andiamo verso una Chiesa con tre pontefici, due “emeriti” e uno eletto? Quello del “Papa Emerito” è un istituto che al momento non esiste
di Padre Ariel S. Levi di Gualdo
In uno dei miei colloqui privati con un insigne membro della nostra “Riserva Indiana” [qui], il mio confratello anziano Antonio Livi, più volte ho affrontato temi di carattere dogmatico, storico ed ecclesiologico legati alla figura del Romano Pontefice nella sua duplice veste di dottore privato e di supremo maestro e custode del deposito della fede e della dottrina cattolica. Tema più volte ripreso con un altro confratello anziano ed altrettanto insigne filosofo e teologo, il domenicano Giovanni Cavalcoli, anch’esso punta di diamante della nostra “Riserva Indiana”.
Un anno fa espressi ad entrambi questi confratelli una paura manifestata all’epoca solo ad alcuni intimi. A dire il vero, più che manifestarla la sussurrai a bassa voce: «Stiamo forse correndo il rischio di ritrovarci entro breve con due pontefici cosiddetti “emeriti” ed un terzo pontefice eletto?».
Qualche amico sorrise, qualcuno mi domandò se per caso si trattava di una delle mie provocazioni attraverso l’uso del paradosso o dell’iperbole, mentre i due confratelli anziani, affinati da decenni di studi filosofici e teologici, oltre che dalla continua dedizione ai ministeri pastorali tramite i quali hanno sempre difeso quella sana e solida fede che oggi pare caduta quasi nell’oblio, ascoltarono con attenzione senza rispondere sul momento, tanto pesante era la portata di quella mia perplessità; ciò che poi mi risposero appresso, non interessa queste righe.
L’errore che all’epoca commisi fu di lasciarmi sfuggire di bocca quel pensiero che mi tormentava con tutte le sue articolate congetture appresso, con un tale che poco dopo riportò in un suo pubblico scritto quella mia analisi addolorata facendola passare per propria, com’è suo corretto stile. Nessun problema, io non metto il copyright sui miei discorsi pubblici e privati, a metterlo è solo il mio editore, ed unicamente sui miei libri stampati [qui]. Non sono però così ingenuo da non cogliere in qua e il là in che modo alcuni giornalisti e commentatori, dopo l’uscita di alcuni miei articoli su Riscossa Cristiana e su Corrispondenza Romana, si sono più volte rifatti a tesi elaborate nei miei scritti senza avere mai avuto il garbo di citare chi aveva formulato quelle analisi; fatte peraltro sempre a mio rischio e pericolo, considerata la mia totale dipendenza sacramentale e giuridica da quelle autorità ecclesiastiche verso le quali ho sollevato più volte perplessità, ma senza uscire mai dai canoni del rispetto e della devota obbedienza sacerdotale sino ad oggi sempre mantenuta, all’occorrenza anche difesa di fronte a quanti amano invece paventare ribellioni verso la legittima autorità ecclesiastica. Da una parte c’è infatti il Vangelo che mi indica in che modo reagire con decisione a certi malcostumi, o come procedere all’occorrenza alla correzione fraterna; dall’altra c’è la legge della Chiesa che mi riconosce il legittimo diritto alla critica [C.I.C. can. 218, 386, 2. vedere qui], racchiusa entro quel corretto agire dal quale ritengo di non essere mai uscito, n’é prova che non sono stato mai richiamato né ammonito per avere violato quanto sancito dalla dottrina, dal diritto e dalla morale della Chiesa Cattolica; né alcun vescovo avente su di me legittima giurisdizione mi ha mai rimproverato di avere recato disonore al Sacro Ordine Sacerdotale. Tutt’altro, mi risulta che quando qualche laico bacchettone — di quei personaggi più clericali di quanto mai lo siano stati i preti — o qualche monsignorino in carriera colto da prurito, hanno osato paventare all’autorità ecclesiastica un “adeguato richiamo” per certi miei scritti, per tutta risposta è stato a loro replicato che non era nemmeno pensabile di richiamare, tanto meno di sanzionare, chi dice la verità, volendo anche in modo duro, ma senza offendere nessuno, tutelando parola dietro parola il Mistero della Rivelazione ed i dogmi della fede cattolica, non certo ponendoli in discussione, come invece sono soliti fare gli amici, o peggio i veri e propri “punti di riferimento” [qui, qui] di certi laici clericali e di certi monsignorini colti da pruriti che li inducono a sussultare in punti non meglio precisati, o in ogni caso in punti che non sono di alcun interesse anatomico per noi uomini.
… fin quando si tratta di commettere “rapine di pensiero”, per certi personaggi pare che tutto vada bene, ma siccome … noi siamo dei tronfi baroni e tu solo un povero pretuncolo che predica alle sabbie del deserto col rischio di finire con la testa su un vassoio come il Battista, di citarti come autore delle analisi da te fatte e da noi razziate a man bassa non è il caso. Certo, buon garbo vorrebbe che in simili casi si snobbasse sia l’analisi sia il povero pretuncolo felicemente anonimo che l’ha fatta.
Tengo a precisare che a livello personale nulla m’interessa di tutto questo, perché il processo di sostituzione dell’umano egocentrismo col cristocentrismo sta alla base fondante del mio ministero sacerdotale, della mia formazione passata e di quella permanente. Ciò al contrario dei molti, o forse purtroppo dei troppi che sull’egocentrismo e sulla superbia elevata alla massima potenza hanno edificato il proprio essere intellettuali, apologeti veri o fasulli, scrittori e giornalisti cattolici che pongono sempre nei propri libri e scritti “io” avanti a “Dio”: «Come io ho detto … come io ho scritto … come io ho affermato avendo in questo totale ragione, come i fatti dimostrano … amen, alleluja!».
E pensare che le mie righe brulicano invece affermazioni addolorate del tipo: « … anni fa affermai questa data cosa; e Dio solo sa quanto ho pregato e sperato di sbagliarmi, anziché ritrovarmi oggi dinanzi alla realizzazione concreta di quanto in precedente avevo ipotizzato, purtroppo!». E quando qualche mio allievo mi ha detto: «Tutto è andato alla fine come tu avevi previsto», a capo chino — ma chino sul serio, con l’umiltà cristiana e addolorata realmente avvertita e praticata — ho risposto: «Non immagini neppure quanto ho sperato di sbagliare e quanto ho pregato di poterti dire in futuro: hai visto? Grazie a Dio mi ero sbagliato!». Perché intuire e analizzare per anticipo il male ed i frutti che il male può produrre attraverso il processo di inarrestabile decadenza che avanza sotto i nostri occhi in maniera turbinosa, non produce in me alcun narcisistico piacere intellettuale, meno che mai alcun cattolico compiacimento.
Sulla correttezza professionale di certi razziatori, a volte anche illustri o persino di prestigiosa firma — e ripeto, a prescindere totalmente da me — avrei non poco da discutere, specie io che per retto e cristiano costume, quando cito, non dico un pensiero ma un sospiro di chicchessia, riporto sempre la persona e la relativa fonte. N’è prova il fatto che i miei libri abbondano note a fondo di pagina, come del resto i miei articoli rivolti al grande pubblico, perché se prendo a prestito anche un sospiro, documento sempre a chi va ricondotto quel sospiro; con buona pace di certi cattolici celeberrimi che dal proprio alto empireo sprezzano note e citazioni essendo essi stessi fonte, citazione e, manco a dirsi: prova vivente del vero. Ebbene: chi lo spiega a questi “cattoliconi” che noi siamo solo servi della verità che risiede nel mistero di Dio e nella sua divina parola, non certo presunta incarnazione vivente della verità che risiede nell’egocentrismo dell’uomo e nelle sue vane parole umane?
