Nel portale di Santa Sabina, per la prima volta, compare il dramma del Dio-uomo crocifisso
La morte di Gesù sulla croce è, per i cristiani, il momento centrale della sua missione di salvezza; e tuttavia una invincibile, anche ben comprensibile, ripugnanza, li ha trattenuti per ben tre secoli dal rappresentare tale evento in modo esplicito, per poi farlo in maniera graduale, dapprima fortemente stilizzata e simbolica e poi, via via, sempre più realistica.
La morte in croce era considerata come la più avvilente, la più disonorevole delle morti: quella riservata ai peggiori criminali ed agli schiavi fuggiaschi. L’idea che un capo religioso fosse stato giustiziato in tal modo gettava, inesorabilmente, un’ombra di discredito sulla sua predicazione; se, poi, non si trattava di un semplice capo o guida religiosa, ma di un essere che i suoi discepoli consideravano Dio stesso, incarnato e fattosi uomo, la cosa diventava estremamente difficile da accettare e, di conseguenza, anche da raffigurare: poteva infatti sembrare una cosa intollerabilmente scandalosa e tale da mettere alquanto a disagio i fedeli.
Per circa trecento anni, i cristiani si astennero dal rappresentare Gesù in croce e per altri duecento non risulta che lo raffigurassero mai, sulla croce, come un morto. Gesù in croce, nelle prime testimonianze artistiche che possediamo, appare vivo e circonfuso di gloria: veste una lunga tunica (perché sarebbe irrispettoso rappresentarlo nudo) e non mostra segni di sofferenza; la sua fronte, i suoi polsi e i suoi piedi non sanguinano; le sue braccia allargate sembrano protese in un gesto di preghiera, non di costrizione; il suo sguardo è fermo e sereno: pare che voglia abbracciare il mondo nel mistero ineffabile del suo amore e della sua divinità.
All’inizio, erano stati i nemici del cristianesimo a raffigurare il Crocifisso, ovviamente con intento blasfemo: così, ad esempio, nell’ormai famoso graffito di Alexamenos, sul Palatino, variamente databile fra il I e il III secolo, nel quale si vede un cristiano di fronte a un personaggio posto sulla croce, con figura antropomorfa e testa d’asino, il tutto accompagnato dalla scritta irridente e oltraggiosa: «Alexamenos adora il suo Dio». Del resto, i cristiani delle prime generazioni erano piuttosto restii a raffigurare Dio in forma umana, non solo sulla croce, almeno per quanto riguarda la decorazione delle chiese (altro discorso va fatto per le catacombe); nel canone 36 del Concilio di Elvira (il nome di Granada prima della conquista araba), del 306, si ribadisce tale perplessità, sconsigliando la raffigurazione, sui muri degli edifici sacri, di ciò che non può essere venerato se non in forma puramente spirituale («Placuit picturas in ecclesia esse non debere, ne quod colitur et adorabitur in parietibus depingatur»).
Ed ecco che verso la metà del V secolo, sul portale ligneo della bellissima basilica di Santa Sabina, sul colle Aventino, compare la prima, o una delle primissime, raffigurazioni di Cristo in croce: un Cristo vivo, affiancato dai due ladroni, dalla postura composta e quasi ieratica, opera di un intagliatore di formazione popolare, ben diverso dall’autore dei bassorilievi di altri pannelli dello stesso portale, che si esprime nelle forme di un artista colto. Anche qui si riflette il dualismo della società e della cultura romana, già evidentissimo nella diversa parlata delle classi popolari e delle persone di rango (il “sermo plebeius” e il “sermo nobilis”), quasi due differenti lingue che avranno diversi destini: sfociando nelle forme dell’italiano volgare il primo, venendo studiato e ripristinato dagli Umanisti, dieci secoli dopo, il secondo.
