È notizia di questi giorni che, in preparazione del prossimo Sinodo straordinario sulla famiglia, è stato inviato a tutti i vescovi un Documento preparatorio contenente un questionario con alcune domande rivolte ai fedeli laici. La notizia ha subito acquistato proporzioni rivoluzionarie, ma è normale, i media non avendo più un nemico da attaccare (Benedetto), hanno un “amico” da osannare (Francesco). E, quindi, abbiamo assistito a elogi sperticati di papa Bergoglio, anche laddove non ce ne era bisogno. Ma anche questo è normale: dopo otto anni di ingiustificati attacchi al Soglio pontificio, ora sembra si stia recuperando gli arretrati. Sia chiaro, non ci fidiamo dei media e ci preoccupa un po’ questa (apparente?) concordia tra papato e mondo. Staremo a vedere. Nel frattempo il suddetto questionario ha, inevitabilmente, fatto esultare gli eretici di tutto il mondo che pensano così di poter, democraticamente, cambiare la dottrina e di avere quel potere che, fino all’11 febbraio scorso, era in mano di un solo tiranno e ora è, finalmente, nelle mani di tutti gli altri che, va da sé, sono tutti santi. A chi ha sollevato qualche perplessità i paladini del “tranquilli va tutto bene, è tutto meraviglioso!” hanno fatto notare come, anche i papi del passato, prima della proclamazione di qualche dogma, si sono rivolti ai propri confratelli per chiedere il loro parere. La differenza ai più è sfuggita: sarebbe come se un medico chiedesse al proprio paziente che cura volesse per curare il proprio male. Un conto è essere medico o pastore. Un conto malato o pecora di un gregge. In una Chiesa dove siamo un po’ tutti preti (infatti i laici hanno accesso alle cose sacre con una serie inenarrabile di profanazioni) e un po’ tutti laici (infatti i preti si mascherano e se li guardi o li senti parlare non li riconosci) la distinzione appare superflua. Eppure c’è. I pastori sussistono perché c’è un gregge loro affidato da guidare e difendere. Oggi il gregge, invece, oltre che a divertirsi a fare il pastore (tradendo la propria natura) deve difendersi dai pastori stessi. E dai lupi che, increduli, trovano le porte dell’ovile spalancate e magari qualche documento ecclesiale che li invita ad entrare.
Riportiamo qui di seguito alcune pagine dell’ottimo saggio del cardinal Giacomo Biffi, Pecore e pastori, che ben trattano, seppur sinteticamente, di queste ovvie, ma trascurate, differenze tra pastori e gregge:
«Illuminati e nutriti da quanto ci è stato detto dalla divina Rivelazione, possiamo adesso procedere nella nostra meditazione ecclesiale cercando di capire meglio che cosa voglia dire essere pastori ed essere pecore nel gregge di Dio.
1. Relatività della funzione pastorale
Non si può capire la funzione pastorale nella Chiesa se non si tiene costantemente presente al nostro spirito la sua duplice essenziale relatività.
La successiva applicazione dell’immagine à Dio, a Gesù, a Pietro, ai dodici, ai vescovi, ai presbiteri, così come ci è indicata dalla parola di Dio, non è un passaggio totale della prerogativa, ma piuttosto una crescente partecipazione. Non è che il Padre cessi di essere l’unico vero pastore del suo popolo perché il gregge è stato consegnato a Gesù; né Gesù finisce di essere «il buon pastore» per l’assunzione a questo compito dei pastori subalterni.
Di conseguenza, la funzione pastorale, della quale sono investiti alcuni uomini, appare essenzialmente relativa. Nessuno è pastore in proprio, ma tutti quelli che lo sono legittimamente, lo sono in quanto riflettono la “pastoralità” di Cristo e del Padre. La realtà pastorale, per così dire, ci antecede e ci sovrasta; perciò il ministero pastorale non deriva mai in nessun modo dal «gregge», ma discende costituzionalmente dall’alto.
Colui che esercita - a qualunque livello legittimo - il ministero pastorale, deve verificare quotidianamente la sua consonanza con il «Pastore supremo» (archipòimen), richiamando ogni momento alla sua esplicita consapevolezza l’essenziale relatività della funzione.
2. Contrasto con la mentalità mondana
Qui c’è l’occasione di un possibile attrito tra la mentalità ecclesiale e quella del mondo. Sul piano “mondano” un’autorità che non emani dalla base, sarà vista ovviamente come un’autorità che si fonda solo su se stessa, e sarà classificata come antidemocratica. Invece nell’economia della salvezza - dove tutto appare donato da un’incredibile misericordia che investe la creazione scaturendo dal mistero ineffabile della vita di Dio - tanto un’autorità autonoma e gestita in proprio quanto un’autorità esercitata per mandato “dal basso” sono “mondanizzazioni”, da cui ci si deve guardare.
3. Pastori per il gregge
Il concetto di “pastore” possiede un’altra intrinseca relatività: implica sempre e necessariamente il concetto di «gregge». Se non ci sono pecore, non ci sono pastori. Dire che tutti sono totalmente pastori, equivale a dire che, propriamente parlando, di pastori non ce ne sono e a vanificare l’immagine biblica.