Tanto per citare come mio costume chi certi pensieri li ha espressi in suoi scritti e poi riproposti in discorsi pubblici, vorrei ricordare che in suo memorabile articolo: Obbedienza al Papa solo in relazione a Cristo [qui], Antonio Livi spiegò in modo garbato e deciso quando e come noi ministri in sacris per un verso, l’intero Popolo di Dio per altro verso, siamo vincolati ai dettami del successore di Pietro: lo siamo quando egli esercita il proprio magistero esprimendosi in materia di dottrina e di fede, quando ribadisce le dottrine della Chiesa, quando le attualizza o quando reputa opportuno dare vita a nuove dottrine in ossequio alla Rivelazione, al depositum fidei, ed alla traditio chatolica.
Da oltre un anno a questa parte aleggia però una pericolosa confusione nella comunità dei credenti che formano il corpo vivo della Chiesa, fomentata ad arte da pensatori, intellettuali e giornalisti principalmente non credenti; a partire ovviamente da Eugenio Scalfari che va e viene dalla Domus Sanctae Martae [qui, qui], dove invece non sono riusciti ad accedere, o dove non sono stati invece ricevuti vescovi di diocesi sparse per il mondo costretti a far fronte a situazioni gravissime o persino a sanguinarie persecuzioni inflitte ai fedeli delle loro Chiese locali, demandati per le loro gravi questioni alla Segreteria di Stato od a qualche dicastero della Santa Sede. La domanda è quindi di rigore: quand’è che il Romano Pontefice è infallibile e quando, pur non entrando in causa il dogma e l’istituto della infallibilità, ciò che il Santo Padre ha sancito e stabilito anche attraverso un semplice discorso pubblico — cui di prassi è però sempre seguito un documento chiaro e dettagliato — può essere ed è dottrina vincolante?
Nel corso di questi ultimi tempi ho bruciato tempo, energie e parole, anche se alla prova dei fatti risultate purtroppo inutili, per spiegare a certi cattolici che dalle file ideologiche della vecchia sinistra radicale sono tornati alla Chiesa dopo il crollo del Muro di Berlino come inconsolabili orfanelli assetati più che mai di ideologia, che avere con la figura del Romano Pontefice, chiunque esso sia, un approccio chiuso come si trattasse dell’intoccabile mito di Che Guevara o di Mao Tse-Tung, oltre a non essere sano sul piano squisitamente umano non è proprio cattolico, perché un simile atteggiamento crea conflitto col presupposto di quella libertà dei figli di Dio che partendo dal Giardino di Eden trova la propria sintesi nella parola dell’Apostolo che ammonisce: «La verità vi farà liberi» [Gv 8, 32]. E per giungere alla verità occorre la libertà, allo stesso modo in cui, viceversa, per giungere alla Verità è necessario uno spirito di libertà. E per essere liberi nella fede bisogna essere liberi dalle ideologie, perché da sempre, l’ideologia, è il veleno mortifero della fede.
Nessuno, come invece riescono a fare ex comunistelli e comunistelle approdati alla “fede” cattolica con quello spirito ideologico che li ha portati dal culto del vecchio idolo del Che Guevara alla papolatria dura e pura, riesce a seminare danni, sino a rivendicare il diritto a vivere nello sprezzo di quella libertà di cui esigono privare anche gli altri, ed il tutto, niente meno, in nome di Cristo Dio. Insomma: una vera e propria bestemmia.
Questi soggetti che hanno cambiata solo banda ma non musica e che mai sono stati sfiorati dal mistero della grazia, si sono semplicemente limitati a cambiare bandiera, per avere una nuova tribuna dalla quale sproloquiare, una nuova piazza sulla quale urlare, un nuovo idolo da adorare in modo sempre aggressivo e coercitivo, attaccando sempre e di prassi le persone, incapaci come sono a rispettare le persone e ad attaccare solo le loro idee, visto che il male espresso e mal compreso «chi sono io per giudicare» [qui, qui], come scrissi tempo fa vuol dire questo: «Chi sono io per giudicare la profonda coscienza dell’uomo che Dio solo può leggere e giudicare?» [qui]. E con la Chiesa ed il papato hanno oggi lo stesso approccio chiuso che i giovani militanti della vecchia sinistra radicale avevano con certe figure assurte a simboli intoccabili. Per non parlare dei danni che costoro possono fare all’interno del mondo ecclesiale quando i vescovi decidono di salvare dalla disoccupazione piccoli eserciti di mediocri incapaci a trovarsi od a crearsi un impiego, abilitandoli come insegnanti di religione nelle scuole statali. O quando molti parroci, sempre così impegnati in non meglio precisate attività pastorali, delegano a questi personaggi l’organizzazione e la gestione del catechismo per la formazione dei nostri fanciulli e dei nostri giovani; cose alle quali dovrebbero provvedere quanto più possibile e finché possibile i presbiteri, non l’esercito sempre più fitto di pie donne che giocano alle pretesse. Ma d’altronde questo è il dramma ecclesiale e pastorale odierno: molti parroci sono capaci a dare la chiave del tabernacolo anche alle peggiori delle zitelle inacidite che finiscono spesso col sentirsi persino padrone del Santissimo Sacramento, ma a nessuno darebbero mai le chiavi della intoccabile cassa dove conservano i loro preziosi e amati quattrini. E chi vuole prova concreta di quanto ho appena affermato, si metta a girare per le parrocchie e faccia il conto di quanto alto è il numero di sacerdoti che anteponendo la scusa di estenuanti impegni pastorali — ripeto: tutti da verificare — non hanno tempo per insegnare il catechismo ai fanciulli ed agli adolescenti, non hanno tempo per visitare gli infermi e per portare loro la Santissima Eucaristia, delegando al tutto le immancabili “pie donne”.
Con le migliori intenzioni e con l’uso di tutte le mie modeste capacità, ci ho provato a far ragionare questi papolatri che vedono in Jorge Mario Bergoglio un surrogato ideale del Che Guevara e di Mao Tse-Tung, per non parlare di un vero e proprio sostituto di Nostro Signore Gesù Cristo, anziché vedere e venerare in lui il mistero della Chiesa edificata su Pietro.
Dialogando con questi soggetti, ho però finito sempre col rimbalzare su un muro di gomma, non di rado sentendomi persino improvvisare per risposta delle lezioni di teologia e di ecclesiologia da persone mosse da ostinata alterigia che nei fatti concreti non conoscono bene ed a fondo neppure il Catechismo della Chiesa Cattolica, presumendo pur malgrado non solo di sapere, ma di correggere col palese errore chi i misteri della fede li serve, li realizza per grazia di Dio e quindi li conosce un po’ meglio di loro, non altro per … dovere d’ufficio sacramentale.
La comunità ecclesiale ha bisogno da sempre della preziosa opera di quei laici e di quelle laiche ai quali si richiede anzitutto la consapevolezza del proprio essere e la capacità di saper stare sempre al loro posto all’interno della Chiesa. O come disse ad una “pia donna” un mio giovane confratello quando nel corso dell’estate si trovò a sostituire in due parrocchie un parroco che era andato un po’ in vacanza: «Mi dia immediatamente la chiave del tabernacolo; e se proprio vuole fare un servizio utile, tenga presente che i paramenti sacri sono maleodoranti, i camici ingialliti ed il pavimento della chiesa sporco. E non si azzardi a dire che io sono un prete maschilista, perché non intendo affatto pulire io la chiesa mentre lei è illecitamente impegnata a custodire ed a gestire la Santissima Eucaristia». Quando questo confratello mi narrò il fatto risposi: «Hai fatto bene, perché certe inopportune e invadenti beghine sarebbero capaci a mettere la ramazza in mano al vescovo per usare loro al posto suo il bastone pastorale».
