Nicola Bux. «Chiesa ortodossa e seconde nozze»
Di seguito pubblico l'articolo di don Nicola Bux, come risposta pertinente - e puntale antidoto - all'ultimo assist
di Andrea Tornielli al nuovo corso che si tenta di imprimere alla
'pastorale' familiare, nello specifico aspetto della comunione ai
divorziati risposati. Ornai è evidente che - pur nella sua marginalità
rispetto ad altre tematiche fondamentali riguardanti non solo questo
versante della realtà sociale e spirituale - questo argomento non è
altro che il veicolo di concetti dottrinali più complessi come quello
di natura umana e di legge naturale.
Clamorosamente e subdolamente ingannevole, su Vatican Insider oggi (sottoriportato *) : «Il Concilio di Trento non condannò la prassi orientale sul
matrimonio». Riporto un passo specifico tratto da «La Civiltà
Cattolica», in un recente articolo ivi richiamato che - dice - ricorda
una pagina di storia dimenticata. I padri tridentini, pur proclamando
l'indissolubilità, decisero di non scomunicare la possibilità delle
seconde nozze negli antichi «riti greci» in vigore nelle isole
controllate dalla Serenissima.
[...] Secondo l'articolo de «La Civiltà Cattolica», nella Chiesa dei
primi secoli per «indissolubilità» s'intendeva l’esigenza evangelica di
non infrangere il matrimonio e di osservare il precetto del Signore «di
non dividere ciò che Dio ha unito», da contrapporre alla legge civile,
che considerava legittimo il ripudio e il divorzio. «Tuttavia - osserva
padre Pani - anche al cristiano poteva accadere di fallire nel proprio
matrimonio e di passare a una nuova unione; questo peccato, come ogni
peccato, non era escluso dalla misericordia di Dio, e la Chiesa aveva e
rivendicava il potere di assolverlo. Si trattava proprio
dell’applicazione della misericordia e della condiscendenza pastorale,
che tiene conto della fragilità e peccaminosità dell’uomo. Tale
misericordia è rimasta nella tradizione orientale sotto il nome di oikonomia:
pur riconoscendo l’indissolubilità del matrimonio proclamata dal
Signore, in quanto icona dell’unione di Cristo con la Chiesa, sua sposa,
la prassi pastorale viene incontro ai problemi degli sposi che vivono
situazioni matrimoniali irrecuperabili. Dopo un discernimento da parte
del vescovo e dopo una penitenza, si possono riconciliare i fedeli,
dichiarare valide le nuove nozze e riammetterli alla comunione». [...]
Su questo concetto di oikoinomia della tradizione orientale,
richiamo il testo di un monaco ortodosso convertito al cattolicesimo,
provvidenzialmente appena pubblicato [qui].
Inoltre riporto di seguito il testo di don Nicola Bux, tratto dalla postfazione che egli ha scritto per l'ultima opera di Antonio Livi,
teologo e filosofo della Pontificia Università Lateranense, dedicata
agli scritti e discorsi del cardinale Giuseppe Siri (1906-1989): A.
Livi, "Dogma e liturgia. Istruzioni dottrinali e norme pastorali sul
culto eucaristico e sulla riforma liturgica promossa dal Vaticano II", Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma, 2014. [Ne abbiamo parlato qui]
«Chiesa ortodossa e seconde nozze»
Recentemente, il cardinale Walter Kasper si è riferito alla prassi
ortodossa delle seconde nozze per sostenere che anche i cattolici che
fossero divorziati e risposati dovrebbero essere ammessi alla comunione.
Forse, però, non ha badato al fatto che gli ortodossi non fanno la
comunione nel rito delle seconde nozze, in quanto nel rito bizantino del
matrimonio non è prevista la comunione, ma solo lo scambio della coppa
comune di vino, che non è quello consacrato.
Inoltre, tra i cattolici si suol dire che gli ortodossi permettono le
seconde nozze, quindi tollerano il divorzio dal primo coniuge.