Ora tra i gravi problemi della cristianità odierna non c’è solo la scarsità dei pastori, c’è anche la difficoltà dei cristiani a riconoscersi evangelicamente pecore. Mentre la condizione di “pastore” è vista come un valore e una promozione, e perciò una sua più estesa partecipazione è accolta di solito con favore, la condizione di “pecora” è percepita come una mortificazione, e perciò tende a essere, almeno inconsciamente, ricusata.
In realtà, la loro correlazione si oppone alla soppressione di uno dei termini: ogni impegno ad avvalorare correttamente la funzione di pastore implica ed esige che si avvalori contestualmente l’appartenenza al gregge di Dio.
Anche qui si tratta, in fondo, di superare le prospettive mondane per riprendere la semplicità e l’autenticità della visione evangelica.
4. L’appartenenza al gregge
Dobbiamo riscoprire alcune verità originarie, che (proprio per la loro essenzialità) rischiano di sbiadire un po’ nella coscienza ecclesiale, distratta da altre preoccupazioni.
Il titolo più alto della nostra dignità (quale che sia la nostra posizione nella gerarchia ecclesiale) è quello che ci proviene dal fatto di essere annoverati nel gregge di Dio. Questa è la nostra fortuna, la ragione più autentica della nostra nobiltà, il fondamento della nostra speranza.
Le prerogative di qualsivoglia altra funzione (gerarchica, ministeriale, carismatica) non sono paragonabili alla ricchezza ontologica, al valore salvifico, alle garanzie escatologiche che ci vengono dalla nostra condizione di pecore del Signore.
5. La dignità e la gioia di essere “pecore”
Tutti nella Chiesa sono prima di ogni altra cosa appartenenti all’ovile di Cristo. Tutti, dal papa al più recente dei battezzati, possiedono il motivo vero della loro grandezza non tanto nel venire caricati di questo o quel compito nella comunità cristiana, quanto nell’essere parte del «piccolo gregge», che non deve temere perché al Padre è piaciuto di dargli il Regno (cfr. Le 12,32). C’è dunque una sostanziale parità di tutti i credenti, più rilevante e decisiva di ogni altra specificazione ecclesiale, purché davvero credano: solo credendo si entra tra le pecore di Cristo (cfr. Gv 10,26).
Questa è anche la principale fonte della nostra gioia. Noi eravamo erranti come pecore senza pastore, ma il Signore ha avuto misericordia di noi, del nostro sbandamento (cfr. Me 6,34), della nostra sfinitezza (cfr. Mi 9,36) e ci ha radunati. E noi siamo tornati al «Pastore e custode delle nostre anime» (cfr. 1 Pt 2,25), e abbiamo con lui una strettissima intimità.
Egli, che ha offerto la sua vita per noi (cfr. Gv 10,15), ci conosce (cfr. Gv 10,14) e ci chiama per nome a uno a uno (cfr. Gv 10,3). Cammina innanzi a noi, e noi lo seguiamo perché conosciamo la sua voce (cfr. Gv 10,4).
6. Ladri e lupi
Gesù poi ci mette in guardia da una visione troppo idilliaca, da un’idea arcadicamente serena della vita pastorale, e ci ricorda che esistono, e sono sempre attive, le forze del male. Le sue pecore non devono dimenticare che esistono i ladri (Gv 10,10: «il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere») ed esistono i lupi. Anzi ci dice senza mezzi termini che il suo gregge vive in mezzo ai lupi (cfr. Mt 10,16; Le 10,3), i quali tentano sempre di rapire e disperdere gli agnelli di Dio (cfr. Gv 10,12).
Questi lupi non sono solo esterni al gregge; si possono trovare anche tra noi «in veste di pecore» (Mt 7,15). A questo proposito san Paolo non esita a parlare in termini espliciti di «falsi apostoli, lavoratori fraudolenti che si mascherano da apostoli di Cristo» (cfr. 2 Cor 11,13); e aggiunge: «Ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si maschera da angelo di luce» (v. 14).
Tuttavia il Signore ci dà anche la base su cui poggiare la nostra speranza, e cioè l’onnipotenza salvatrice di Dio: «Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre mio» (Gv 10,29).
7. Siamo tutti pecore
“Siamo tutti Chiesa”, ci tengono giustamente a dire i battezzati di tutte le condizioni, anche quelli che in nessun modo appartengono alla gerarchia né fanno parte di un ordine o di una congregazione religiosa. Allo stesso modo e con uguale verità, diaconi, presbiteri, vescovi, cardinali, papi, devono riconoscere e proclamare con entusiasmo: “Siamo tutti pecore”. Sono tutti pecore in virtù dell’identico battesimo che hanno ricevuto e non si estingue più.
Siamo tutti ugualmente pecore, ma non siamo tutti ugual- 'mente pastori. Dobbiamo tutti capire e riconoscere la struttura inalienabile che il Signore ha voluto dare al suo «piccolo gregge». Questa struttura comporta che ci siano dei pastori, cioè delle “guide” di un gregge, il quale perciò deve essere “guidato”.
L’implicazione ovvia e irrinunciabile dell’immagine bucolica (che il Signore ci ha lasciato per la comprensione della sua Chiesa) è che di solito - per quel che attiene alla vita propria del «gregge» come tale - siano le pecore a seguire i pastori e non i pastori a lasciarsi dirigere dalle pecore.»
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