Parlando a tu per tu di questioni dogmatiche col confratello Giovanni Cavalcoli in una pausa durante l’ultimo convegno promosso dall’Associazione Internazionale Tomas Tyn [qui], affermai: «Tu che sei un sacerdote e un teologo anziano correggimi se sbaglio: L’infallibilità risiede nella grazia legata all’istituto di cui il Romano Pontefice si avvale. O per meglio intendersi: non è infallibile la persona in sé e di per sé, ma ciò che la persona-istituzione esprime in materia di dottrina e di fede, per ciò che la persona-istituzione rappresenta per mandato divino ricevuto e non certo per ciò che la persona umanamente è. Questo è l’elemento teologico che sfugge purtroppo ai papolatri ideologici o mediatici dei nostri giorni. E non credo che affermare questo sia un giocare a questioni di lana caprina, perché l’uomo, come Pietro dimostra e come i Vangeli ci narrano, può essere anche debole, fragile e inadeguato; sulla scia emotiva può atteggiarsi anche a leone, ma al primo odore di pericolo tirare fuori il pelo del coniglio e fuggire spaventato di fronte al pericolo affermando “Non conosco costui” [Mt 26,69-75], od affermando in modo diverso: “Sono vecchio e stanco e non ce la faccio più”. Eppure, al di là di tutto questo, l’ufficio ch’egli ricopre è edificato su un mistero di fede, su un dogma fondante della Chiesa per la quale Pietro e tutti i suoi successori hanno ricevuto le chiavi del Regno assieme al potere di legare e di sciogliere [Mt 16:14-18], ed all’occorrenza, nell’adempimento del loro ufficio apostolico i pontefici — tutti, inclusi i peggiori che la storia della Chiesa abbia avuto — saranno assistiti dalla potenza dello Spirito Santo, che per loro tramite parlerà e guiderà la Chiesa, sempre. Questo è il vero dogma di fede della infallibilità, tutto il resto è solamente idolatria da parte di persone più o meno cattoliche, più o meno in buona fede, più o meno ignoranti in materia di dottrina, ma che con rara prepotenza osano spesso imporre le loro idee opinabili come se fossero le vere, autentiche e sole dottrine della Chiesa, in massimo sprezzo e violazione alle leggi della Chiesa stessa» [C.I.C. can. 227, vedere qui].
Personalmente marcio per Cristo e se per Cristo devo all’occorrenza combattere lo faccio con la certezza di fede che «Εν τούτῳ νίκα, in hoc signo vinces». E alla testa di ogni “battaglia” c’è la suprema guida di Pietro, che è segno vivente e pietra viva sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa; e ciò fino a quando Pietro veste i suoi panni di guida suprema e di supremo pastore della Chiesa universale, non certo quando Simone si esprime ed esterna come “dottore privato” o, come si direbbe in altro linguaggio, quando agisce o parla in veste di privato cittadino.
Sempre parlando di Simone: la libertà concessa ai figli di Dio mi consente di esprimere tutte le dovute perplessità sulle numerose espressioni monche o ambigue attraverso le quali egli seguita ad esprimersi come “libero cittadino” [qui]. Pertanto, nel più fedele ossequio al deposito della fede, al magistero e alla dottrina cattolica, è del tutto lecito — volendo anche doveroso — sostenere che quanto Simone afferma in sua veste di dottore privato, o per così dire di libero cittadino, non è dottrina vincolante della Chiesa. E ciò non perché lo spiega il filosofo metafisico e teologo Antonio Livi [vedere articolo già richiamato, qui] o perché lo affermo io o chicchessia, ma perché lo dice la dottrina cattolica, con buona pace del fitto e pericoloso esercito di nuovi papolatri emotivi o mediatici che sono usciti dalla propria dimensione di orfani della sinistra radicale scoprendo d’incanto il loro nuovo Che Guevara, il loro nuovo Mao Tse-Tung.
Vincolante è il magistero, lo sono i documenti del sommo magistero e tutto ciò che Pietro esprime in materia di dottrina e di fede, non certo le interviste a braccio rilasciate a giornalisti più o meno miscredenti, oltre che fieri e orgogliosi di essere tali, sentendosi viepiù legittimati nella propria miscredenza proprio in virtù della amichevole considerazione a loro concessa da Simone.
Pietro ha sempre parlato attraverso le sue encicliche, le sue locuzioni, le sue omelie, attraverso i vari atti ufficiali del proprio sommo magistero; oggi Simone risponde invece a giornalisti e intervistatori, ad uno dei quali, di recente, ha persino parlato di un nuovo istituto, quello del “papato emerito”, anche se il giornalista non gli aveva chiesto proprio nulla a tal proposito.
Domanda rivolta al Santo Padre da Johannes Schidelko dell’Agenzia Cattolica tedesca:
«Grazie. Santità, quale tipo di rapporto c’è tra lei e Benedetto XVI? esiste un abituale scambio di opinioni, di idee, esiste un progetto comune dopo questa enciclica?»
Risponde il Santo Padre:
«Ci vediamo … Prima di partire sono andato a trovarlo. Lui, due settimane prima, mi ha inviato uno scritto interessante: mi chiedeva l’opinione … E, abbiamo un rapporto normale perché torno a questa idea: forse non piace a qualche teologo – io non sono teologo – ma penso che il Papa emerito non sia un’eccezione, ma dopo tanti secoli è il primo emerito, questo. Pensiamo, eh sì, come lui ha detto, “sono invecchiato, non ho le forze” … Ma è stato un bel gesto di nobiltà e anche di umiltà e di coraggio. Ma, io penso: 70 anni fa i vescovi emeriti, anche, erano un’eccezione: non esistevano. Oggi i vescovi emeriti sono una istituzione. Io penso che “Papa emerito” sia già un’istituzione. Perché? Perché la nostra vita si allunga e a una certa età non c’è la capacità di governare bene, perché il corpo si stanca … ma, la salute forse è buona, ma non c’è la capacità di portare avanti tutti i problemi di un governo come quello della Chiesa. E io credo che Papa Benedetto XVI abbia fatto questo gesto di Papi emeriti. Ripeto: forse qualche teologo mi dirà che questo non è giusto, ma io la penso così. I secoli diranno se è così o no. Vediamo. Ma lei potrà dirmi: “E se lei non se la sentirà, un giorno, di andare avanti?”. Ma, farei lo stesso, eh? Farei lo stesso! Pregherò molto, ma farei lo stesso. Ha aperto una porta che è istituzionale, noneccezionale. Il nostro rapporto è di fratelli, davvero, ma io ho detto anche che lo sento come avere il nonno a casa per la saggezza: è un uomo con una saggezza, con le nuances, ma, che mi fa bene sentirlo. E, anche, mi incoraggia abbastanza. Questo è il rapporto che abbiamo con lui [testo integrale su Radio Vaticana, qui]».
Dinanzi a questa risposta sorge di nuovo un quesito: ha parlato Pietro, od ha parlato Simone? Bisogna infatti notare che per quanto l’espressione in questione sia stata pronunciata dal Santo Padre, al momento, per noi cattolici, questo istituto del “Papa emerito” non esiste; e non esisterà sin quanto non sarà sancito con un documento ufficiale, inserito nel codice di diritto canonico e assunto come disciplina vincolante della Chiesa.
