E.M. Radaelli. Magistero infallibile e Magistero fallibile della Chiesa. La mia Risposta a Radio Spada.
Ringrazio il prof. Enrico Maria Radaelli, per averci resi partecipi di uno scritto nel quale, rispondendo a Radio Spada, coglie l'occasione per sviluppare e approfondire una questione centrale nell'attuale temperie ecclesiale: la distinzione tra Magistero infallibile e Magistero fallibile
della Chiesa. Possiamo dunque cogliere l'opportunità di situarci nel
dibattito tra studiosi, ma soprattutto di far tesoro di un discorso che
coglie alle radici le cause - indicando la soluzione -
dell'ermeneutica dell'equivocità, la sola, a prevalere di fatto. E ciò
nonostante tentativi più o meno felici di trovare uno snodo, finora
inascoltati quanto perfino disdegnati, che permetta di uscire dalle
paludi dottrinali de-dogmatizzanti. È questo "il dibattito teologico su
cui sono imperniate, oggi, le sorti della Chiesa". Su questo siamo
chiamati a riflettere e misurarci, nella speranza e nell'attesa che
pastori in ascolto riprendano il testimone e ne facciano l'uso dovuto.
Il contenuto è lungo e denso; per cui ne metto a disposizione [qui] il testo in pdf, per chi vuole scaricarselo per una lettura più agevole e meditata.
Mi limito a richiamare l'attenzione sull'unica soluzione, da Radaelli
ritenuta possibile per metter fine a quella che egli chiama “La Grande
Guerra delle Forme”, o “Guerra delle due forme”, evidenziata
dall’incresciosa lotta che imperversa da cinquant’anni tra la forma di
un magistero ‘pastorale’ che oggi parrebbe in tutto sottratto al dogma,
suo imprescindibile principio informatore, e per questo oggi più
fallibile che mai, e la forma dell’unico magistero dichiaratamente
infallibile della Chiesa, quella dogmatica. Dunque ora l'Autore:
- dopo aver chiarito come i fedeli si devono comportare davanti a un magistero pastorale e davanti invece a quello dogmatico;
- rileva che dal Vaticano II, invece, i Pastori vogliono che i fedeli obbediscano al magistero pastorale come al dogmatico;
- sfida allora quei Pastori a fare un'ordalia: se ciò che affermano a livello pastorale va obbedito come fosse il dogmatico, provino ad affermarlo allora anche a livello dogmatico: se riescono, i fedeli obbediranno, ma se non riescono, sia anàtema sulle loro affermazioni.
Infatti Radaelli ritiene che l'unico modo per uscire da questo esiziale
contrasto, che è innanzitutto una contraddizione - già prefigurato in La Chiesa ribaltata (pp. 300-3) - sia quello di far venire allo scoperto il fronteggiarsi delle due forme di magistero: un’ordalia dunque
- egli conclude - un deciso e netto giudizio divino, che ponga fine a
una lotta fratricida che troppo si è lasciata durare, e che riporti
finalmente la Chiesa alla sua divina pace: pace di verità. Nelle sue
parole conclusive la consapevolezza di quanto sia alta la posta in
gioco:
«Oggi la posta in gioco, in vista del Sinodo ordinario sulla famiglia dell’ottobre 2015, e, più ancora, delle decisioni finali che Papa Francesco si riserva di prendere subito dopo, è senz’altro decisiva, è universale, è per la Chiesa e per tutto il mondo decisamente vitale. Dimostrare che le scelte che ne usciranno sono davvero non solo in linea con i giudizi umani, fossero anche i più alti e consigliati, ma con il giudizio di infallibile e divina verità di Nostro Signore Gesù Cristo, ecco: dimostrare proprio questo fatto inequivocabile porrà la Chiesa – e il mondo – al riparo da ogni reale o anche solo ipotetico errore, in quella limpida e soprannaturale sicurezza che si rivela necessaria quando si è davanti ai momenti estremi, ai momenti decisivi».Se devo essere sincera credo che l'unica mens subtilis capace di provare (non dico di riuscire) in un'impresa del genere potrebbe essere quella di Joseph Ratzinger. Ma a suo svantaggio stanno le sue dimissioni, formalmente valide, ma tanto inedite quanto anomale, sotto l'aspetto dei nodi non sciolti sul munus dimidiato in attivo e contemplativo - esercitato nel 'recinto di Pietro' che così non è tanto un 'luogo' geografico quanto teologico - e dunque dell'istituto di un papato-bìfido, con la figura del Papa emerito non supportata da alcun argomento né teologico né canonico. (Maria Guarini)
Custos, Quid de Nocte?