In verità non è proprio così, perché non si tratta dell'istituzione
giuridica moderna. La Chiesa ortodossa è disposta a tollerare le seconde
nozze di persone il cui vincolo matrimoniale sia stato sciolto da essa,
non dallo Stato, in base al potere dato da Gesù alla Chiesa di
“sciogliere e legare”, e concedendo una seconda opportunità in alcuni
casi particolari (tipicamente, i casi di adulterio continuato, ma per
estensione anche certi casi nei quali il vincolo matrimoniale sia
divenuto una finzione). È prevista, per quanto scoraggiata, anche la
possibilità di un terzo matrimonio. Inoltre, la possibilità di accedere
alle seconde nozze, nei casi di scioglimento del matrimonio, viene
concessa solo al coniuge innocente.
Le seconde e terze nozze, a differenza del primo matrimonio, sono
celebrate tra gli ortodossi con un rito speciale, definito “di tipo
penitenziale”. Poiché nel rito delle seconde nozze mancava in antico il
momento dell'incoronazione degli sposi – che la teologia ortodossa
ritiene il momento essenziale del matrimonio – le seconde nozze non
sono un vero sacramento, ma, per usare la terminologia latina, un
"sacramentale", che consente ai nuovi sposi di considerare la propria
unione come pienamente accettata dalla comunità ecclesiale. Il rito
delle seconde nozze si applica anche nel caso di sposi rimasti vedovi.
La non sacramentalità delle seconde nozze trova conferma nella
scomparsa della comunione eucaristica dai riti matrimoniali bizantini,
sostituita dalla coppa intesa come simbolo della vita comune. Ciò appare
come un tentativo di "desacramentalizzare" il matrimonio, forse per
l'imbarazzo crescente che le seconde e terze nozze inducevano, a motivo
della deroga al principio dell'indissolubilità del vincolo, che è
direttamente proporzionale al sacramento dell'unità: l'eucaristia.
A tal proposito, il teologo ortodosso Alexander Schmemann ha scritto che
proprio la coppa, elevata a simbolo della vita comune, “mostra la
desacramentalizzazione del matrimonio ridotto ad una felicità naturale.
In passato, questa era raggiunta con la comunione, la condivisione
dell'eucaristia, sigillo ultimo del compimento del matrimonio in Cristo.
Cristo deve essere la vera essenza della vita insieme”. Come rimarrebbe
in piedi questa "essenza"?
Dunque, si tratta di un “qui pro quo” imputabile in ambito cattolico
alla scarsa o nulla considerazione per la dottrina, per cui si è
affermata l'opinione, meglio l'eresia, che la messa senza la comunione
non sia valida. Tutta la preoccupazione della comunione per i divorziati
risposati, che poco ha a che fare con la visione e la prassi orientale,
è una conseguenza di ciò.
Una decina d'anni fa, collaborando alla preparazione del sinodo
sull'eucaristia, a cui partecipai poi come esperto nel 2005, tale
"opinione" fu avanzata dal cardinale Cláudio Hummes, membro del
consiglio della segreteria del sinodo. Invitato dal cardinale Jan Peter
Schotte, allora segretario generale, dovetti ricordare a Hummes che i
catecumeni e i penitenti – tra i quali c'erano i dìgami –, nei diversi
gradi penitenziali, partecipavano alla celebrazione della messa o a
parti di essa, senza accostarsi alla comunione.
L'erronea "opinione" è oggi diffusa tra chierici e fedeli, per cui, come
osservò Joseph Ratzinger: “Si deve nuovamente prendere molto più chiara
coscienza del fatto che la celebrazione eucaristica non è priva di
valore per chi non si comunica. [...] Siccome l'eucaristia non è un
convito rituale, ma la preghiera comunitaria della Chiesa, in cui il
Signore prega con noi e a noi si partecipa, essa rimane preziosa e
grande, un vero dono, anche se non possiamo comunicarci. Se
riacquistassimo una conoscenza migliore di questo fatto e rivedessimo
così l'eucaristia stessa in modo più corretto,vari problemi pastorali,
come per esempio quello della posizione dei divorziati risposati,
perderebbero automaticamente molto del loro peso opprimente.”
Quanto descritto è un effetto della divaricazione ed anche
dell'opposizione tra dogma e liturgia. L'apostolo Paolo ha chiesto
l'auto-esame di coloro che intendono comunicarsi, onde non mangiare e
bere la propria condanna (1 Corinti 11, 29). Ciò significa: “Chi
vuole il cristianesimo soltanto come lieto annuncio, in cui non deve
esserci la minaccia del giudizio, lo falsifica”.