Noi che nel concreto viviamo nel pronto soccorso della «Chiesa ospedale da campo», sappiamo bene quanto sia sempre più alto il numero di sacerdoti sofferenti dinanzi a Simone che a cadenza ciclica comunica a braccio ai giornalisti progetti di decisioni futuribili, o dando loro risposte connesse a delicati e articolati temi legati alla dottrina e al diritto interno della Chiesa, mentre i vescovi per un verso, i presbiteri per altro verso, devono subire l’umiliazione di apprendere il tutto dalle colonne di giornali sostenuti dalle sinistre anticattoliche, abortiste, amoreggianti con l’eutanasia e con l’omosessualismo, o dalle colonne di giornali sostenuti dalle lobby massoniche, come se gli uomini chiamati attraverso i tre gradi del sacro ordine a servire fedelmente la Chiesa ed a collaborare con Pietro fossero solo un inutile fanalino di coda, messo là come accessorio estremo. O forse qualcuno pensa che ci si possa davvero avvalere di questo pernicioso esercito di laici non cattolici, di eretici pentecostali, di miscredenti di varia fatta e di figure legate mani e piedi alle logge massoniche, per produrre del bene all’interno della Chiesa e per poi trasmetterlo al mondo attraverso l’opera pastorale della Chiesa? Non dobbiamo mai dimenticare che la Chiesa ha ricevuto dal Verbo di Dio questo preciso mandato: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» [Mc16,15-16, qui]. Chi poi volesse approfondire questo discorso può sempre leggere con attenzione la DichiarazioneDominus Jesus, molto esaustiva a tal proposito [testo: qui].
Meno male che sono solo un povero peccatore e un piccolo prete, perché se avessi l’autorevolezza dell’Apostolo Paolo che rimproverò Pietro ad Antiochia [Cf. Gal 2,1-2,7-14, qui, Cf. Catechesi di San Giovanni Paolo II sull’autorità di Pietro, qui], o la santità di San Bernardo di Chiaravalle o di Santa Caterina da Siena, credo che a tal proposito scriverei molto di più, forse persino in termini più severi. È che purtroppo mi mancano del tutto i due presupposti fondamentali e imprescindibili: l’autorevolezza paolina e la santità dei dottori della Chiesa Bernardo e Caterina.
Dinanzi a tutto questo è pienamente legittimo replicare che non basta un semplice precedente storico, anche se di portata straordinaria, per certi versi anche traumatica come la abdicazione dal sacro soglio di Benedetto XVI, per comunicare tramite un giornalista all’intera orbe chattolica l’esistenza di un istituto avente tra l’altro a che fare con un dogma fondante del mistero della Chiesa: «Tu es Petrus» [cf. Mt 16:14-18]. O per caso è lecito alzarsi una mattina e dichiarare l’esistenza di un nuovo istituto parlando a braccio in modo amabile con i giornalisti, a partire da quel corrispondente tedesco che tra l’altro, a tal proposito, faccio notare che non aveva domandato proprio alcunché su quello specifico tema? O dobbiamo forse dedurre che basta la prassi per modificare dottrine e leggi che fanno parte della traditio chatolica edificata sulla Rivelazione e sul depositum fidei?
In questo clima di totale confusione è evidente a chiunque voglia vedere la realtà quanto vi sia una grande ricerca, più o meno sensazionale e spasmodica, di “parole nuove” destinate di prassi a piacere, ma nessuna ricerca, purtroppo, di parole chiare e inequivocabili destinate non sempre a piacere, perché fondate su quei misteri della fede che ci pongono dinanzi alle nostre responsabilità e che ci ricordano in modo deciso che non è possibile servire due padroni [Cf. Lc 16, 13, qui].
Viene pertanto da chiedersi: e se Benedetto XVI si fosse arrestato lungo la Via Dolorosa, dicendo più o meno di essere troppo anziano e di avere le spalle non idonee per portare la croce perché colpito da artrite reumatoide? Si potrebbe pertanto ipotizzare — sulla scia del precedente inaugurato da Benedetto XVI — che il suo successore tenda a passeggiare alle pendici del Colle Vaticano nell’attesa di familiarizzare con il dato storico del martirio del Principe degli Apostoli [Cf. Clemente di Roma, lettera ai Corinzi, V]; o con l’idea che nella cima di quel Colle c’è quella croce sulla quale Pietro finirà inesorabilmente crocifisso a testa all’ingiù e dinanzi alla quale non sarà possibile dire: «Ho problemi al femore e non posso salire, è bene dunque che lo faccia un altro che abbia le gambe più giovani e sane delle mie, anche perché grazie a Dio, da clericali maliziosi quali siamo, contro la Via Dolorosa e contro la Croce ci siamo inventati l’istituto del “papa emerito” che alla buona occorrenza ci può venire in soccorso!».
Detto questo ritengo superfluo ribadire la mia devota e filiale obbedienza al regnante pontefice, l’ho già fatto in vari articoli, incluso quello dedicato alla teologia della speranza e al fondamento di fede del ministero petrino [qui, qui, qui], oltre ad avere pubblicamente richiamato più volte certi cattolici o presunti tali che si sono lasciati andare non a critiche rispettose, legittime e come tali riconosciute e tutelate dalla stessa legge della Chiesa [vedere i già richiamati cann. 218, 386, 2 C.I.C. vedere qui], ma ad aggressioni rivolte al Romano Pontefice in modo spesso insolente e per questo del tutto inaccettabili. E non ribadisco l’ovvio perché a questo punto potrei correre il rischio di dare l’impressione che intendo mettere le mani avanti o porre in qualche modo a riparo me stesso. Mentre in verità non è così: chi conosce me o chi legge quanto scrivo dovrebbe sapere che vivo perennemente allo scoperto, in tutti i sensi, perché lo spirito pavido e omissivo non sono certo due onorevoli capisaldi sui quali edificare e portare avanti il ministero sacerdotale come fosse un qualsiasi “quieto impiego”, o peggio come se fosse un trampolino di lancio per una rispettabile ed a tratti anche ambita carriera [Prete disoccupato, con riferimento alla postfazione, qui, qui].
Le alternative non sono molte: o in questo preciso momento storico Pietro accetta di salire verso la croce in catene coi piedi sanguinanti, oppure, dopo bagni di folla e frasi ad effetto più o meno monche e dai significati più disparati e ambigui, anche questo Pietro potrebbe correre il rischio di finire col dire che l’età, la salute e le forze non gli consentono più di andare avanti. E in un lasso di tempo tutt’altro che lungo la Chiesa di Dio potrebbe ritrovarsi con due pontefici così detti emeriti ed un terzo eletto; e se anche questo terzo non si deciderà a prendere il toro per le corna in modo deciso, forse si potrebbe correre il rischio di finire come l’impero romano nel periodo della sua massima decadenza, quando uno appresso all’altro si susseguivano imperatori, sino al punto che il popolo non conosceva più neppure i loro nomi.
Tra le evidenze prodotte da quelle apostasie dalla fede non più striscianti ma ormai palesi, che in seno alla Chiesa si sono sviluppate nel corso dell’ultimo mezzo secolo, con gli eretici che ormai perseguitano in modo aperto i figli devoti alla Chiesa e al deposito della fede cattolica, da una parte preghiamo che Simone vesta presto i panni di Pietro, dall’altra che la misericordia di Dio ci salvi attraverso la potenza dello Spirito Santo, oppure che ci conceda la grazia di collassare quanto prima. Una volta che la Chiesa sarà infatti implosa su se stessa e decimata dalla peste di quella apostasia che nei concreti fatti è assai peggiore della grande pestilenza del 1348, potremo lavorare sulle ceneri a ricostruire tutto da capo, come più volte avvenuto nel corso della nostra storia, quando le pestilenze uccidevano solo i corpi, al contrario di quelle odierne che uccidono le anime «come un’onda libera» che le porta via, mentre la voce di Cristo grida sempre più disperata: «Vieni, vieni con me … vieni appresso a me», cadendo sempre più nel nulla, in questo nostro diabolico Andamento Lento … [qui].
http://www.riscossacristiana.it/andamento-lento-andiamo-verso-una-chiesa-con-tre-pontefici-due-emeriti-uno-eletto-quello-del-papa-emerito-e-istituto-che-al-momento-esiste-di-padre-ariel-s/
Un anno fa espressi ad entrambi questi confratelli una paura manifestata all’epoca solo ad alcuni intimi. A dire il vero, più che manifestarla la sussurrai a bassa voce: «Stiamo forse correndo il rischio di ritrovarci entro breve con due pontefici cosiddetti “emeriti” ed un terzo pontefice eletto?».