INDICE.
1. Premessa. 2. Il mio pensiero sul magistero della Chiesa. 3. Il pensiero del mio Confutatore come esposto da 'Radio Spada'. 4. Magistero infallibile (o 'Depositum fidei'). L’esempio della mosca. 5. Magistero fallibile (o 'autentico', o 'pastorale'). Il caso delle ‘verità connesse’ al Depositum fidei. 6. Il dogma, essendo la forma delle ‘verità connesse’, è anche la forma delle leggi liturgiche, della Liturgia. 7. Come una ‘conclusione teologica di fatti dogmatici’ possa passare da ‘verità connessa’ a infallibile dogma. 8.
Esempio di quel magistero fallibile (o 'autentico', o 'pastorale') che
alcuni pensatori e teologi cattolici ritengono effettivamente fallato. 9. Sui concetti di 'magistero autentico' e di 'magistero pastorale'. 10. La strategia di chi vuole dare la comunione a conviventi e divorziati e il magistero 'pastorale'. 11. Obbedienza o disobbedienza. Religioso ossequio o invece religiosa resistenza. 12. C’è un dogma che stabilisce che Gesù Cristo, oltre che Redentore degli uomini, è anche loro Legislatore. Eccolo. 13.
CONCLUSIONE: LE DUE VIE INDICATE DALLA CHIESA PER STARE ALLA REALTÀ
VANNO SEGUITE ENTRAMBE. CIASCUNA NEL SUO PRECISO AMBITO, SENZA
CONFONDERLE. 14. Una proposta per por fine alla “Grande Guerra delle Forme” che imperversa da cinquant’anni nella Chiesa.
1. PREMESSA.
22-1-15. Mi è segnalato uno scritto sul web, intitolato: Non solo fallibilisti. Una risposta a Enrico Maria Radaelli: « Nell’ambito degli attuali dibattiti sull’infallibilità pontificia – questo l’incipit –, pubblichiamo una confutazione del recente articolo di Enrico Maria Radaelli [v., l’articolo “Non solo sedevacantisti”] pubblicato su chiesaepostconcilio.blogspot.com. Questo breve saggio è pubblicato a cura del nostro redattore Pietro Ferrari ».
Ora, se mi accingo a scrivere questa precisazione al mio pensiero sulle
norme che regolano il magistero della Chiesa, in risposta a quanto
vorrebbe essere una confutazione alla mia opinione sul tema, riportata
da Radio Spada (e con ciò spero di rispondere anche alle perplessità
sollevate da alcuni lettori di Chiesaepostconcilio e di altri), non è
tanto per portare le dovute correzioni a quanto sostenuto nella
confutazione che mi si fa, ma per acclarare nella più larga misura oggi
resasi necessaria la via che la stessa Chiesa offre, nelle sue sagge
disposizioni normative, se rettamente interpretate, per disincagliarsi
dalle paludi dottrinali de-dogmatizzanti in cui alcuni Pastori, a
mio modesto avviso, l’hanno spinta da ormai dieci lustri, via che poi
non è altro che la stessa percorsa cinquant’anni fa, ma che ora essa
dovrebbe ripercorrere, e al più presto, tutta a ritroso, cioè
“ridogmatizzandosi”.
Ho detto “se rettamente interpretate”. Rettamente come? Semplice:
secondo la regola suggerita da san Vincenzo di Lérins, recepita dal
concilio dogmatico Vaticano I, Cost. dogm. Dei Filius: « [Nos credimus solum] quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est »
“[Noi crediamo solo a] ciò che sempre, in ogni luogo e da tutti è stato
creduto”. Il proposito di ogni cristiano (e, come si vedrà, dello
stesso magistero della Chiesa) è di tenere ogni articolazione della fede
sempre aderente in tutto al dogma: proprio come una fotocopia è in
tutto fedele – identica – all’originale.
La mia risposta, di studioso di filosofia dell’estetica, che a partire
dai Corsi di Filosofia della conoscenza del professor mons. Antonio Livi
alla Lateranense ha avuto modo di studiare da vicino il secondo Nome (o
qualità sostanziale) dell’Unigenito di Dio in san Tommaso: Imago, o Immagine, o Species, o Volto (il primo, come si sa, è Logos, e i rimanenti due sono Lux, Luce, o Splendor, Splendore, e Filius,
Figlio), e che da tale altissima scaturigine estetica ha potuto
applicare le risultanze germinatene per ricostruire il fondativo legame
tra dogma e vita, ecco: la mia risposta, dicevo, vuol essere, per gli studi visti sui rapporti tra forma e contenuto, imago e logos, proprio in tale spirito di totalizzante fedeltà.