Ci si chiede come si sia giunti a questo punto. Da diversi autori, nella
seconda metà del secolo scorso, si è sostenuta la teoria – ricorda
Ratzinger – che “fa derivare l'eucaristia più o meno esclusivamente dai
pasti che Gesù consumava con i peccatori. […] Ma da ciò segue poi
un'idea dell'eucaristia che non ha nulla in comune con la consuetudine
della Chiesa primitiva”. Sebbene Paolo protegga con l'anatema la
comunione dall'abuso (1 Corinti 16, 22), la teoria suddetta propone
“come essenza dell'eucaristia che essa venga offerta a tutti senza
alcuna distinzione e condizione preliminare, […] anche ai peccatori,
anzi, anche ai non credenti”.
No, scrive ancora Ratzinger: sin dalle origini l'eucaristia non è stata
compresa come un pasto con i peccatori, ma con i riconciliati:
“Esistevano anche per l'eucaristia fin dall'inizio condizioni di accesso
ben definite [...] e in questo modo ha costruito la Chiesa”.
L'eucaristia, pertanto, resta “il banchetto dei riconciliati”, cosa che
viene ricordata dalla liturgia bizantina, al momento della comunione,
con l'invito "Sancta sanctis", le cose sante ai santi.
Ma nonostante ciò la teoria dell'invalidità della messa senza la comunione continua ad influenzare la liturgia odierna.
Di seguito pubblico l'articolo di don Nicola Bux, come risposta pertinente - e puntale antidoto - all'ultimo assist
di Andrea Tornielli al nuovo corso che si tenta di imprimere alla
'pastorale' familiare, nello specifico aspetto della comunione ai
divorziati risposati. Ornai è evidente che - pur nella sua marginalità
rispetto ad altre tematiche fondamentali riguardanti non solo questo
versante della realtà sociale e spirituale - questo argomento non è
altro che il veicolo di concetti dottrinali più complessi come quello
di natura umana e di legge naturale.
Clamorosamente e subdolamente ingannevole, su Vatican Insider oggi (sottoriportato *) : «Il Concilio di Trento non condannò la prassi orientale sul
matrimonio». Riporto un passo specifico tratto da «La Civiltà
Cattolica», in un recente articolo ivi richiamato che - dice - ricorda
una pagina di storia dimenticata. I padri tridentini, pur proclamando
l'indissolubilità, decisero di non scomunicare la possibilità delle
seconde nozze negli antichi «riti greci» in vigore nelle isole
controllate dalla Serenissima.
[...] Secondo l'articolo de «La Civiltà Cattolica», nella Chiesa dei primi secoli per «indissolubilità» s'intendeva l’esigenza evangelica di non infrangere il matrimonio e di osservare il precetto del Signore «di non dividere ciò che Dio ha unito», da contrapporre alla legge civile, che considerava legittimo il ripudio e il divorzio. «Tuttavia - osserva padre Pani - anche al cristiano poteva accadere di fallire nel proprio matrimonio e di passare a una nuova unione; questo peccato, come ogni peccato, non era escluso dalla misericordia di Dio, e la Chiesa aveva e rivendicava il potere di assolverlo. Si trattava proprio dell’applicazione della misericordia e della condiscendenza pastorale, che tiene conto della fragilità e peccaminosità dell’uomo. Tale misericordia è rimasta nella tradizione orientale sotto il nome di oikonomia: pur riconoscendo l’indissolubilità del matrimonio proclamata dal Signore, in quanto icona dell’unione di Cristo con la Chiesa, sua sposa, la prassi pastorale viene incontro ai problemi degli sposi che vivono situazioni matrimoniali irrecuperabili. Dopo un discernimento da parte del vescovo e dopo una penitenza, si possono riconciliare i fedeli, dichiarare valide le nuove nozze e riammetterli alla comunione». [...]
Su questo concetto di oikoinomia della tradizione orientale,
richiamo il testo di un monaco ortodosso convertito al cattolicesimo,
provvidenzialmente appena pubblicato [qui].