Qualche amico sorrise, qualcuno mi domandò se per caso si trattava di una delle mie provocazioni attraverso l’uso del paradosso o dell’iperbole, mentre i due confratelli anziani, affinati da decenni di studi filosofici e teologici, oltre che dalla continua dedizione ai ministeri pastorali tramite i quali hanno sempre difeso quella sana e solida fede che oggi pare caduta quasi nell’oblio, ascoltarono con attenzione senza rispondere sul momento, tanto pesante era la portata di quella mia perplessità; ciò che poi mi risposero appresso, non interessa queste righe.
L’errore che all’epoca commisi fu di lasciarmi sfuggire di bocca quel pensiero che mi tormentava con tutte le sue articolate congetture appresso, con un tale che poco dopo riportò in un suo pubblico scritto quella mia analisi addolorata facendola passare per propria, com’è suo corretto stile. Nessun problema, io non metto il copyright sui miei discorsi pubblici e privati, a metterlo è solo il mio editore, ed unicamente sui miei libri stampati [qui]. Non sono però così ingenuo da non cogliere in qua e il là in che modo alcuni giornalisti e commentatori, dopo l’uscita di alcuni miei articoli su Riscossa Cristiana e su Corrispondenza Romana, si sono più volte rifatti a tesi elaborate nei miei scritti senza avere mai avuto il garbo di citare chi aveva formulato quelle analisi; fatte peraltro sempre a mio rischio e pericolo, considerata la mia totale dipendenza sacramentale e giuridica da quelle autorità ecclesiastiche verso le quali ho sollevato più volte perplessità, ma senza uscire mai dai canoni del rispetto e della devota obbedienza sacerdotale sino ad oggi sempre mantenuta, all’occorrenza anche difesa di fronte a quanti amano invece paventare ribellioni verso la legittima autorità ecclesiastica. Da una parte c’è infatti il Vangelo che mi indica in che modo reagire con decisione a certi malcostumi, o come procedere all’occorrenza alla correzione fraterna; dall’altra c’è la legge della Chiesa che mi riconosce il legittimo diritto alla critica [C.I.C. can. 218, 386, 2. vedere qui], racchiusa entro quel corretto agire dal quale ritengo di non essere mai uscito, n’é prova che non sono stato mai richiamato né ammonito per avere violato quanto sancito dalla dottrina, dal diritto e dalla morale della Chiesa Cattolica; né alcun vescovo avente su di me legittima giurisdizione mi ha mai rimproverato di avere recato disonore al Sacro Ordine Sacerdotale. Tutt’altro, mi risulta che quando qualche laico bacchettone — di quei personaggi più clericali di quanto mai lo siano stati i preti — o qualche monsignorino in carriera colto da prurito, hanno osato paventare all’autorità ecclesiastica un “adeguato richiamo” per certi miei scritti, per tutta risposta è stato a loro replicato che non era nemmeno pensabile di richiamare, tanto meno di sanzionare, chi dice la verità, volendo anche in modo duro, ma senza offendere nessuno, tutelando parola dietro parola il Mistero della Rivelazione ed i dogmi della fede cattolica, non certo ponendoli in discussione, come invece sono soliti fare gli amici, o peggio i veri e propri “punti di riferimento” [qui, qui] di certi laici clericali e di certi monsignorini colti da pruriti che li inducono a sussultare in punti non meglio precisati, o in ogni caso in punti che non sono di alcun interesse anatomico per noi uomini.
… fin quando si tratta di commettere “rapine di pensiero”, per certi personaggi pare che tutto vada bene, ma siccome … noi siamo dei tronfi baroni e tu solo un povero pretuncolo che predica alle sabbie del deserto col rischio di finire con la testa su un vassoio come il Battista, di citarti come autore delle analisi da te fatte e da noi razziate a man bassa non è il caso. Certo, buon garbo vorrebbe che in simili casi si snobbasse sia l’analisi sia il povero pretuncolo felicemente anonimo che l’ha fatta.
Tengo a precisare che a livello personale nulla m’interessa di tutto questo, perché il processo di sostituzione dell’umano egocentrismo col cristocentrismo sta alla base fondante del mio ministero sacerdotale, della mia formazione passata e di quella permanente. Ciò al contrario dei molti, o forse purtroppo dei troppi che sull’egocentrismo e sulla superbia elevata alla massima potenza hanno edificato il proprio essere intellettuali, apologeti veri o fasulli, scrittori e giornalisti cattolici che pongono sempre nei propri libri e scritti “io” avanti a “Dio”: «Come io ho detto … come io ho scritto … come io ho affermato avendo in questo totale ragione, come i fatti dimostrano … amen, alleluja!».
E pensare che le mie righe brulicano invece affermazioni addolorate del tipo: « … anni fa affermai questa data cosa; e Dio solo sa quanto ho pregato e sperato di sbagliarmi, anziché ritrovarmi oggi dinanzi alla realizzazione concreta di quanto in precedente avevo ipotizzato, purtroppo!». E quando qualche mio allievo mi ha detto: «Tutto è andato alla fine come tu avevi previsto», a capo chino — ma chino sul serio, con l’umiltà cristiana e addolorata realmente avvertita e praticata — ho risposto: «Non immagini neppure quanto ho sperato di sbagliare e quanto ho pregato di poterti dire in futuro: hai visto? Grazie a Dio mi ero sbagliato!». Perché intuire e analizzare per anticipo il male ed i frutti che il male può produrre attraverso il processo di inarrestabile decadenza che avanza sotto i nostri occhi in maniera turbinosa, non produce in me alcun narcisistico piacere intellettuale, meno che mai alcun cattolico compiacimento.
Sulla correttezza professionale di certi razziatori, a volte anche illustri o persino di prestigiosa firma — e ripeto, a prescindere totalmente da me — avrei non poco da discutere, specie io che per retto e cristiano costume, quando cito, non dico un pensiero ma un sospiro di chicchessia, riporto sempre la persona e la relativa fonte. N’è prova il fatto che i miei libri abbondano note a fondo di pagina, come del resto i miei articoli rivolti al grande pubblico, perché se prendo a prestito anche un sospiro, documento sempre a chi va ricondotto quel sospiro; con buona pace di certi cattolici celeberrimi che dal proprio alto empireo sprezzano note e citazioni essendo essi stessi fonte, citazione e, manco a dirsi: prova vivente del vero. Ebbene: chi lo spiega a questi “cattoliconi” che noi siamo solo servi della verità che risiede nel mistero di Dio e nella sua divina parola, non certo presunta incarnazione vivente della verità che risiede nell’egocentrismo dell’uomo e nelle sue vane parole umane?
