“Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto
perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da
parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta,
cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E
anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche
Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ora quando vidi che non
si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in
presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla
maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei
Giudei?” [Gal 2,11-14]
Questo brano della lettera di san Paolo ai Galati oggi verrebbe
censurato dai nostri cari vaticanisti. Il motivo? San Paolo osa criticare
Pietro. E la damnatio memoriae su tutti coloro che osano sollevare riserve,
domande e critiche al Successore di san Pietro, cade inesorabile dal 13 marzo
scorso. Perché la cosa buffa (voglio essere gentile) è che per gli otto anni
del pontificato benedettiano la critica, anche aspra, cattiva e infondata, era
un dovere di tutti e doveva trovare spazio sui media nazionali perché
altrimenti significava essere servi del padrone Ratzinger, così cattivo,
anacronistico, medievale e inquisitore, che da buon dittatore quale i media
(soprattutto cattolica) lo hanno fatto passare, doveva avere al suo servizio
tutta la stampa. Tanto che dalla legittima critica si è passati alla
cattiveria, alla crudeltà, alla persecuzione e all’infamante costruzione di
un’immagine mediaticamente pessima, tanto che hanno portato Benedetto XVI a
prendere la strada dell’abdicazione (faccio fatica a credere che il motivo sia
solo quello delle energie che vengono meno). La Provvidenza, che sa essere
molto spiritosa, si diverte con noi uomini e, su piani che a me spesso tolgono
il fiato per quanto mi terrorizzano, con l’elezione di Bergoglio a Successore
di san Pietro le cose si sono miracolosamente ribaltate. Ora è da scomunica
sollevare domande sull’operato di Francesco, anche dissentire su cose opinabili
rischia di portare direttamente ad un processo mediatico che non viene
celebrato per il semplice motivo che meno spazio si dà ai critici meglio è. Il
sospetto che si abbia paura delle loro ragioni e che si sia incapaci di
rispondervi mi viene ed è più che fondato. I normalisti, quelli per cui
qualsiasi cosa fa Francesco deve
essere buona perché è questo Papa a
farla, sostengono quindi che avere delle perplessità nei confronti del
Pontefice è da cattivoni. San Paolo e Dante Alighieri (che alcuni papi li
spediva all’Inferno senza troppo penare), concludo, sono da annoverare tra
questi mali del cattolicesimo. Buono a sapersi. È consolante essere in
compagnia di un santo (e che santo!) e di un poeta (sommo).
Negli otto anni in cui il Papa
era Benedetto i nostri santissimi preti, vescovi, cardinali e vaticanisti
facevano la gara a chi aveva il silenzio più pesante per difendere Ratzinger.
Dal 13 marzo è un profluvio di elogi, a volte che rasentano il ridicolo e il
patetico, su quanto è bello Papa Francesco, su quanto è evangelico, innovativo,
moderno, dolce, zuccheroso, buono, eccetera.
Ma, aldilà dell’inconsistenza
virile del nostro clero e della nostra stampa cattolica (i giornalisti mondani
fano il loro lavoro egregiamente), la domanda rimane: si può dissentire da
quanto il Papa dice e/o fa? La risposta, se si prende la Sacra Scrittura è: sì.
Questo non vuol dire che chiunque, me compreso, solo perché forse (e dico
forse) sa mettere tre parole in fila può permettersi di criticare il Papa.
Perché, che piaccia o no, Egli è sempre il Successore di san Pietro, il Capo
visibile della Chiesa, il Vicario di Cristo, il Sommo Pontefice. Anche se
preferisce chiamarsi vescovo di Roma. Il Papa, non essendo certo il presidente
del consiglio dei vescovi, non è tantomeno un dittatore assoluto. Anche Lui
deve sottostare a Qualcuno. Papa Benedetto lo ha ripetuto più e più volte.
C’è una precisazione da fare: il
magistero del Papa non impegna il cattolico tutto allo stesso modo. Ci sono i
pronunciamenti infallibili, quelli dogmatici, che richiedono un’obbedienza
totale. Poi ci sono quelli non infallibili (senza entrare troppo nel merito)
che seppur meritevoli di rispetto filiale perché pronunciati dal Trono più alto,
non godendo del carisma dell’infallibilità, non richiedono l’obbedienza totale.
E di questo, sempre in maniera rispettosa, si può dissentire.
Oggi viviamo in un mondo e in
una Chiesa molto stramba (che se sta ancora in piedi è la dimostrazione che c’è
un Dio dietro che la regge nonostante l’impegno, il magistero e la pastorale
dei suoi ministri): si pretende l’obbedienza totale alle scarpe nere, al
bagaglio a mano, alla croce pettorale d’argento e a tutto il resto, trascurando
l’obbedienza verso i dogmi del Sacrificio della Messa, del Filioque o
dell’esistenza dell’Inferno.
Il Papa è e deve essere il
custode di queste verità, non deve inventarsene una di maggior gradimento per
il pubblico affidatogli. Se, è un’eventualità prevista e nella storia è
capitato, un Papa dovesse proporre una sua teoria piuttosto che la verità
dogmatizzata, il cattolico deve dissentire dal Pontefice e continuare a credere
ciò che la Chiesa ha sempre creduto. Perché il principio di san Vincenzo di
Lerino (ne abbiamo parlato in qualche post precedente) «Magnopere curandum est ut id teneatur quod ubique, quod semper, quod
ab omnibus creditum est» (Bisogna
soprattutto preoccuparsi perché sia conservato ciò che in ogni luogo, sempre e
da tutti è stato creduto) non è cambiato. Ciò che la Chiesa ha creduto
duemila anni fa, mille o sessanta anni fa, lo deve credere ancora oggi
(fateglielo sapere a chi mette la storia della Chiesa tra parentesi, please).