Inoltre riporto di seguito il testo di don Nicola Bux, tratto dalla postfazione che egli ha scritto per l'ultima opera di Antonio Livi, teologo e filosofo della Pontificia Università Lateranense, dedicata agli scritti e discorsi del cardinale Giuseppe Siri (1906-1989): A. Livi, "Dogma e liturgia. Istruzioni dottrinali e norme pastorali sul culto eucaristico e sulla riforma liturgica promossa dal Vaticano II", Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma, 2014. [Ne abbiamo parlato qui]
Recentemente, il cardinale Walter Kasper si è riferito alla prassi ortodossa delle seconde nozze per sostenere che anche i cattolici che fossero divorziati e risposati dovrebbero essere ammessi alla comunione.
Inoltre riporto di seguito il testo di don Nicola Bux, tratto dalla postfazione che egli ha scritto per l'ultima opera di Antonio Livi, teologo e filosofo della Pontificia Università Lateranense, dedicata agli scritti e discorsi del cardinale Giuseppe Siri (1906-1989): A. Livi, "Dogma e liturgia. Istruzioni dottrinali e norme pastorali sul culto eucaristico e sulla riforma liturgica promossa dal Vaticano II", Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma, 2014. [Ne abbiamo parlato qui]
«Chiesa ortodossa e seconde nozze»
Recentemente, il cardinale Walter Kasper si è riferito alla prassi ortodossa delle seconde nozze per sostenere che anche i cattolici che fossero divorziati e risposati dovrebbero essere ammessi alla comunione.
Forse, però, non ha badato al fatto che gli ortodossi non fanno la
comunione nel rito delle seconde nozze, in quanto nel rito bizantino del
matrimonio non è prevista la comunione, ma solo lo scambio della coppa
comune di vino, che non è quello consacrato.
Inoltre, tra i cattolici si suol dire che gli ortodossi permettono le
seconde nozze, quindi tollerano il divorzio dal primo coniuge.
In verità non è proprio così, perché non si tratta dell'istituzione
giuridica moderna. La Chiesa ortodossa è disposta a tollerare le seconde
nozze di persone il cui vincolo matrimoniale sia stato sciolto da essa,
non dallo Stato, in base al potere dato da Gesù alla Chiesa di
“sciogliere e legare”, e concedendo una seconda opportunità in alcuni
casi particolari (tipicamente, i casi di adulterio continuato, ma per
estensione anche certi casi nei quali il vincolo matrimoniale sia
divenuto una finzione). È prevista, per quanto scoraggiata, anche la
possibilità di un terzo matrimonio. Inoltre, la possibilità di accedere
alle seconde nozze, nei casi di scioglimento del matrimonio, viene
concessa solo al coniuge innocente.
Le seconde e terze nozze, a differenza del primo matrimonio, sono
celebrate tra gli ortodossi con un rito speciale, definito “di tipo
penitenziale”. Poiché nel rito delle seconde nozze mancava in antico il
momento dell'incoronazione degli sposi – che la teologia ortodossa
ritiene il momento essenziale del matrimonio – le seconde nozze non
sono un vero sacramento, ma, per usare la terminologia latina, un
"sacramentale", che consente ai nuovi sposi di considerare la propria
unione come pienamente accettata dalla comunità ecclesiale. Il rito
delle seconde nozze si applica anche nel caso di sposi rimasti vedovi.
La non sacramentalità delle seconde nozze trova conferma nella
scomparsa della comunione eucaristica dai riti matrimoniali bizantini,
sostituita dalla coppa intesa come simbolo della vita comune. Ciò appare
come un tentativo di "desacramentalizzare" il matrimonio, forse per
l'imbarazzo crescente che le seconde e terze nozze inducevano, a motivo
della deroga al principio dell'indissolubilità del vincolo, che è
direttamente proporzionale al sacramento dell'unità: l'eucaristia.
A tal proposito, il teologo ortodosso Alexander Schmemann ha scritto che
proprio la coppa, elevata a simbolo della vita comune, “mostra la
desacramentalizzazione del matrimonio ridotto ad una felicità naturale.
In passato, questa era raggiunta con la comunione, la condivisione
dell'eucaristia, sigillo ultimo del compimento del matrimonio in Cristo.
Cristo deve essere la vera essenza della vita insieme”. Come rimarrebbe
in piedi questa "essenza"?
Dunque, si tratta di un “qui pro quo” imputabile in ambito cattolico
alla scarsa o nulla considerazione per la dottrina, per cui si è
affermata l'opinione, meglio l'eresia, che la messa senza la comunione
non sia valida. Tutta la preoccupazione della comunione per i divorziati
risposati, che poco ha a che fare con la visione e la prassi orientale,
è una conseguenza di ciò.