Bisogna notare, comunque, che la croce e il Crocifisso non sono, né rappresentano la medesima cosa: la prima è il simbolo della morte di Gesù, ma anche della redenzione dell’umanità e, dunque, sta a significare la totalità del messaggio cristiano; il secondo è la rappresentazione della morte di Gesù in quanto Figlio di Dio, dunque nella sua dimensione umana. La croce diviene il simbolo del Cristianesimo solo a partire dall’età di Costantino, ossia da quando Elena, la madre dell’imperatore, durante un pellegrinaggio a Gerusalemme, rinviene la preziosa reliquia. Fino a quel momento, e ancora per un po’ di tempo, gli artisti cristiani avevano preferito servirsi di immagini fortemente simboliche, dal pesce al gallo, al pavone, per non parlare del monogramma “chi-ro”, tratto dalle prime lettere greche del nome di Cristo (il pesce, ad esempio, viene dal fatto che «ichthys», la traslitterazione in caratteri latini del greco «Ἰχϑύς», pesce, è a sua volta l’acronimo della formula greca: «Gesù Cristo, Figlio di Dio Salvatore». Tra parentesi, fu il monogramma con la “X” e la “P” sovrapposte (iniziali di «Cristo»), forse, il simbolo posto sui labari dell’esercito costantiniano alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio contro il pagano Massenzio, dopo che Costantino aveva avuto la famosa visione narrata da Eusebio di Cesarea: «in hoc signo vinces», se pure non fu un più generico simbolo del culto solare; e non certo la croce.
Passeranno, comunque, quasi altri cinquecento anni prima che un artista cristiano si azzardi a raffigurare Gesù morto sulla croce, il che accade a partire dal X secolo; e altri secoli ancora, prima che la raffigurazione del Crocifisso assuma quei connotati di realismo che evidenziano, in maniera cruda e, talvolta, perfino esasperata, la sofferenza di Gesù in agonia. In ogni caso, è solo a partire da San Francesco che si instaurerà l’uso di pregare davanti al Crocifisso e di confessare la propria condizione di peccatori davanti a Colui che, morendo proprio di quella morte atroce e socialmente disonorevole, ha cancellato i peccati degli uomini.
La raffigurazione della morte di Gesù in croce, quindi, ha richiesto un lungo processo di elaborazione concettuale, spirituale ed estetica, nel corso del quale le diverse sensibilità dei popoli e delle culture convertiti al cristianesimo si sono espressi, come è logico, in maniera differente. Nei Paesi di lingua greca e di rito ortodosso, Cristo mantiene sempre una sua distaccata solennità; in quelli di cultura latina, la sua umanità viene accentuata mano a mano che il mistero della croce viene teologicamente chiarito e, da scandalo, si trasforma in strumento d’ineffabile salvezza (sebbene lo stesso Concilio di Trento ribadisca l’estrema difficoltà, su di un piano puramente razionale, di accettare un mistero così sconvolgente come la morte dolorosa e umiliante di Gesù Cristo, quale l’ultimo dei malfattori); nei Paesi dell’area protestante, più tardi – a prevalente cultura germanica e anglo-sassone – si assisterà, infine, a un graduale distacco dalle rappresentazioni sensibili del Dio-uomo e del Crocifisso, per insistere sul Dio risorto e glorificato della teologia paolina (sebbene alcune delle più drammatiche raffigurazioni di Cristo morto siano proprio di un artista cattolico convertito al luteranesimo: Albrecht Dürer).
Osservano in proposito F. Lever, L. Maurizio e Z. Trenti (in «Cultura e religione», Torino, S.E.I., 1991, vol. 1, pp. 250-52):
«[…] Nei primi secoli del cristianesimo non viene mai rappresentato il corpo di Gesù inchiodato sulla croce. Gli studiosi hanno cercato una spiegazione a questa scelta espressiva e con certezza si può dire che la ragione è di tipo teologico. Una delle grandi eresie del tempo era l’affermazione che Gesù non fosse veramente uomo e che dunque sulla croce non era morto il Figlio di Dio: quell’uomo era qualcun altro o un’apparenza. Fino a quando questo rimase un problema scottante per la comunità gli artisti non rappresentarono il crocifisso. Solo più tardi e lentamente questa immagine si diffuse; mai tuttavia – almeno fino al decimo secolo – è rappresentata la morte di Gesù in croce.
