Prima l’eruzione improvvisa di densa e profonda dottrina su misericordia e coscienza, poi una dotta lezione sul kairós cristiano come luogo della rivelazione e della salvezza, contrapposto al kronos pagano, mostro che divora i suoi figli e che porta solo morte. Sono giornate intense, dalle parti dell’ex Sant’Uffizio. Fino a oggi, il prefetto Gerhard Ludwig Müller era guardato con sospetto dal fronte conservatore perché troppo amico dei teologi della liberazione (anche di quelli condannati e sconfitti da Joseph Ratzinger negli anni in cui trionfava l’ecclesia militans giovanpaolina). Da qualche giorno, però anche dall’altra parte della barricata si levano mugugni per le ultime uscite del monsignore tedesco, già vescovo di Ratisbona e curatore dell’opera omnia teologica di Benedetto XVI.
L’accusa implicita è quella di aver chiuso le porte che il Papa, in una serie di interviste a braccio, sui giornali e a bordo di aerei, avrebbe aperto ai divorziati risposati desiderosi di accedere nuovamente ai sacramenti. Bergoglio non aveva escluso nulla, aveva ascoltato pazientemente, annuito, e demandato ogni decisione al Sinodo sulla famiglia del prossimo anno. Ma ecco che Müller, con il suo lungo contributo messo nero su bianco sull’organo ufficiale della Santa Sede, l’Osservatore Romano, fissa i confini della discussione, chiarisce che su certe questioni (come la teoria “dell’economia ortodossa”, ossia la concessione di una seconda o terza possibilità ai divorziati risposati, previo pentimento) non si può proprio andare contro la volontà di Dio. Il matrimonio è pur sempre indissolubile, e romperlo significa peccare, rinunciare alla grazia divina.
Sembra quasi che il custode dell’ortodossia sia all’opera per irrobustire a colpi di dottrina e di teologia sacramentale il messaggio del cuore usato per sanare le ferite nell’ospedale da campo di Francesco. Per recintarlo e cacciare lontano il pericolo di banalizzare e di cadere in errore su cui Müller stesso aveva messo in guardia sul giornale del Vaticano. Così, se il Papa gesuita lavora alla rivoluzione dei cuori con la forza della preghiera, del digiuno e dell’amore, e non ha troppo tempo per appianare i dissidi che emergono dalla discussione su fede e ragione, alla dottrina e alla razionalizzazione del messaggio del cuore ci pensa il prefetto scelto un anno fa da Benedetto XVI e confermato dal suo successore. Un po’ come fu Joseph Ratzinger per Giovanni Paolo II, il fine e profondo teologo bavarese chiamato a fare da braccio intellettuale all’atleta di Dio impegnato a combattere con la forza dello spirito e il vigore del corpo l’ateismo comunista prima e l’edonismo individualista poi. Mentre il Pontefice polacco organizzava gli incontri interreligiosi ad Assisi e chiedeva sette volte perdono per tutte le colpe “storiche e attuali dei figli della chiesa”, il prefetto custode della fede firmava nel silenzio del suo ufficio a due passi dalla basilica di San Pietro la “Dominus Jesus”, uno dei documenti cardine del Giubileo del 2000, in cui si chiariva l’unicità e l’universalità salvifica di Cristo e della chiesa. Un testo che metteva in luce tutta la chiarezza di un pensiero cristiano forte e che per questo fu malamente accolto dall’occidente secolarizzato. Ratzinger, dicevano gli indignati, stava infilando la chiesa in un ghetto intellettuale. Ma quando il teologo tedesco chiese all’amico Wojtyla di essere congedato e lasciato ai libri e allo studio, ricevette un rifiuto. Il Papa non poteva fare a meno del pensiero sottile e argomentato di Ratzinger, sostegno indispensabile a un pontificato che declinava insieme alla malattia di Giovanni Paolo II.
Francesco, oggi, sa che alla sua pastorale missionaria serve anche dottrina, benché – diceva alla Civiltà Cattolica – “non ne deve essere ossessionata”. Il suo annuncio si basa sull’essenziale e il necessario, “che è anche ciò che appassiona e attira di più, che fa ardere il cuore”. Al resto, a recintare l’ospedale, ci pensa il custode dell’ortodossia.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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