai
ragionamenti montiniani. Fu invitato allora a scrivere sull’«Osservatore
Romano», nell’edizione meno ufficiale del supplemento della domenica, e
lui elencò i motivi di disaccordo. Aveva in testa un cristianesimo
eroico e vedeva Gesù come il «dispregiatore di tutti i valori sociali».
Da molti decenni prima del Concilio, si diceva convinto che «la funzione
della Chiesa è di consolare e di assolvere i pentiti, non di animare i
rivoltosi e di sognare la pace universale in terra». Su questo Leitmotiv
montiniano, Prezzolini ironizzava sommessamente: non ci si batte per la
pace – obiettava al papa –, per volerla davvero basta arrendersi al
nemico, consegnargli tutte le armi e rimettersi alla sua clemenza.
Sul tema «povertà», che pare tornare di gran moda oltretevere, lo
scrittore non si lasciava confondere: «Gesù era contrario alle
ricchezze», ammetteva, ma forse, si interrogava retoricamente, il Messia
voleva fare «dei poveri altrettanti semiricchi come pretendono i
cristiani democratici di oggi? Essi vogliono togliere i poveri dalla
povertà come se questa fosse un peccato, e mediante provvedimenti di
legge. Ora Gesù considerava la povertà come una distinzione del cielo.
L’ideale piccolo borghese dell’operaio e del contadino moderatamente
benestante, che finisce la vita tra gli agi di una pensione, credo che
sarebbe stata una situazione poco gradita a Gesù».
Nell’articolo che provocò poi l’approfondimento sull’«Osservatore»,
scriveva della sua meraviglia per la scelte di fondo del Concilio:
«guardando storicamente le cose, la Chiesa cattolica ha passato momenti
assai più brutti del presente», perché allora i reverendi padri
conciliari si sono «mostrati impazienti come una ciurma che sente il
bastimento in pericolo e si affretta a buttare la zavorra in mare, che è
poi quella che ha tenuto il bastimento in equilibrio»? Un’altra domanda
cruciale: «Ma dove se ne andrà la verità assoluta il giorno in cui la
Chiesa riconoscerà la libertà di coscienza? Se tutti han diritto
di credere come il loro spirito dentro detta, tutte le Chiese sono
uguali, e quindi nessuna è assolutamente vera».
Sul giornale vaticano scriveva senza troppi giri di pensiero della
soverchia importanza, a suo parere, data dalla Chiesa ai cambiamenti
teorici: «un santo, un sacerdote caritatevole, un poeta ispirato dalla
coscienza religiosa sono più importanti di molte affermazione,
riduzioni, modificazioni del culto, dell’abito, della dottrina
ecclesiastica». Facile profeta, proseguiva: «La Chiesa sul terreno
sociale e politico sarà sempre battuta da chi offre meglio e di più. Le
dottrine del giusto prezzo, del salario sufficiente, del trattamento paterno non hanno valore scientifico; e sono meno radicali
di quelle comuniste, che soddisfano di più l’istinto egualitario…». Le
teologie della liberazione, peggio che mai nella versione moderata con
cui si ripresentano da qualche mese alla ribalta, sembrano richiamarsi
all’angusto ‘vorrei ma non posso’.
Il Grande Pessimista allora non salvava niente? Si divertiva soltanto a
demolire la Chiesa attuale come in altri tempi avrebbe demolito quella
tridentina? No, qualche punto fermo c’era. Già l’abbiamo visto invocare
un santo, perché i fedeli hanno bisogno della mediazione dei santi non
della pedagogia di un catechismo verbosissimo e terribilmente vicino ai
luoghi comuni dell’opinione pubblica. Nel breve scritto finale del libro
da dove abbiamo tratto queste citazioni (Cristo e/o Machiavelli,
Rusconi, 1971), Prezzolini indica in positivo quel che ci vuole, fa un
nome: «Per mantenere la fede non occorre un nuovo Catechismo, come i
teologi olandesi han compilato; quello che occorre è l’esempio di una vita differente
(grazie alla fede) da quella degli altri uomini. Mi sia permesso di
dire che ha fatto più per la fede padre Pio da Pietrelcina che il
cardinale Alfrink». Per la cronaca, quest’ultimo fu un porporato
olandese divorato dalla fede progressista.
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