Le immagini più antiche oggi conosciute di Gesù crocifisso sulla croce datano dalla prima metà del V secolo: quella incisa nel primo riquadro in alto a sinistra della grande porta lignea della basilica di S. Sabina in Roma (è degli anni 422-432); la crocefissione (praticamente contemporanea e anch’essa di origine italica) scolpita sul lato di un piccolo reliquiario di avorio conservato nel British Museum. Ambedue gli esempi raffigurano Gesù vivo, appoggiato – più che inchiodato – alla croce. Sono due lavori semplici dal punto di vista artistico e soprattutto non legati a momenti solenni della liturgia cristiana.
È soltanto a partire dalla metà del VII secolo che troviamo delle crocifissioni poste al centro dell’attenzione della comunità in preghiera. L’esempio più bello certamente l’affresco di S. Maria Antiqua a Roma (la chiesa è nell’area dei Fori Imperiali e fu costruita nel periodo 741-751).»
Una osservazione non secondaria, a nostro avviso, riguarda proprio la compresenza, nella realizzazione dei pannelli del portale di Santa Sabina, di due artisti di così diversa formazione culturale e professionale e pertanto, quasi certamente, di così diversa estrazione sociale. Oggi, in piena èra democratica, ci vantiamo di aver abolito le barriere di classe, almeno per quanto attiene la sfera della cultura e dell’arte; eppure non saremmo capaci del coraggio intellettuale che mostrarono i costruttori della basilica di Santa Sabina, nel V secolo dopo Cristo: al punto che ci sfugge la portata rivoluzionaria della loro scelta. Si provi a immaginare da quali e quante critiche verrebbe sommerso, oggi, chi osasse commissionare a un modesto artigiano popolare e ad un raffinato artista colto, contemporaneamente, la realizzazione di un lavoro a quattro mani per la decorazione di una grande opera pubblica. Si parlerebbe di scelta assurda e incomprensibile, di stridente contrasto stilistico, di clamorosa distonia compositiva; si griderebbe allo scandalo e si contesterebbe senza pietà l’accostamento così anticonformista e irriverente di livelli artistici incommensurabili. Né vale a sminuire la forza eversiva di un tale accostamento, nel caso di Santa Sabina, il fatto che esso potrebbe essere la conseguenza di uno stato di necessità e che potrebbe anche non essersi svolto in effettiva sincronia. Che importa? Anche ammesso che l’artista colto ed elegante sia stato costretto, da ignote circostanze, a sospendere la sua opera, nulla imponeva che si decidesse di ricorrere, per proseguirla, ad una mano tanto più rozza e inesperta della sua (ammesso che lo scultore “popolano” non abbia incominciato il lavoro prima del suo collega “colto”).
