Dai fulmini ai corvi in Vaticano L'avvertimento scende dal cielo
Diversi episodi recenti potrebbero esser letti come inquietanti segni profetici. Ma a scorrere le antiche tradizioni non è così detto che si tratti di auspici negativi
Ho fatto tutte le scuole presso l’istituto Pio IX di Roma,
fondato dall’omonimo Papa nel 1859, ubicato in via della Conciliazione a
duecento metri da San Pietro, perciò credo di avere una certa dimestichezza con
le strategie comunicative, non sempre chiarissime, dall’alto. Beninteso, non ho
quello che san Tommaso chiamava “lume profetico”, quindi non posso dire di
azzeccarci, e però anche per un certo personale interesse per le questioni
esoteriche e oscure, qualche ipotesi la posso avanzare.
Ma prima mettiamo insieme i fatti, cioè i segni che per gli
scettici non sono che manifestazioni meteorologiche o delinquenziali. Il giorno
in cui vennero annunciate le
dimissioni di Ratzinger, un fulmine colpì la cupola di San Pietro, per la
precisione quella che in architettura si chiama lanterna, la sommità, dov’è la
sfera sormontata dalla croce. La foto è oltremodo suggestiva perché
dall’interno delle finestre della basilica emana un bagliore sinistro, come se
vi divampasse un incendio. Poi, un violento nubifragio si abbatte su Rio de
Janeiro e un
fulmine colpisce la statua del Cristo Redentore sul Corcovado, il
monte antistante la baia di Rio, danneggiando la testa e due dita. La foto
della saetta che colpisce il Cristo sembra ispirata alle pagine dell’Apocalisse
di Giovanni: «Le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra, come quando un
fico, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i fichi immaturi. Il cielo si ritirò
come un rotolo che si involge e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro
posto». Questa domenica, al termine dell’Angelus, la
colomba fatta librare da papa Francesco è finita preda di una cornacchia e un
gabbiano. E poi, ieri, la scoperta che qualche notte fa ignoti hanno rubato
l’ampolla con il sangue di Giovanni Paolo II, custodita in un piccolo santuario
di montagna, San Pietro della Ienca, ai piedi del Gran Sasso. Con la reliquia,
un pezzo di stoffa imbevuto del sangue di Wojtyla sprizzato durante l’attentato
del killer turco Ali Agca nel 1981, i ladri hanno sottratto anche un crocifisso
di nessun valore, il che fa pensare che non avessero in mente di far soldi, ma
di realizzare qualche disegno blasfemo.
Il calendario suggerisce alcune piste: giusto ieri, quando è
stato scoperto il furto, era il giorno della memoria per le vittime della
Shoah, il che ha fatto pensare all’azione di satanisti che volessero infangare
col loro gesto la raccolta meditazione su quell’innominabile catastrofe. I
sostenitori di questa tesi ricordano anche che dal 25 al 29 gennaio gli adepti
del principe di questo mondo evocano il demone Volac, per prepararsi alla data
del 2 febbraio, la Candelora dei cattolici, che al contrario nell’anno
liturgico satanico corrisponde al giorno dell’iniziazione dei nuovi adepti, e
non è da escludersi che in qualcuno di questi riti iniziatici possa essere
impiegato il sangue trafugato proprio a quello scopo. Va ricordato anche
che l’Angelo caduto, Lucifero, ha nel suo nome il significato di “portatore di
luce”, e nella Candelora si benedicono le luci delle candele, simbolo del
Cristo-Luce.
Ma attenzione, perché a questo punto, proprio come le saette
fotografate sopra il Cristo Redentore, le possibili letture si biforcano, anzi,
si ramificano con la prolifica complessità di ogni religione, mitologia,
metafisica. Lasciando da parte per un attimo il furto del sangue di Wojtyla,
spiegabile come ingrediente di un rito satanico per le iniziazioni di nuovi
servi di Lucifero, torniamo alle saette. Non è detto che siano segni per forza
ostili. Noi occidentali siamo abituati a associare il fulmine all’ira di Zeus
tonante, e di Dio. Ma per altre civiltà, come quelle precolombiane, indagate
dallo storico dell’arte Aby Warburg, il fulmine era benefico, perché voleva
dire pioggia, dunque fertilità, in colture spesso rese sterili dalla siccità.
Il fulmine, presso quei popoli, veniva persino addomesticato con il rituale del
serpente, laddove il rettile riproduceva, simbolicamente, la sua guizzante
forma. La colomba dell’Angelus è un simbolo pasquale, di rinascita, così la sua
morte nelle grinfie del gabbiano, cristianamente, non può essere considerata
definitiva. Eppure non può sfuggire che, collegati, questi segni danno l’idea
non certo di una redenzione compromessa, perché la storia cristiana deve
sboccare nella liberazione («egli si salverà - dice San Paolo nella Prima
Lettera ai Corinzi, parlando del peccatore - però come attraverso il fuoco») ma
di una strettoia dei tempi, di un’angoscia, di una spossatezza. Che sarà
superata, com’è cosmicamente inevitabile, ma solo raffinandosi tra le fiamme.
Con un colomba più arguta e agile. Una statua del Cristo più solida.
Rinsanguando le reliquie scempiate dai satanisti.
Nelle mitologie come nei racconti dell’orrore e del
soprannaturale, da H.P. Lovecraft a King, si apre sempre un varco alle forze
del Male, nasce un’evocazione, che fatalmente si richiude e sancisce la sconfitta
del principio distruttore. Nemmeno la fisica contemporanea crede più a un
universo destinato alla morte per entropia, parla di infiniti cicli di infiniti
universi che muoiono e rinascono. Forse, questi che abbiamo descritti, noi li
crediamo segni malvagi, ma in realtà non sono che la visione confusa, incerta,
di ciò che un giorno vedremo chiaramente, faccia a faccia.
di Giordano Tedoldi
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