Giovanni XXIII: un Papa “imprudente” che “tradì il suo Concilio”. Intervista al prof. Roberto de Mattei
Riportiamo il testo di un’intervista rilasciata dal prof. Roberto de Mattei a Maurizio Crippa, su “Il Foglio “ del 26 aprile 2014.
In una sua recente intervista al mensile Catholic Family News Lei ha sostenuto che in materia di canonizzazioni la Chiesa non è infallibile e che dunque quella di Roncalli è legittimamente criticabile, perché il pontificato di Giovanni XXIII ha rappresentato un “oggettivo danno alla chiesa”. Ci riassume in poche parole la questione dell’infallibilità?
La canonizzazione di un Papa implica la sua santità non solo nella vita privata, ma anche nella vita pubblica, ovvero l’esercizio eroico delle virtù nel munus che gli è proprio, quello di Sommo Pontefice. Come autore di un storia del Concilio Vaticano II, ho studiato il breve pontificato di Giovanni XXIII, dal 28 ottobre 1958 alla sua morte, il 3 giugno 1963, e sono convinto che egli non abbia esercitato le virtù cristiane in modo eroico, a cominciare dalla virtù della prudenza. Questo pone naturalmente un problema, dal momento che si parla di infallibilità delle canonizzazioni. Alcuni tradizionalisti pretendono di risolvere la questione in maniera semplicistica: dal momento che Giovanni XXIII non fu un buon Papa e viene canonizzato, vuol dire che chi oggi lo canonizza non è un vero Papa. Io sono lontano da questa posizione. L’infallibilità delle canonizzazioni è una tesi maggioritaria tra i teologi, ma non è un dogma di fede, e può essere legittimamente tenuta l’opinione contraria. E’ invece dogma di fede che non può esservi contraddizione tra la fede e la ragione. Un’analisi oggettivamente razionale dei fatti dimostra la mancanza di eroicità di virtù di Papa Roncalli. Se, per fideismo, dovessi negare ciò che impone la ragione, reciderei i fondamenti razionali della mia fede. Mantengo dunque, in coscienza, i miei dubbi e le mie perplessità sulla canonizzazione di Giovanni XXIII.
Padre Lombardi nella sua conferenza stampa del 22 aprile ha dichiarato che negare l’infallibilità delle canonizzazioni significa ritenere che i Papi canonizzati siano all’inferno.
Credo che si trattasse di una battuta da parte di padre Lombardi. E’ evidente infatti che non essere elevato alla gloria degli altari non significa andare all’inferno, Dovremmo credere altrimenti che ben pochi tra i Papi e ancor meno tra i fedeli si salvino! Solo Dio conosce la sorte ultraterrena delle anime. Ciò su cui io avanzo dei dubbi non è la salvezza eterna di Giovanni XXIII, ma l’eroicità delle sue virtù nel governare la Chiesa. Aggiungo che negare l’infallibilità delle canonizzazioni non significa affermare che esse siano in generale false od errate. Io ritengo al contrario che la Chiesa non sbagli quando proclama i santi e i beati, ma che vi possono essere casi concreti eccezionali, che non contraddicono la regola. E oggi viviamo in un momento eccezionale della storia della Chiesa.
L’oggettivo “danno alla chiesa” provocato da Papa Angelo Roncalli di cui ha parlato nell’intervista citata al Catholic Family News è secondo Lei unicamente riassumibile nella convocazione del Vaticano II con quel che ne è conseguito per la Chiesa universale, o c’è dell’altro? Sul Corriere della Sera di qualche giorno fa il filosofo statunitense Michael Novak, non proprio un cattolico progressista, ad esempio ha tracciato un profilo lusinghiero della santità personale di Roncalli, sottolineando che “la forza spirituale di Papa Giovanni fu una costante della sua vita e fu avvertita dai Padri Conciliari anche durante la Seconda sessione del Concilio, successiva alla sua scomparsa”. E il suo lavoro precedente come diplomatico del Vaticano è generalmente apprezzato dagli storici. Oppure anche la “Pacem in terris”, l’enciclica del 1963 che affronta temi per così dire non dottrinali, ma di natura storico-politca, in un momento cruciale di snodo geopolitico, al punto di svolta della Guerra Fredda, va annoverata tra i “danni oggettivi” del pontificato?