Ma è poi vero che la «Crocifissione» del portale di Santa Sabina è stata intagliata da una mano rozza e inesperta? Non potrebbe darsi che a noi sembri così perché la giudichiamo sulla base di un mero pregiudizio, sottoponendola a un arbitrario ed impari confronto con l’autore di pannelli come quello dell’«Ascensione di Elia»? Siano proprio sicuri che colui che ha scolpito la «Crocifissione» non SAPESSErendere la scena e i personaggi in maniera più naturalistica, o con maggiore sapienza prospettica e compositiva? Non potrebbe darsi, semplicemente, che non lo VOLESSE, perché, come gli scultori dell’Alto Medioevo (Wiligelmo, per esempio), il suo intento non era quello di adeguarsi ai canoni dell’arte greca classica, ma esprimere un contenuto nuovo in forme nuove, essenziali, fortemente mistiche e simboliche? Non si può versare vino vecchio in otri nuovi, aveva ammonito il Maestro. Ed ecco che l’autore della «Crocifissione», consapevole della portata rivoluzionaria dell’evento che si accinge a scolpire, decide di farlo secondo un codice espressivo radicalmente “altro”, rispetto a quello dell’arte greca, sia classica che ellenistica. L’autore dell’«Ascensione di Elia», invece, preferisce restare fedele ai modi e alle forme della tradizione: è una scelta legittima anch’essa; quello che è sorprendente, ma in senso positivo, è la decisione di Pietro di Illiria, o di chi per lui, di affidare la realizzazione dei rilievi del portale in cipresso a due personalità artistiche così differenti tra loro.
Hanno scritto Giorgio Cricco e Francesco paolo Dio Teodoro nel manuale «Itinerario nell’arte» (Bologna, Zanichelli, 2010, vol. 1, p. 246):
«La “Porta di Santa Sabina”, risalente al V secolo, costituisce il più antico esempio di scultura lignea paleocristiana. In essa erano presenti 28 riquadri scolpiti, di cui solo 18 ci sono pervenuti.
L’opera è stata eseguita da due gruppi distinti di artisti. Il primo, educato all’arte colta, il secondo ai modi plebei. Appartiene al primo gruppo l’autore del pannello con Elia che ascende in un carro di fuoco (Secondo Libro dei Re, 2, 1-12). La composizione pine al centro il profeta Elia che, su un carro trainato da cavalli impennati, viene rapito in cielo. L’angelo, in alto, lo tira a sé mentre Eliseo – suo successore – cerca di trattenerlo per un lembo del mantello. Le figure sono proporzionate e il rilievo, delicato e sapiente, trae la sua forza dalla catena di corpi e dalle azioni contrarie dell’angelo e di Eliseo. Di educazione plebea è, invece, l’autore del pannello con la “Crocifissione”. In esso le figure sono scolpite in modo poco naturalistico e gerarchico: Cristo, infatti, ha dimensioni maggiori di quelle dei due ladroni che lo affiancano e le teste di tutti sono sproporzionate rispetto alle altre parti del corpo. I tre personaggi sono frontali e lo sfondo è interamente occupato dall’indicazione sommaria di mura cittadine (forse quelle di Gerusalemme). Le pietre, disposte in maniera isodoma, con i loro giunti bene incisi definiscono un reticolo in cui si alternano luci e ombre, realizzando un trattamento tenute di chiaroscuro che è più vicino all’espressione pittorica che non quella scultorea.
La composizione è basata sulla simmetria. Infatti, l’ovvia disposizione dei personaggi (Gesù al centro e i due ladroni di fianco) è replicata dall’architettura retrostante che si organizza per mezzo di tre frontoni su pilastri (maggiore è lo spazio riservato a quello centrale che, per questa ragione, non si chiude, ma si interrompe in corrispondenza della cornice del pannello). Si definisce, in tal modo, anche una ripartizione dell’intera superficie che si presenta come un trittico.»
È bello pensare che la prima rappresentazione conosciuta della Crocefissione sia quella realizzata da un artista “povero” (oggi diremmo, forse, “naïf”) e non da un artista “colto”, di formazione classica. L’evento sconvolgente del Dio-uomo che muore sulla croce, dopo una vita di lavoro e di vicinanza agli umili e agli emarginati, viene tradotto in un materiale relativamente povero, come il legno, nelle forme e nei modi della cultura popolare, secondo il codice espressivo della gente semplice: la stessa che, anche a Roma, aveva accolto la Buona Novella venuta da Oriente, assai prima delle classi ricche e istruite.
C’è un profondo senso di giustizia, in tutto questo…
di Francesco Lamendola - 12/05/2014
Fonte: Arianna editrice
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