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giovedì 17 ottobre 2013

Da liberale, dico no a Bergoglio

Ognuno ha “la sua idea di bene”? Da liberale, dico no a Bergoglio

Al direttore - Da ateo (un po’ devoto), materialista e liberale vorrei provare a confutare il Papa. E a difendere l’idea laica e liberale di “bene” dalle insidie del soggettivismo del gesuita Bergoglio. Scalfari ha sbagliato a non confutare l’affermazione relativistica di Bergoglio: “Ognuno ha la sua idea di bene”, che matura e si forma nella “coscienza individuale”, unico vero tribunale e autorità del concetto di bene. Questa tesi è errata. Da un punto di vista cristiano. Ma, anche e soprattutto, da un punto di vista laico e liberale.
Anzi è una regressione, una degradazione, una distorsione di un fondamentale assunto della modernità, della laicità e del liberalismo. Per questi ultimi, mi permetto di obiettare, il vero concetto valevole di edificazione a “valore” specificamente umano e fondativo di civilizzazione non è affatto l’astratta “idea di bene” autoedificata da ognuno nel suo foro interiore che, così declinata, conduce al massimo di “relativismo” radicale. Il “valore” liberale autentico non è il Bene ma il “bene comune”. Cioè un’idea relazionale, altruista, sociale che distingue e segna la soluzione di continuità tra “regno animale” e specificità “umana”. Strano che un Papa abbia steccato su questo. Il tratto distintivo che fa dell’uomo un valore e della “vita umana” un valore non contendibile per un cristiano dovrebbe essere non il fatto che l’uomo ha una “coscienza individuale” come sostiene Bergoglio, ma il fatto che possiede, unico tra i viventi, una tendenza “altruista”: un’idea naturale a strutturare comunità e a valorizzare il bene collettivo, la solidarietà, il comportamento sociale come valore superiore a ogni idea puramente individuale di bene. Il concetto di “persona” che il cristianesimo ha trasferito nelle costituzioni liberali è irriducibile a un individualismo radicale. “Persona” è in sé un valore relazionale: esiste e si giustifica solo in un contesto di socialità e di convivenza strutturata intorno a un’idea di bene non individuale (a ogni vivente e persino a una pianta si potrebbe attribuire un comportamento orientato opportunisticamente a un bene individuale) ma “comune” e collettivo. L’assunto “ama il prossimo tuo come te stesso” è la più potente e dirompente delle prescrizioni cristiane ma anche il meno elusivo dei valori che il cristianesimo veicola nelle compassionevoli e solidaristiche “costituzioni” che il liberalismo occidentale consegna alla storia del progresso umano e della civilizzazione. Ecco il “pizzico” di devotismo, di rispetto e di gratitudine che ogni autentico liberale dovrebbe concedere alla “cultura” cristiana.
Materialisticamente la moderna biologia, quella che si è dedicata alla decrittazione e traduzione dell’informazione contenuta nel genoma umano, sostiene, a ragione, che l’idea di “bene comune” e di comportamento altruistico orientato a strutturare comunità è la vera e unica specificità che distingue l’alfabeto genetico umano da quello di ogni altro vivente. Nella costruzione sociale umana le “comunità” ecco il punto, non sono entità ristrette, puramente naturali, istintive, limitate a cerchie parentali e fondate su un puro comportamento di autodifesa dal resto dei viventi, come funziona invece nel regno animale. Ma sono comunità allargate perché finalizzate, attraverso la divisione del lavoro e la specializzazione delle attività, alla valorizzazione del “bene comune” come condotta che produce il miglioramento della specie. Le grandi sintesi culturali dell’occidente – cristianesimo, illuminismo, liberalismo – hanno cercato di strutturare un corredo di valori e di concetti che fungessero da driver e meccanismi di protezione del funzionamento della comunità umana strutturata sul concetto di “bene comune”. La “società” è in occidente un prodotto culturale che funziona solo in un’accezione di “coscienza collettiva” irriducibile all’idea di “bene” come prodotto della coscienza individuale. Azzarderei a dire, come sostiene un grande libro migliorista – “L’ottimista razionale” di Matt Ridley – che l’individuo è il tratto che accomuna la geografia e l’alfabeto genetico dei viventi. E’ invece il sociale – “cervello sociale”, “cultura” tecnologica, divisione del lavoro, altruismo – il tratto che distingue l’umano da ogni altra versione del vivente. Ciò che lega insieme questa specificità umana è, insomma, il “bene collettivo” come comportamento migliorativo e più pagante per l’individuo rispetto al “bene” come astratta costruzione individuale. Ma come, insorgono i soggettivisti e gli individualisti radicali, dove va a finire con questa idea sociale e collettiva di bene il tribunale interiore, il foro individuale, la costruzione liberale dell’individuo come massimo dei valori fondativi della libertà liberale? L’idea di libertà liberale non è affatto soggettivistica.
Il “foro individuale” non è, per i liberali, il perimetro irriducibile del castello della libertà. E’ un valore difensivo: dalle invasioni, prevaricazioni e deformazioni del funzionamento sociale, delle istituzioni comunitarie, delle strutture della convivenza altruistica che non devono mai debordare  dall’equazione di  base della socialità liberale: l’individuo è orientato dal “bene comune” e il “bene comune” è la forma che realizza, nelle società liberali, il miglioramento della qualità della vita dell’individuo. Per me questo sarebbe, al fondo, un concetto cristiano. Stupisce non trovarlo nelle ruggenti affermazioni di Francesco.
di Umberto Minopoli

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