Tanto per citare come mio costume chi certi pensieri li ha espressi in suoi scritti e poi riproposti in discorsi pubblici, vorrei ricordare che in suo memorabile articolo: Obbedienza al Papa solo in relazione a Cristo [qui], Antonio Livi spiegò in modo garbato e deciso quando e come noi ministri in sacris per un verso, l’intero Popolo di Dio per altro verso, siamo vincolati ai dettami del successore di Pietro: lo siamo quando egli esercita il proprio magistero esprimendosi in materia di dottrina e di fede, quando ribadisce le dottrine della Chiesa, quando le attualizza o quando reputa opportuno dare vita a nuove dottrine in ossequio alla Rivelazione, al depositum fidei, ed alla traditio chatolica.
Da oltre un anno a questa parte aleggia però una pericolosa confusione nella comunità dei credenti che formano il corpo vivo della Chiesa, fomentata ad arte da pensatori, intellettuali e giornalisti principalmente non credenti; a partire ovviamente da Eugenio Scalfari che va e viene dalla Domus Sanctae Martae [qui, qui], dove invece non sono riusciti ad accedere, o dove non sono stati invece ricevuti vescovi di diocesi sparse per il mondo costretti a far fronte a situazioni gravissime o persino a sanguinarie persecuzioni inflitte ai fedeli delle loro Chiese locali, demandati per le loro gravi questioni alla Segreteria di Stato od a qualche dicastero della Santa Sede. La domanda è quindi di rigore: quand’è che il Romano Pontefice è infallibile e quando, pur non entrando in causa il dogma e l’istituto della infallibilità, ciò che il Santo Padre ha sancito e stabilito anche attraverso un semplice discorso pubblico — cui di prassi è però sempre seguito un documento chiaro e dettagliato — può essere ed è dottrina vincolante?
Nel corso di questi ultimi tempi ho bruciato tempo, energie e parole, anche se alla prova dei fatti risultate purtroppo inutili, per spiegare a certi cattolici che dalle file ideologiche della vecchia sinistra radicale sono tornati alla Chiesa dopo il crollo del Muro di Berlino come inconsolabili orfanelli assetati più che mai di ideologia, che avere con la figura del Romano Pontefice, chiunque esso sia, un approccio chiuso come si trattasse dell’intoccabile mito di Che Guevara o di Mao Tse-Tung, oltre a non essere sano sul piano squisitamente umano non è proprio cattolico, perché un simile atteggiamento crea conflitto col presupposto di quella libertà dei figli di Dio che partendo dal Giardino di Eden trova la propria sintesi nella parola dell’Apostolo che ammonisce: «La verità vi farà liberi» [Gv 8, 32]. E per giungere alla verità occorre la libertà, allo stesso modo in cui, viceversa, per giungere alla Verità è necessario uno spirito di libertà. E per essere liberi nella fede bisogna essere liberi dalle ideologie, perché da sempre, l’ideologia, è il veleno mortifero della fede.
Nessuno, come invece riescono a fare ex comunistelli e comunistelle approdati alla “fede” cattolica con quello spirito ideologico che li ha portati dal culto del vecchio idolo del Che Guevara alla papolatria dura e pura, riesce a seminare danni, sino a rivendicare il diritto a vivere nello sprezzo di quella libertà di cui esigono privare anche gli altri, ed il tutto, niente meno, in nome di Cristo Dio. Insomma: una vera e propria bestemmia.
Questi soggetti che hanno cambiata solo banda ma non musica e che mai sono stati sfiorati dal mistero della grazia, si sono semplicemente limitati a cambiare bandiera, per avere una nuova tribuna dalla quale sproloquiare, una nuova piazza sulla quale urlare, un nuovo idolo da adorare in modo sempre aggressivo e coercitivo, attaccando sempre e di prassi le persone, incapaci come sono a rispettare le persone e ad attaccare solo le loro idee, visto che il male espresso e mal compreso «chi sono io per giudicare» [qui, qui], come scrissi tempo fa vuol dire questo: «Chi sono io per giudicare la profonda coscienza dell’uomo che Dio solo può leggere e giudicare?» [qui]. E con la Chiesa ed il papato hanno oggi lo stesso approccio chiuso che i giovani militanti della vecchia sinistra radicale avevano con certe figure assurte a simboli intoccabili. Per non parlare dei danni che costoro possono fare all’interno del mondo ecclesiale quando i vescovi decidono di salvare dalla disoccupazione piccoli eserciti di mediocri incapaci a trovarsi od a crearsi un impiego, abilitandoli come insegnanti di religione nelle scuole statali. O quando molti parroci, sempre così impegnati in non meglio precisate attività pastorali, delegano a questi personaggi l’organizzazione e la gestione del catechismo per la formazione dei nostri fanciulli e dei nostri giovani; cose alle quali dovrebbero provvedere quanto più possibile e finché possibile i presbiteri, non l’esercito sempre più fitto di pie donne che giocano alle pretesse. Ma d’altronde questo è il dramma ecclesiale e pastorale odierno: molti parroci sono capaci a dare la chiave del tabernacolo anche alle peggiori delle zitelle inacidite che finiscono spesso col sentirsi persino padrone del Santissimo Sacramento, ma a nessuno darebbero mai le chiavi della intoccabile cassa dove conservano i loro preziosi e amati quattrini. E chi vuole prova concreta di quanto ho appena affermato, si metta a girare per le parrocchie e faccia il conto di quanto alto è il numero di sacerdoti che anteponendo la scusa di estenuanti impegni pastorali — ripeto: tutti da verificare — non hanno tempo per insegnare il catechismo ai fanciulli ed agli adolescenti, non hanno tempo per visitare gli infermi e per portare loro la Santissima Eucaristia, delegando al tutto le immancabili “pie donne”.
Con le migliori intenzioni e con l’uso di tutte le mie modeste capacità, ci ho provato a far ragionare questi papolatri che vedono in Jorge Mario Bergoglio un surrogato ideale del Che Guevara e di Mao Tse-Tung, per non parlare di un vero e proprio sostituto di Nostro Signore Gesù Cristo, anziché vedere e venerare in lui il mistero della Chiesa edificata su Pietro.
Dialogando con questi soggetti, ho però finito sempre col rimbalzare su un muro di gomma, non di rado sentendomi persino improvvisare per risposta delle lezioni di teologia e di ecclesiologia da persone mosse da ostinata alterigia che nei fatti concreti non conoscono bene ed a fondo neppure il Catechismo della Chiesa Cattolica, presumendo pur malgrado non solo di sapere, ma di correggere col palese errore chi i misteri della fede li serve, li realizza per grazia di Dio e quindi li conosce un po’ meglio di loro, non altro per … dovere d’ufficio sacramentale.
La comunità ecclesiale ha bisogno da sempre della preziosa opera di quei laici e di quelle laiche ai quali si richiede anzitutto la consapevolezza del proprio essere e la capacità di saper stare sempre al loro posto all’interno della Chiesa. O come disse ad una “pia donna” un mio giovane confratello quando nel corso dell’estate si trovò a sostituire in due parrocchie un parroco che era andato un po’ in vacanza: «Mi dia immediatamente la chiave del tabernacolo; e se proprio vuole fare un servizio utile, tenga presente che i paramenti sacri sono maleodoranti, i camici ingialliti ed il pavimento della chiesa sporco. E non si azzardi a dire che io sono un prete maschilista, perché non intendo affatto pulire io la chiesa mentre lei è illecitamente impegnata a custodire ed a gestire la Santissima Eucaristia». Quando questo confratello mi narrò il fatto risposi: «Hai fatto bene, perché certe inopportune e invadenti beghine sarebbero capaci a mettere la ramazza in mano al vescovo per usare loro al posto suo il bastone pastorale».