Lasciamo stare la “santità personale” di Roncalli, su cui mi permetto nutrire forti dubbi e partiamo dal Concilio Vaticano II. L’indizione di una assemblea di tale vasta portata era una decisione che non poteva essere presa affrettatamente, ma che presupponeva profonde riflessioni e ampia consultazione. Così era accaduto quando Pio IX aveva deciso di convocare il Concilio Vaticano I e quando Pio XI e Pio XII avevano esaminato la possibilità di riprenderne i lavori, per poi entrambi accantonare l’ipotesi. Così invece non fu per Giovanni XXIII, che annunciò inaspettatamente la convocazione del Concilio, solo tre mesi dopo la sua elezione, senza averne parlato con nessuno. Egli era convinto poi che il Concilio avrebbe risolto in pochi mesi alcune questioni puramente pastorali. “A Natale possiamo concludere!” disse al cardinale Felici, alla vigilia dell’apertura. Ciò dimostra, come minimo, una mancanza di lungimiranza. Il Concilio Vaticano II si rivelò poi, al di là delle intenzioni del Pontefice, una oggettiva catastrofe in molti campi. Mi limiterò a citarne uno: la mancata condanna del comunismo. Un Concilio che voleva essere pastorale tacque sul problema più drammatico della sua epoca: l’imperialismo sovietico che minacciava il mondo. Mentre Mosca installava i suoi missili a Cuba e veniva innalzato il muro di Berlino nel cuore d’Europa, Giovanni XXIII nell’estate del 1962, attraverso il cardinale Tisserant, stipulava un accordo con il patriarcato di Mosca, impegnandosi a non parlare del comunismo in Concilio. L’ultima enciclica di Giovanni XXIII, la Pacem in Terris del 9 aprile 1963, aprì la porta ad una collaborazione tra cattolici e comunisti. Essa giungeva all’indomani dell’udienza personale concessa dal Papa ad Alexej Adjubei, direttore dell’“Izvestia”, ma soprattutto genero di Krusciov e suo privato ambasciatore. Questo incontro non portò ad alcuna conclusione sostanziale, ma ebbe uno straordinario impatto mediatico. In Italia, le elezioni del 28 aprile 1963 videro una forte avanzata del Partito comunista e un altrettanto significativo regresso della Democrazia cristiana. Per i comunisti, Papa Giovanni era il “Papa buono” e il Vaticano II era identificato con il “Concilio della pace”. Non mi sembra che neppure in questo caso Giovanni XXIII abbia eroicamente esercitato la virtù della prudenza e, nel caso delle canonizzazioni, le virtù eroiche devono essere tutte, non possono essere scelte selettivamente.
Vi sono altri elementi che possano a suo parere inficiare la santità di Papa Roncalli?
Nel suo pontificato Giovanni XXIII non dimostrò grande spirito soprannaturale. Ricordo due episodi. Il primo è il suo rifiuto di far conoscere al mondo il Terzo segreto di Fatima, malgrado le richieste della Madonna a suor Lucia. Giovanni XXIII ne prese conoscenza nell’estate del 1959, ma preferì non divulgarlo. Papa Roncalli giudicò di rinviare la diffusione del testo perché c’era un contrasto stridente tra il Messaggio apocalittico di Fatima e l’ottimismo con cui egli si apprestava ad inaugurare il Concilio Vaticano II. Il secondo episodio è l’incomprensione per la figura spirituale di padre Pio da Pietrelcina, poi beatificato e canonizzato da Giovanni Paolo II. Padre Pio subì nel corso della sua vita numerose incomprensioni e calunnie, per le quali dovette subire umilianti ispezioni canoniche. Tra di esse vi fu quella promossa da Giovanni XXIII, che dal 13 luglio al 2 ottobre 1960 inviò, come visitatore apostolico a San Giovanni Rotondo, mons. Carlo Maccari, allora Segretario del Vicariato di Roma. Quel periodo sarà ricordato come quello di più dura persecuzione nei confronti del santo di Pietrelcina. Giovanni XXIII non comprese mai la santità di padre Pio.
Il cardinale Siri ne ricorda una battuta quando fu eletto: “Io di questioni dottrinali non mi occuperò, perché ha già fatto tutto Pio XII”. Secondo lei non ha tenuto fede all’impegno? Nel caso, che cosa ha “modificato” di essenziale nella dottrina cattolica?