Una decina d'anni fa, collaborando alla preparazione del sinodo
sull'eucaristia, a cui partecipai poi come esperto nel 2005, tale
"opinione" fu avanzata dal cardinale Cláudio Hummes, membro del
consiglio della segreteria del sinodo. Invitato dal cardinale Jan Peter
Schotte, allora segretario generale, dovetti ricordare a Hummes che i
catecumeni e i penitenti – tra i quali c'erano i dìgami –, nei diversi
gradi penitenziali, partecipavano alla celebrazione della messa o a
parti di essa, senza accostarsi alla comunione.
L'erronea "opinione" è oggi diffusa tra chierici e fedeli, per cui, come
osservò Joseph Ratzinger: “Si deve nuovamente prendere molto più chiara
coscienza del fatto che la celebrazione eucaristica non è priva di
valore per chi non si comunica. [...] Siccome l'eucaristia non è un
convito rituale, ma la preghiera comunitaria della Chiesa, in cui il
Signore prega con noi e a noi si partecipa, essa rimane preziosa e
grande, un vero dono, anche se non possiamo comunicarci. Se
riacquistassimo una conoscenza migliore di questo fatto e rivedessimo
così l'eucaristia stessa in modo più corretto,vari problemi pastorali,
come per esempio quello della posizione dei divorziati risposati,
perderebbero automaticamente molto del loro peso opprimente.”
Quanto descritto è un effetto della divaricazione ed anche
dell'opposizione tra dogma e liturgia. L'apostolo Paolo ha chiesto
l'auto-esame di coloro che intendono comunicarsi, onde non mangiare e
bere la propria condanna (1 Corinti 11, 29). Ciò significa: “Chi
vuole il cristianesimo soltanto come lieto annuncio, in cui non deve
esserci la minaccia del giudizio, lo falsifica”.
Ci si chiede come si sia giunti a questo punto. Da diversi autori, nella
seconda metà del secolo scorso, si è sostenuta la teoria – ricorda
Ratzinger – che “fa derivare l'eucaristia più o meno esclusivamente dai
pasti che Gesù consumava con i peccatori. […] Ma da ciò segue poi
un'idea dell'eucaristia che non ha nulla in comune con la consuetudine
della Chiesa primitiva”. Sebbene Paolo protegga con l'anatema la
comunione dall'abuso (1 Corinti 16, 22), la teoria suddetta propone
“come essenza dell'eucaristia che essa venga offerta a tutti senza
alcuna distinzione e condizione preliminare, […] anche ai peccatori,
anzi, anche ai non credenti”.
No, scrive ancora Ratzinger: sin dalle origini l'eucaristia non è stata
compresa come un pasto con i peccatori, ma con i riconciliati:
“Esistevano anche per l'eucaristia fin dall'inizio condizioni di accesso
ben definite [...] e in questo modo ha costruito la Chiesa”.
L'eucaristia, pertanto, resta “il banchetto dei riconciliati”, cosa che
viene ricordata dalla liturgia bizantina, al momento della comunione,
con l'invito "Sancta sanctis", le cose sante ai santi.
Ma nonostante ciò la teoria dell'invalidità della messa senza la comunione continua ad influenzare la liturgia odierna.
* «Il Concilio di Trento non condannò la prassi orientale sul matrimonio»
Sinodo sulla famiglia: «La Civiltà Cattolica» ricorda una pagina di storia dimenticata. I padri tridentini, pur proclamando l'indissolubilità, decisero di non scomunicare la possibilità delle seconde nozze negli antichi «riti greci» in vigore nelle isole controllate dalla Serenissima
È una pagina di storia poco conosciuta, che «La Civiltà Cattolica», l'autorevole rivista dei gesuiti le cui bozze sono riviste dalla Segreteria di Stato, ha deciso di mettere in pagina nel numero che esce a Sinodo sulla famiglia appena iniziato. I contenuti della rivista sono stati anticipati questa mattina ai giornalisti. L'articolo di padre Giancarlo Pani s'intitola «Matrimonio e seconde nozze al Concilio di Trento», e racconta quanto avvenne nel 1563, quando si discusse il canone nel quale si condannava e si scomunicava quanti ritenevano possibile un secondo matrimonio in seguito a un adulterio.
