Concilio reale, virtuale e ermeneutica taroccata
(Fonte: http://chiesaepostconcilio.blogspot.it) Roberto de Mattei ha scritto un recente articolo su Il Foglio [qui], nel quale ripropone un’aggiornata Summa del nostro ormai pluridecennale excursussull’evolversi della situazione ecclesiale alla luce del Concilio Vaticano II e della sua ermeneutica applicata e non, sfociata in una arbitraria e paradossale dogmatizzazione dell’ultima Assise conciliare, assurta a mito, le cui finalità erano invece de-dogmatizzanti.
L’analisi parte dai recenti nodi sulla famiglia, annessi e connessi, che investono l’etica e, in definitiva la perdita del suo fondamento nella Verità non più richiamato perché di fatto rinnegato; il che la scioglie da ogni vincolo normativo per immergerla nel contesto storico-culturale, ovvero nell’etica della situazione.
Come ricordato dallo stesso de Mattei su Corrispondenza Romana [qui], non a caso, oggi, è proprio Concilium e ciò che rappresenta ad assurgere a nuova efficace attualità. Il fascicolo di febbraio scorso, infatti, titola: Dall’“anathema sit” al “Chi sono io per giudicare?”, prendendo le mosse dalla famosa frase di Bergoglio sull’omosessualità: «chi sono io per giudicare», detta sull’aereo ai giornalisti, nel luglio 2013. Dalla nuova vulgata ivi esposta – che ormai sostituisce all’ortodossia una prassi sempre innovata a innovatrice – si deduce che le formule e i dogmi non possono comprendere l’evoluzione storica, ma ogni problema va collocato nel suo contesto storico e sociopolitico. Il concetto di ortodossia va superato, o quanto meno ridimensionato, perché, viene utilizzato come “punto di riferimento per soffocare la libertà di pensiero e come arma per sorvegliare e punire”… L’ortodossia è definita come “una violenza metafisica”. Ed è per questo che al primato della dottrina va sostituito quello della prassi pastorale[1].
Sulla posizione di Benedetto XVI che ribadisce la tesi secondo cui un Concilio virtuale, imposto dagli strumenti di comunicazione, avrebbe tradito il Concilio reale, De Mattei richiama sia il celebre discorso alla curia del 22 dicembre 2005 [qui], sia l’ultimo, non meno significativo, del 14 febbraio 2013 al clero romano [qui, da noi ripreso qui a proposito della Liturgia], ricordando che è su questa stessa linea che si muove Mons. Agostino Marchetto, definito da Papa Francesco come “il miglior ermeneuta” del Vaticano II; ma osservando che questa linea manifesta ogni giorno di più la sua debolezza. E tuttavia l’opera di revisione storica e teologica avviata negli ultimi anni del pontificato di Benedetto XVI avrebbe aperto una nuova pista storico-ermeneutica. Sta di fatto che, dal fronte francese, don Laurent Jestin (Catholica 117/Autunno 2012), nel sollevare la questione del Punto morto delle ermeneutiche [qui], riconosce che il discorso di Benedetto XVI ha prodotto effetti liberatori, ma richiede di essere vieppiù precisato e risolto non solo teoricamente perché la posta in gioco è molto alta.
A questo riguardo mi stupisco come mai sia de Mattei che gli altri studiosi da lui citati, così attenti nelle analisi storiche e anche teologiche, su questo punto continuino ad ignorare una reiterata valutazione, che ritengo una ineludibile chiave di lettura, senza la quale non è possibile comprendere appieno quanto sta accadendo e ogni giorno si dipana, nuovo e dirompente, sotto i nostri occhi.
Riporto qui, riproponendola, una riflessione sviluppata reiteratamente su queste pagine.
Attualmente il problema non è solo ermeneutico, è molto più profondo, perché vede di fronte due concezioni diverse del magistero, frutto di una vera e propria rivoluzione copernicana, collegata con una nuova concezione di Chiesa nata dal concilio, che ha spostato il fulcro di ogni cosa dall’oggetto al soggetto. In fondo è una delle molte facce ed espressioni della nuova antropologia introdotta dal concilio, passata dal teocentrismo all’antropocentrismo [Gaudium et spes -qui- un testo di Mons. Gherardini]: un uomo centrato su se stesso e non più fontalmente orientato a Dio con le innumerevoli implicazioni, anche in campo liturgico, sviluppate altrove. Frutto dello storicismo, del personalismo e di ogni altra spinta modernista, che hanno nutrito la Nouvelle Théologie che la sta facendo tuttora da padrona, in una Chiesa non più docente ma dialogante. La nuova concezione emerge anche nell’affermazione del citato discorso del 22 dicembre che contrappone all’ermeneutica della discontinuità «l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa».
Una breve premessa e considerazioni conseguenti.
Una breve premessa e considerazioni conseguenti.
- Il Magistero bimillenario della Chiesa può dirsi ‘vivente’ nel senso di vivo e vitalizzante perché trasmette secondo i bisogni di ogni generazione – curandone l’integrità nella sostanza: eodem sensu eademque sententia – il Depositum fidei della Tradizione Apostolica, fondamento oggettivo, dato per sempre, pur se sempre ulteriormente approfondito e chiarito nelle sue innumerevoli ricchezze;
- il magistero attuale si dice invece vivente, in senso storicistico, perché portatore dell’esperienza soggettiva della Chiesa di oggi (che sarà diversa in quella di domani) essendo sottoposta all’evoluzione determinata dalle variazioni contingenti legate alle diverse epoche.