Parlando a tu per tu di questioni dogmatiche col confratello Giovanni Cavalcoli in una pausa durante l’ultimo convegno promosso dall’Associazione Internazionale Tomas Tyn [qui], affermai: «Tu che sei un sacerdote e un teologo anziano correggimi se sbaglio: L’infallibilità risiede nella grazia legata all’istituto di cui il Romano Pontefice si avvale. O per meglio intendersi: non è infallibile la persona in sé e di per sé, ma ciò che la persona-istituzione esprime in materia di dottrina e di fede, per ciò che la persona-istituzione rappresenta per mandato divino ricevuto e non certo per ciò che la persona umanamente è. Questo è l’elemento teologico che sfugge purtroppo ai papolatri ideologici o mediatici dei nostri giorni. E non credo che affermare questo sia un giocare a questioni di lana caprina, perché l’uomo, come Pietro dimostra e come i Vangeli ci narrano, può essere anche debole, fragile e inadeguato; sulla scia emotiva può atteggiarsi anche a leone, ma al primo odore di pericolo tirare fuori il pelo del coniglio e fuggire spaventato di fronte al pericolo affermando “Non conosco costui” [Mt 26,69-75], od affermando in modo diverso: “Sono vecchio e stanco e non ce la faccio più”. Eppure, al di là di tutto questo, l’ufficio ch’egli ricopre è edificato su un mistero di fede, su un dogma fondante della Chiesa per la quale Pietro e tutti i suoi successori hanno ricevuto le chiavi del Regno assieme al potere di legare e di sciogliere [Mt 16:14-18], ed all’occorrenza, nell’adempimento del loro ufficio apostolico i pontefici — tutti, inclusi i peggiori che la storia della Chiesa abbia avuto — saranno assistiti dalla potenza dello Spirito Santo, che per loro tramite parlerà e guiderà la Chiesa, sempre. Questo è il vero dogma di fede della infallibilità, tutto il resto è solamente idolatria da parte di persone più o meno cattoliche, più o meno in buona fede, più o meno ignoranti in materia di dottrina, ma che con rara prepotenza osano spesso imporre le loro idee opinabili come se fossero le vere, autentiche e sole dottrine della Chiesa, in massimo sprezzo e violazione alle leggi della Chiesa stessa» [C.I.C. can. 227, vedere qui].
Personalmente marcio per Cristo e se per Cristo devo all’occorrenza combattere lo faccio con la certezza di fede che «Εν τούτῳ νίκα, in hoc signo vinces». E alla testa di ogni “battaglia” c’è la suprema guida di Pietro, che è segno vivente e pietra viva sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa; e ciò fino a quando Pietro veste i suoi panni di guida suprema e di supremo pastore della Chiesa universale, non certo quando Simone si esprime ed esterna come “dottore privato” o, come si direbbe in altro linguaggio, quando agisce o parla in veste di privato cittadino.
Sempre parlando di Simone: la libertà concessa ai figli di Dio mi consente di esprimere tutte le dovute perplessità sulle numerose espressioni monche o ambigue attraverso le quali egli seguita ad esprimersi come “libero cittadino” [qui]. Pertanto, nel più fedele ossequio al deposito della fede, al magistero e alla dottrina cattolica, è del tutto lecito — volendo anche doveroso — sostenere che quanto Simone afferma in sua veste di dottore privato, o per così dire di libero cittadino, non è dottrina vincolante della Chiesa. E ciò non perché lo spiega il filosofo metafisico e teologo Antonio Livi [vedere articolo già richiamato, qui] o perché lo affermo io o chicchessia, ma perché lo dice la dottrina cattolica, con buona pace del fitto e pericoloso esercito di nuovi papolatri emotivi o mediatici che sono usciti dalla propria dimensione di orfani della sinistra radicale scoprendo d’incanto il loro nuovo Che Guevara, il loro nuovo Mao Tse-Tung.
Vincolante è il magistero, lo sono i documenti del sommo magistero e tutto ciò che Pietro esprime in materia di dottrina e di fede, non certo le interviste a braccio rilasciate a giornalisti più o meno miscredenti, oltre che fieri e orgogliosi di essere tali, sentendosi viepiù legittimati nella propria miscredenza proprio in virtù della amichevole considerazione a loro concessa da Simone.
Pietro ha sempre parlato attraverso le sue encicliche, le sue locuzioni, le sue omelie, attraverso i vari atti ufficiali del proprio sommo magistero; oggi Simone risponde invece a giornalisti e intervistatori, ad uno dei quali, di recente, ha persino parlato di un nuovo istituto, quello del “papato emerito”, anche se il giornalista non gli aveva chiesto proprio nulla a tal proposito.
Domanda rivolta al Santo Padre da Johannes Schidelko dell’Agenzia Cattolica tedesca:
«Grazie. Santità, quale tipo di rapporto c’è tra lei e Benedetto XVI? esiste un abituale scambio di opinioni, di idee, esiste un progetto comune dopo questa enciclica?»
Risponde il Santo Padre:
«Ci vediamo … Prima di partire sono andato a trovarlo. Lui, due settimane prima, mi ha inviato uno scritto interessante: mi chiedeva l’opinione … E, abbiamo un rapporto normale perché torno a questa idea: forse non piace a qualche teologo – io non sono teologo – ma penso che il Papa emerito non sia un’eccezione, ma dopo tanti secoli è il primo emerito, questo. Pensiamo, eh sì, come lui ha detto, “sono invecchiato, non ho le forze” … Ma è stato un bel gesto di nobiltà e anche di umiltà e di coraggio. Ma, io penso: 70 anni fa i vescovi emeriti, anche, erano un’eccezione: non esistevano. Oggi i vescovi emeriti sono una istituzione. Io penso che “Papa emerito” sia già un’istituzione. Perché? Perché la nostra vita si allunga e a una certa età non c’è la capacità di governare bene, perché il corpo si stanca … ma, la salute forse è buona, ma non c’è la capacità di portare avanti tutti i problemi di un governo come quello della Chiesa. E io credo che Papa Benedetto XVI abbia fatto questo gesto di Papi emeriti. Ripeto: forse qualche teologo mi dirà che questo non è giusto, ma io la penso così. I secoli diranno se è così o no. Vediamo. Ma lei potrà dirmi: “E se lei non se la sentirà, un giorno, di andare avanti?”. Ma, farei lo stesso, eh? Farei lo stesso! Pregherò molto, ma farei lo stesso. Ha aperto una porta che è istituzionale, noneccezionale. Il nostro rapporto è di fratelli, davvero, ma io ho detto anche che lo sento come avere il nonno a casa per la saggezza: è un uomo con una saggezza, con le nuances, ma, che mi fa bene sentirlo. E, anche, mi incoraggia abbastanza. Questo è il rapporto che abbiamo con lui [testo integrale su Radio Vaticana, qui]».
Dinanzi a questa risposta sorge di nuovo un quesito: ha parlato Pietro, od ha parlato Simone? Bisogna infatti notare che per quanto l’espressione in questione sia stata pronunciata dal Santo Padre, al momento, per noi cattolici, questo istituto del “Papa emerito” non esiste; e non esisterà sin quanto non sarà sancito con un documento ufficiale, inserito nel codice di diritto canonico e assunto come disciplina vincolante della Chiesa.