L'autore, dopo aver ricordato che la Chiesa, «radicata nella fede ricevuta dagli apostoli, deve saper guardare il presente e proiettarsi nel futuro, per aggiornarsi, per essere vicina agli uomini e rinnovarsi sotto l’azione dello Spirito», rievoca la storia di «uno dei decreti più innovativi del Concilio di Trento: quello sul matrimonio, detto "Tametsi"». Il decreto vieta i matrimoni clandestini, sancisce la libertà del consenso, l’unità e l’indissolubilità del vincolo, la celebrazione del sacramento alla presenza del sacerdote e dei testimoni; e impone, inoltre, la trascrizione dell’atto nei registri parrocchiali.
Questo è il canone in questione, distribuito il 20 luglio 1563 ai padri conciliari per l'approvazione: «Sia anatema chi dice che il matrimonio si può sciogliere per l’adulterio dell’altro coniuge, e che ad ambedue i coniugi o almeno a quello innocente, che non ha causato l’adulterio, sia lecito contrarre nuove nozze, e non commette adulterio chi si risposa dopo aver ripudiato la donna adultera, né la donna che, ripudiato l’uomo adultero, ne sposi un altro».
Ma nel corso della congregazione conciliare dell’11 agosto, viene data lettura di una richiesta degli ambasciatori veneziani. I diplomatici della Serenissima dichiarano solennemente la fedeltà di Venezia alla Sede apostolica e la sincera devozione all’autorità del Concilio. Poi avanzano una richiesta e spiegano come sia inaccettabile la formulazione del canone settimo, in quanto crea preoccupazione per i cattolici del regno di Venezia, che si trovano in Grecia e nelle isole di Creta, Cipro, Corcira, Zacinto e Cefalonia. Arrecando anche un danno gravissimo, non solo per la pace della comunità cristiana, ma anche per la Chiesa d’Oriente, in particolare per quella dei greci. In queste aree soggette al dominio veneziano vivevano molti cristiani che seguivano i riti orientali pur essendo guidati da vescovi latini. Non era in discussione la comunione col Papa - l'obbedienza al vescovo di Roma era ribadita tre volte l'anno in queste comunità - ma la consuetudine dei riti orientali.
Ora, per gli orientali era usuale, nel caso di adulterio della moglie, sciogliere il matrimonio e risposarsi, ed esiste anche un rito antichissimo dei loro Padri per la celebrazione delle nuove nozze. «Tale consuetudine - ricorda l'articolo di Civiltà Cattolica - non è stata mai condannata da nessun Concilio ecumenico, né essi sono stati colpiti da alcun anatema, benché quel rito sia stato sempre ben noto alla Chiesa cattolica romana». Gli ambasciatori chiedono pertanto ai padri conciliari che il canone sia modificato, là dove si scomunica chi dice che il matrimonio si può sciogliere per l’adulterio dell’altro coniuge. Nella richiesta si fa anche notare come questa scomunica andasse contro l’opinione di «venerabili dottori».
I Padri della Chiesa a cui ci si riferivano gli ambasciatori veneziani sono Cirillo di Alessandria, il quale, a proposito delle cause di divorzio, afferma che «non sono le lettere di divorzio che sciolgono il matrimonio di fronte a Dio, ma la cattiva condotta dell’uomo». Poi Giovanni Crisostomo, che ritiene essere l’adulterio la ragione della morte reale del matrimonio. Infine Basilio, quando parla del marito abbandonato dalla moglie, riconosce che egli può essere in comunione con la Chiesa (il testo presuppone che il marito si sia risposato). Gli ambasciatori della Serenissima propongono quindi una nuova formulazione del canone: il Concilio di Trento rinunci alla condanna della prassi orientale delle nuove nozze per adulterio mediante una norma che per di più è accompagnata dalla scomunica.
«Si vuole evitare, insomma - scrive padre Pani - che i cattolici presenti nei domini veneziani, che dipendono dai vescovi in comunione con Roma, siano colpiti dalla condanna per una prassi antichissima circa il matrimonio: un "rito greco" particolare, che però contrasta con l’indissolubilità del matrimonio sancita dal Concilio. Poiché si teme uno scisma, si propone di modificare il canone, in modo che non vengano scomunicati coloro che accettano il rito orientale, ma solo quelli che rifiutano la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio. In tal modo vengono colpiti quanti negano l’autorità del Papa o il magistero della Chiesa, ma non i cattolici greci che li riconoscono».