Questa battuta mi ricorda quella di Papa Francesco, secondo cui non avrebbe mai compreso l’espressione “valori non negoziabili”. Sono frasi pericolose perché sembrano accreditare il primato della prassi sulla dottrina. Giovanni XXIII non modificò la dottrina cattolica, ma la prassi pastorale. Ma la modificazione della prassi comporta inevitabilmente un’alterazione della dottrina. Ne è una riprova il rapporto del cardinale Kasper all’ultimo Concistoro straordinario. La tesi di Kasper è che poiché, in tema di divorziati risposati, esiste un abisso tra la dottrina della Chiesa e la pratica morale dei cattolici, occorre adeguare la dottrina al comportamento oggi diffuso. Questo principio dell’adattamento della prassi è in nuce nel discorso Gaudet mater Ecclesiae, con cui l’11 ottobre 1962 Giovanni XXIII inaugurò il Concilio Vaticano II.
Un aspetto sempre taciuto di Roncalli è ad esempio che, non proprio progressista, credeva fermamente nella centralità del latino e nella liturgia forgiata sul canto gregoriano. La sua Costituzione apostolica “Veterum sapientia” del 1962 su questi temi dovrebbe piacerle. Poi cos’è successo? E se, al contrario di quanto ripetono i “bolognesi” (grosso modo: il Concilio di Roncalli “tradito” in senso anti progressista da Montini), fosse stato il contrario? Il Concilio “pacelliano” tradito in seguito dai progressisti?
Giovanni XXIII, senza essere un conservatore aveva indubbiamente una sensibilità conservatrice e non amava le riforme liturgiche che mons, Annibale Bugnini aveva già inziato a promuovere sotto il pontificato di Pio XII. La costituzione apostolica Veterum sapientia del 22 febbraio 1962 costituì una ferma e inaspettata risposta ai fautori dell’introduzione del volgare nella liturgia. In questo documento Giovanni XXIII sottolineava l’importanza dell’uso del latino, “lingua viva della Chiesa”, raccomandava che le più importanti discipline ecclesiastiche dovessero essere insegnate in latino (n. 5) e che a tutti i ministri della Chiesa Cattolica, del clero sia secolare che regolare, fosse imposto “lo studio e l’uso della lingua latina”. Con questi provvedimenti Giovanni XXIII si mostrava chiaramente scontento dell’indirizzo preso dalla Commissione liturgica. Ma poi Giovanni XXIII nulla fece per vigilare sull’applicazione di tale documento che, si può dire, evaporò nel nulla.
Insomma Lei ritorna al suo giudizio di quantomeno “imprudenza” di Roncalli nell’avvio e nella gestione del processo conciliare. Eppure, da un punto di vista storico va ricordato un aspetto cruciale di continuità con un perocrso già iniziato nella Chiesa e anche indirizzato da Pio XII. Eì un fatto che la “Mystici Corporis2 di Pacelli sia considerata la base su cui poggerà la costituzione dogmatica “Lumen Gentium”. E’ un altro fatto che fu la “Divino Afflante Spiritu”, anno 1943, a dare impulso agli studi storico-critici delle Scritture che tanta parte avranno nel Vaticano II, e pure in certi rischi di ‘protestantizzazione’ del cattolicesimo. Anche la riforma liturgica che arriverà con la costituzione conciliare “Sacrosanctum Concilium” fu stimolata da Pio XII, estremamente sensibile, come si sa, alla materia. Dunque l’”imprudenza” di Roncalli non nasce proprio dal nulla. Poi che cosa è successo a suo avviso?
E’ evidente che esiste una continuità, o una coerenza, tra certe riflessioni già impostate da Pio XII e il punto di partenza di Roncalli. E c’è continuità nel lavoro di elaborazione degli “Schemi preparatori” del Concilio. Il problema è che tutto questo si interrompe non ‘dopo’ o a metà Concilio, ma subito. Quando si parla di ‘tradimento’ del Concilio va detto che ciò che fu tradito fu il Concilio preparato dalle commissioni romane, i cui schemi di costituzione, approvati dallo stesso papa Roncalli, furono buttati a mare, con un vero e proprio colpo di mano, nell’ottobre del 1962, all’indomani dell’inaugurazione dell’assemblea. Fu Giovanni XXIII a tradire, per primo, il suo Concilio. (di Maurizio Crippa su Il Foglio del 26/04/2014)
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