Noi che nel concreto viviamo nel pronto soccorso della «Chiesa ospedale da campo», sappiamo bene quanto sia sempre più alto il numero di sacerdoti sofferenti dinanzi a Simone che a cadenza ciclica comunica a braccio ai giornalisti progetti di decisioni futuribili, o dando loro risposte connesse a delicati e articolati temi legati alla dottrina e al diritto interno della Chiesa, mentre i vescovi per un verso, i presbiteri per altro verso, devono subire l’umiliazione di apprendere il tutto dalle colonne di giornali sostenuti dalle sinistre anticattoliche, abortiste, amoreggianti con l’eutanasia e con l’omosessualismo, o dalle colonne di giornali sostenuti dalle lobby massoniche, come se gli uomini chiamati attraverso i tre gradi del sacro ordine a servire fedelmente la Chiesa ed a collaborare con Pietro fossero solo un inutile fanalino di coda, messo là come accessorio estremo. O forse qualcuno pensa che ci si possa davvero avvalere di questo pernicioso esercito di laici non cattolici, di eretici pentecostali, di miscredenti di varia fatta e di figure legate mani e piedi alle logge massoniche, per produrre del bene all’interno della Chiesa e per poi trasmetterlo al mondo attraverso l’opera pastorale della Chiesa? Non dobbiamo mai dimenticare che la Chiesa ha ricevuto dal Verbo di Dio questo preciso mandato: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» [Mc16,15-16, qui]. Chi poi volesse approfondire questo discorso può sempre leggere con attenzione la DichiarazioneDominus Jesus, molto esaustiva a tal proposito [testo: qui].
Meno male che sono solo un povero peccatore e un piccolo prete, perché se avessi l’autorevolezza dell’Apostolo Paolo che rimproverò Pietro ad Antiochia [Cf. Gal 2,1-2,7-14, qui, Cf. Catechesi di San Giovanni Paolo II sull’autorità di Pietro, qui], o la santità di San Bernardo di Chiaravalle o di Santa Caterina da Siena, credo che a tal proposito scriverei molto di più, forse persino in termini più severi. È che purtroppo mi mancano del tutto i due presupposti fondamentali e imprescindibili: l’autorevolezza paolina e la santità dei dottori della Chiesa Bernardo e Caterina.
Dinanzi a tutto questo è pienamente legittimo replicare che non basta un semplice precedente storico, anche se di portata straordinaria, per certi versi anche traumatica come la abdicazione dal sacro soglio di Benedetto XVI, per comunicare tramite un giornalista all’intera orbe chattolica l’esistenza di un istituto avente tra l’altro a che fare con un dogma fondante del mistero della Chiesa: «Tu es Petrus» [cf. Mt 16:14-18]. O per caso è lecito alzarsi una mattina e dichiarare l’esistenza di un nuovo istituto parlando a braccio in modo amabile con i giornalisti, a partire da quel corrispondente tedesco che tra l’altro, a tal proposito, faccio notare che non aveva domandato proprio alcunché su quello specifico tema? O dobbiamo forse dedurre che basta la prassi per modificare dottrine e leggi che fanno parte della traditio chatolica edificata sulla Rivelazione e sul depositum fidei?
In questo clima di totale confusione è evidente a chiunque voglia vedere la realtà quanto vi sia una grande ricerca, più o meno sensazionale e spasmodica, di “parole nuove” destinate di prassi a piacere, ma nessuna ricerca, purtroppo, di parole chiare e inequivocabili destinate non sempre a piacere, perché fondate su quei misteri della fede che ci pongono dinanzi alle nostre responsabilità e che ci ricordano in modo deciso che non è possibile servire due padroni [Cf. Lc 16, 13, qui].
Viene pertanto da chiedersi: e se Benedetto XVI si fosse arrestato lungo la Via Dolorosa, dicendo più o meno di essere troppo anziano e di avere le spalle non idonee per portare la croce perché colpito da artrite reumatoide? Si potrebbe pertanto ipotizzare — sulla scia del precedente inaugurato da Benedetto XVI — che il suo successore tenda a passeggiare alle pendici del Colle Vaticano nell’attesa di familiarizzare con il dato storico del martirio del Principe degli Apostoli [Cf. Clemente di Roma, lettera ai Corinzi, V]; o con l’idea che nella cima di quel Colle c’è quella croce sulla quale Pietro finirà inesorabilmente crocifisso a testa all’ingiù e dinanzi alla quale non sarà possibile dire: «Ho problemi al femore e non posso salire, è bene dunque che lo faccia un altro che abbia le gambe più giovani e sane delle mie, anche perché grazie a Dio, da clericali maliziosi quali siamo, contro la Via Dolorosa e contro la Croce ci siamo inventati l’istituto del “papa emerito” che alla buona occorrenza ci può venire in soccorso!».
Detto questo ritengo superfluo ribadire la mia devota e filiale obbedienza al regnante pontefice, l’ho già fatto in vari articoli, incluso quello dedicato alla teologia della speranza e al fondamento di fede del ministero petrino [qui, qui, qui], oltre ad avere pubblicamente richiamato più volte certi cattolici o presunti tali che si sono lasciati andare non a critiche rispettose, legittime e come tali riconosciute e tutelate dalla stessa legge della Chiesa [vedere i già richiamati cann. 218, 386, 2 C.I.C. vedere qui], ma ad aggressioni rivolte al Romano Pontefice in modo spesso insolente e per questo del tutto inaccettabili. E non ribadisco l’ovvio perché a questo punto potrei correre il rischio di dare l’impressione che intendo mettere le mani avanti o porre in qualche modo a riparo me stesso. Mentre in verità non è così: chi conosce me o chi legge quanto scrivo dovrebbe sapere che vivo perennemente allo scoperto, in tutti i sensi, perché lo spirito pavido e omissivo non sono certo due onorevoli capisaldi sui quali edificare e portare avanti il ministero sacerdotale come fosse un qualsiasi “quieto impiego”, o peggio come se fosse un trampolino di lancio per una rispettabile ed a tratti anche ambita carriera [Prete disoccupato, con riferimento alla postfazione, qui, qui].
Le alternative non sono molte: o in questo preciso momento storico Pietro accetta di salire verso la croce in catene coi piedi sanguinanti, oppure, dopo bagni di folla e frasi ad effetto più o meno monche e dai significati più disparati e ambigui, anche questo Pietro potrebbe correre il rischio di finire col dire che l’età, la salute e le forze non gli consentono più di andare avanti. E in un lasso di tempo tutt’altro che lungo la Chiesa di Dio potrebbe ritrovarsi con due pontefici così detti emeriti ed un terzo eletto; e se anche questo terzo non si deciderà a prendere il toro per le corna in modo deciso, forse si potrebbe correre il rischio di finire come l’impero romano nel periodo della sua massima decadenza, quando uno appresso all’altro si susseguivano imperatori, sino al punto che il popolo non conosceva più neppure i loro nomi.
Tra le evidenze prodotte da quelle apostasie dalla fede non più striscianti ma ormai palesi, che in seno alla Chiesa si sono sviluppate nel corso dell’ultimo mezzo secolo, con gli eretici che ormai perseguitano in modo aperto i figli devoti alla Chiesa e al deposito della fede cattolica, da una parte preghiamo che Simone vesta presto i panni di Pietro, dall’altra che la misericordia di Dio ci salvi attraverso la potenza dello Spirito Santo, oppure che ci conceda la grazia di collassare quanto prima. Una volta che la Chiesa sarà infatti implosa su se stessa e decimata dalla peste di quella apostasia che nei concreti fatti è assai peggiore della grande pestilenza del 1348, potremo lavorare sulle ceneri a ricostruire tutto da capo, come più volte avvenuto nel corso della nostra storia, quando le pestilenze uccidevano solo i corpi, al contrario di quelle odierne che uccidono le anime «come un’onda libera» che le porta via, mentre la voce di Cristo grida sempre più disperata: «Vieni, vieni con me … vieni appresso a me», cadendo sempre più nel nulla, in questo nostro diabolico Andamento Lento … [qui].
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