Perché la verità sta, è, non muta. Perché se la verità mutasse allora potrebbe
anche accadere che domani un cattolico non sia più tenuto a credere che Cristo
è risorto. È palese quanto sia pericolosa, quanto assurda, tale possibilità.
Espone benissimo, e in maniera
sintetica, Enrico Maria Radaelli, nella sua postfazione allo Zibaldone di Romano Amerio: “Il parallelo con i gesti e gli insegnamenti
che vorrebbero essere "solo" pratici tenuti dai Papi più recenti si
fa palmare: «Perché costringi i Gentili - dice Paolo - a far come i Giudei?» E
così pure Amerio: Iota unum e Stat Veritas, i due libri su cui si accentrano le
critiche alla sua critica e dunque a ciò che secondo i «neoterici» parrebbe in
tutto una inaccettabile disobbedienza, sono in verità sostanzialmente due
"domande", due circostanziate e argomentate domande al Trono più alto,
a Pietro, ossia ai Papi Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II, che
possono riassumersi così: «Perché costringi i Cattolici a fare come i
Protestanti, come gli Ebrei, come gli Islamici, come i relativisti, gli
scettici e i soggettivisti, insomma come la cultura liberale e laicista
dominante, cioè a fare come il mondo, con atti e dottrine non dogmatizzabili,
né seguenti il magistero ordinario, ma - nascosti sotto il più permissivo
carisma "pastorale" - ambigui, equivoci, come quelli del tuo ambiguo,
equivoco comportamento ad Antiochia, e non mai chiariti da limpidi argomenti
formulati in verità teologiche definitive, chiarissime e sicure nel dogma?».”
[E. M. Radaelli – La soprannaturale armonia tra intelletto e realtà
(postfazione a Zibaldone di R. Amerio)]
I cattolici oggi vivono nella
confusione. Noi cattolici che solleviamo domande al Papa lo facciamo non perché
ci consideriamo migliori di Lui, altrimenti avremmo già abbandonato la Chiesa
cattolica e ci saremmo formati una setta a nostro uso e consumo, ma perché
riconosciamo in Lui il Capo e il Pastore, l’unico che detiene il diritto, il
dovere e il potere di dirci ciò che è vero e ciò che non lo è. Se fino a
cinquant’anni fa si credeva fermamente che la Messa è il Sacrificio di Cristo e
oggi si crede fermamente che essa è una cena (tanto per fare un esempio),
qualche problema c’è. Se il parlare del Successore di san Pietro, che a volte è
più un tacere su certe verità, permette il dilagare di tante eresie (perché di
questo si tratta) il cattolico vive un dramma. Qualche cosa che non va c’è. E
non cerca di risolversi la faccenda da solo creandosi un movimento con la
propria autorità, la propria dottrina e la propria liturgia, ma chiede
insistentemente al proprio Pastore di usare il bastone, di usare il fuoco del
Dogma che brucia tutta la paglia delle banalità (eresie) su cui dormono da
troppo tempo vescovi, preti e fedeli loro affidati.
“Oggi invece i vescovi tralasciano la dottrina ai teologi, nascondendo
l’ignoranza dietro “preoccupazioni pastorali”, in conformità al principio
prevalente in ogni campo, per il quale tutto oggi è politica, tutto è atto,
tutto è carità: la teologia si è versata nel sociale e nel pastorale, la
metafisica si è tramutata in sociologia e in psicologia. Vescovi ferrati in dottrina,
preparati in “teologia fonda- mentale”, esperti nella scienza richiesta dalla
fede, sono rari come i filosofi che sanno la metafisica, la logica, la
teoretica. Sicché i vescovi abdicano per i teologi, i teologi opinano secondo
le convenienze, i filosofi pascolano nella politica, e tutti si sperdono dietro
preoccupazioni e interessi che di purezza teoretica non hanno più niente. E
anche i movimenti cattolici popolari seguono la stessa sorte: da Comunione e
Liberazione ai Focolarini, dai Neocatecumenali ai Carismatici, tutti si volgono
(ma non convertono) “alla verità che è Cristo”, tutti si appellano
“all'avvenimento di Cristo”, privilegiando così i sentimenti, gli affetti, le
passioni, gli atti di amore, e scavalcando la durezza dell’insegnamento dogmatico,
le difficoltà della verità, le spine dell’obbedienza, la repulsione della
propria anche umiliante correzione. Questi movimenti sono tutti di Galati
giudaizzanti, più inclini ai fasti della religiosità che alla verga del Verbo
che compelle gelosamente la ragione a sceglierlo preferendolo persino alla
libertà - come san Paolo preferì - se necessario.” [E. M. Radaelli – Romano
Amerio. Della verità e dell’amore]
Non abbiamo paura del Dogma, sia
che a ricorrervi sia Ratzinger, Bergoglio, Pacelli o Roncalli. L’importante è
che chi siede su quel Trono (che non è una sedia o una poltrona) lo usi. Perché
il Dogma colma anche le debolezze e le imperfezioni umane di chi su quel Trono
siede, sia che sia tedesco, argentino, romano o bergamasco.
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