Dopo la discussione, 97 padri conciliari sono favorevoli alla richiesta dei veneziani e la approvano, mentre altri 80 sono contrari alla prassi orientale, ma divisi nelle loro ragioni. «Ciò non significa - scrive Civiltà Cattolica - che la maggioranza dei padri voglia mettere in questione l’indissolubilità del matrimonio: si intende solo discutere la forma della condanna. Rimane fermo il canone quinto, con le ragioni contro il divorzio».
Ecco dunque la nuova formulazione del canone settimo: «Se qualcuno dirà che la Chiesa sbaglia quando ha insegnato e insegna, secondo la dottrina del Vangelo e degli apostoli, che il vincolo del matrimonio non può essere sciolto per l’adulterio di uno dei coniugi; che nessuno dei due, nemmeno l’innocente, che non ha dato motivo all’adulterio, può contrarre un altro matrimonio, vivente l’altro coniuge; che commette adulterio il marito che, cacciata l’adultera, ne sposi un’altra, e la moglie che, cacciato l’adultero, ne sposi un altro, sia anatema». La formulazione, osserva padre Pani, «è singolare, in quanto da un lato condanna la dottrina di Lutero e dei riformatori che disprezzavano la prassi della Chiesa sul matrimonio, dall’altro lascia impregiudicate le tradizioni dei greci che, nel caso specifico, tollerano le nuove nozze». Appare anche un'altra correzione importante: non si dice più «il matrimonio», ma «il vincolo del matrimonio». Il canone tratta dunque solo della indissolubilità interna del matrimonio, cioè del fatto che il matrimonio non si scioglie ipso facto, né per l’adulterio di uno dei coniugi, e nemmeno quando i coniugi decidono in merito a questo, secondo la propria coscienza. E il Concilio «non dice nulla circa la questione se la Chiesa abbia o meno la possibilità di pronunciare una sentenza di scioglimento del vincolo».
Secondo l'articolo de «La Civiltà Cattolica», nella Chiesa dei primi secoli per «indissolubilità» s'intendeva l’esigenza evangelica di non infrangere il matrimonio e di osservare il precetto del Signore «di non dividere ciò che Dio ha unito», da contrapporre alla legge civile, che considerava legittimo il ripudio e il divorzio. «Tuttavia - osserva padre Pani - anche al cristiano poteva accadere di fallire nel proprio matrimonio e di passare a una nuova unione; questo peccato, come ogni peccato, non era escluso dalla misericordia di Dio, e la Chiesa aveva e rivendicava il potere di assolverlo. Si trattava proprio dell’applicazione della misericordia e della condiscendenza pastorale, che tiene conto della fragilità e peccaminosità dell’uomo. Tale misericordia è rimasta nella tradizione orientale sotto il nome di oikonomia: pur riconoscendo l’indissolubilità del matrimonio proclamata dal Signore, in quanto icona dell’unione di Cristo con la Chiesa, sua sposa, la prassi pastorale viene incontro ai problemi degli sposi che vivono situazioni matrimoniali irrecuperabili. Dopo un discernimento da parte del vescovo e dopo una penitenza, si possono riconciliare i fedeli, dichiarare valide le nuove nozze e riammetterli alla comunione».
La rivista dei gesuiti ricorda come nella Chiesa dei primi secoli, che «considerava l’adulterio uno dei peccati più gravi insieme all’apostasia e all’omicidio i vescovi avevano il potere di assolvere tutti i peccati, anche quelli relativi all’infedeltà coniugale e alla conclusione di una nuova unione».
Questa la pagina dimenticata del Concilio di Trento. «Oggi appare singolare - conclude l'autore dell'articolo - che al Concilio in cui si afferma l’indissolubilità del matrimonio non si condannino le nuove nozze per i cattolici della tradizione orientale. Eppure questa è la storia: una pagina di misericordia evangelica per quei cristiani che vivono con sofferenza un rapporto coniugale fallito che non si può più ricomporre; ma anche una vicenda storica che ha palesi implicazioni ecumeniche».
ANDREA TORNIELLICITTÀ DEL VATICANO
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