Il ruolo del magistero – ha detto Benedetto XVI oggi Papa emerito – è di garantire la continuità di una esperienza, è lo strumento dello Spirito che alimenta la comunione «assicurando il collegamento fra l’esperienza della fede apostolica, vissuta nell’originaria comunità dei discepoli, e l’esperienza attuale del Cristo nella sua Chiesa». E ancora: «…Concludendo e riassumendo, possiamo dunque dire che la Tradizione non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti »[3]. L’enunciato è tratto da una stupenda catechesi; ma il problema sta nel fatto che le cose o parole definite “collezione di cose morte”, nella vulgata modernista vengono riferite al “magistero perenne” che sarebbe diventato “cosa morta” da sostituire col magistero “vivente”, identificato con quello attuale. In tal modo viene conferita al magistero una prerogativa che non gli è propria: quella di essere sempre riferito al “presente”[4], con tutta la mutevolezza e precarietà propria del divenire, mentre la sua peculiarità è quella di essere, nel contempo, passato e presente, trasmettendo una Verità rivelata che, pur inverata nell’oggi di ogni generazione, appartiene all’eternità. Altrimenti cosa trasmette la Chiesa a questa generazione e a quelle future: solo un’esperienza soggettiva? Mentre le è proprio esercitare una funzione sempre in vigore, il cui atto è definito attraverso l’oggetto, ovvero attraverso le verità rivelate e tramandate.
Insomma è cambiato il cardine su cui si fonda la Fede, spostato dall’oggetto-Rivelazione alsoggetto-Chiesa/Popolo di Dio[5] pellegrina nel tempo e di fatto trasferito dall’ordine della conoscenza a quello dell’esperienza, evidenziato dal primato del sentimento, o addirittura della sensazione o del sensazionalismo, sull’intelletto. Il cuore umano è diventato sentimento: nulla a che fare con il cuore biblico, cioè con l’interiorità profonda, il ‘luogo’ delle scelte fondamentali e, oggi, in nome del vangelo tutto diventa sdolcinato sentire, emozione, percezione soggettiva. Da conseguenza a punto di partenza. È il frutto della dislocazionedella Santissima Trinità, come illustra ‘sapientemente’ Romano Amerio: « Alla base del presente smarrimento vi è un attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo, e questo attacco rimanda ultimamente alla costituzione metafisica dell’ente e ultimissimamente alla costituzione metafisica dell’Ente primo, cioè alla divina Monotriade. [...] Come nella divina Monotriade l’amore procede dal Verbo, così nell’anima umana il vissuto dal pensato. Se si nega la precessione del pensato dal vissuto, della verità dalla volontà, si tenta una dislocazione della Monotriade »[6]. Intuibile il sovvertimento della realtà che ne deriva -qui-.
Il problema della continuità, vista nell’unico soggetto-Chiesa e non nell’oggetto-Rivelazioneinverato dalla Chiesa di ogni tempo, appare in tutta la sua gravità, proprio decriptando l’assunto del fondamentale discorso del 22 dicembre 2005. Occorre, invece, portare l’eternità in ogni presente della storia e non sottrarre la storia all’oggettiva feconda pregnanza della Verità eterna, che è da sempre e per sempre e non si evolve, ma ci è data perché siamo noi a doverci evolvere.
Ed è proprio da qui che nasce e per questo continua – apparentemente senza esiti (finora) – il dialogo tra sordi, perché gli interlocutori usano griglie di lettura della realtà diverse: il concilio, cambiando il linguaggio [qui], ha cambiato anche i parametri di approccio alla realtà. E capita di parlare della stessa cosa alla quale, tuttavia, si danno significati diversi. Tra l’altro la caratteristica principale dei gerarchi attuali è l’uso di affermazioni apodittiche, senza mai prendersi la briga di dimostrarle o con dimostrazioni monche e sofiste. Ma di dimostrazioni non hanno neppure bisogno, perché il nuovo approccio e il nuovo linguaggio hanno sovvertito tutto ab origine. E il non dimostrato dell’anomala pastoralità priva di principi teologici definiti è proprio ciò che ci toglie la materia prima del contendere. È l’avanzata del fluido cangiante dissolutore informe, in luogo del costrutto chiaro, inequivocabile, definitorio, veritativo: l’incandescente perenne saldezza del dogma contro i liquami e le sabbie mobili del neo-magistero transeunte. (Maria Guarini)
(Fonte: http://chiesaepostconcilio.blogspot.it)
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1. Brunero Gherardini, Il Vaticano II. Alle radici di un equivoco, Lindau 2012, pag.195
2. Concilium, 2/2014, p. 11
1. Brunero Gherardini, Il Vaticano II. Alle radici di un equivoco, Lindau 2012, pag.195
2. Concilium, 2/2014, p. 11
2. Maria Guarini, La chiesa e la sua continuità. Ermeneutica e istanza dogmatica dopo il Vaticano II, Ed. DEUI, 2012 – Estratto dal punto 3. Cap.4.
3. Benedetto XVI, La comunione nel tempo: la Tradizione, Catechesi del 26 aprile 2006 [qui]. Citato da don Michel Gleize, membro della commissione della Fraternità S. Pio X per le discussioni con Roma. In: Una questione cruciale: il valore magisteriale del Concilio Vaticano II [qui]
4. Vedi anche l’affermazione del papa attuale: «Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea» (Intervista rilasciata a La Civiltà Cattolica/sett.2013 [qui]. Pensiero ripreso, tra l’altro, anche per le implicazioni riguardanti il disprezzo per il Rito Antico qui)
5. Questa definizione, generica, – di conio tutto Conciliare e dal sapore vetero-testamentario – di “popolo di Dio”, tende a sostituire quella più forte, specifica e identitaria di “Corpo mistico di Cristo”.
6. Romano Amerio, Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX[qui], Lindau 2009, pag.315
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