È infatti questo l’aspetto del dibattito teologico su cui sono
imperniate, oggi, le sorti della Chiesa: il magistero fallibile e
l’infallibile, i suoi diversi e precisi obblighi, le sue diverse e
precise norme, e le conseguenze che derivano da eventuali non adeguate
adempienze da parte sia dei Pastori che dei fedeli, ognuno per la sua
parte, di tali diversi e precisi obblighi e norme. Tutto il resto – le
sorti della Chiesa – ne dipende: ne dipende la capacità della
Chiesa di essere se stessa, quella di fare missione, quella di avere la
necessaria forza di penetrazione dell’amoroso dogma nel mondo. E quella
infine di saper manifestare l’adeguata sua adorazione al Padre, cosa
che, come dice Amerio, di tutte, è quella che più conta.
È questo che intendo con “sorti della Chiesa”. È questo che grava sulla
chiarezza da farsi sulle tenebre di una troppo a lungo insistita
equivocità di magistero sul tema della fallibilità della sua forma
pastorale, a cui forse è tempo di dire: basta. L’equivocità è l’opposto
dell’identità. L’equivocità non permette alla copia nemmeno di
confrontarsi, con l’originale! Figuriamoci poi aderirvi. Il percorso che
si farà sarà tessuto tutto sulla trama “estetica” che nasce dal Nome Imago come quella logica dal Nome Logos, ricavandone esiti altrettanto logici, ma forse, si crede, ancor più evidenti.
D’altra parte, sarà proprio a causa di tale via “estetica” che potremo
giungere a capire meglio che cercando qualsiasi altro varco quale
conflitto ci è di fronte: se, come si vedrà, potremo giungere a parlare
di “Guerra delle Forme”, o “delle due Forme”, lo si dovrà (oltre
ovviamente al concetto di ‘forma’ di san Tommaso) solo a Imago, la qualità delle cose logiche dipendenti dal Logos
di potersi confrontare tra loro fin nei minimi particolari. E come si
confrontano? Perché si somigliano (o non si somigliano). E come mai si
somigliano (o non si somigliano)? Perché anche le parole, “le cose
logiche”, i lògoi, hanno un volto, un’immagine appunto, come tutti i segni dell’universo, fossero pure i più astratti.
2. IL MIO PENSIERO SUL MAGISTERO DELLA CHIESA.
Per ricapitolare brevemente le cose, io sostengo che, essendo il
magistero della Chiesa distinto in due grandi livelli (o gradi, o
condizioni) di certezza veritativa: l’infallibile e il fallibile, esso è
costituito da due egualmente grandi livelli (gradi, condizioni) di
obbedienza al magistero egualmente ben distinti tra loro, discontinui,
non comunicabili, non riversabili uno nell’altro, cui corrispondono due
gradi di pena egualmente ben distinti: al grado infallibile corrisponde
un’obbedienza de fide – quella che si diceva un’“obbedienza cieca e assoluta” –, come la comanda la Cost. dogm. Dei Filius, Cap. 3, can. 1 (Denz 3008; CIC, can. 212): « plenum rivelanti Deo, intellectus et voluntatis obsequium fide præstare tenemur
» (“quando Dio si rivela, noi siamo tenuti a prestargli con la fede la
piena sottomissione della nostra intelligenza e volontà”); al grado
fallibile, invece, corrisponde « non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà (“non quidem fidei assensus, religiosum tamen intellectus et voluntatis obsequium”) » (CIC, can. 752; v. pure Cost. dogm. Lumen Gentium, Denz 4149).
In quanto alla pena, sappiamo che chi non obbedisce a un insegnamento
infallibile, cioè a un dogma di fede, cade in un delitto di eresia, che è
a dire in peccato mortale, ed è punito con la scomunica; non c’è invece
un articolo del Catechismo della Chiesa Cattolica che commini una pena
precisa a chi non porge il dovuto religioso ossequio di intelletto e
volontà a un qualche insegnamento mere autentico, ossia non dogmatico, né infallibile: al n. 2037 è segnalato un generico « dovere
di osservare le costituzioni e i decreti emanati dalla legittima
autorità della Chiesa. Anche se sono disciplinari, tali deliberazioni
richiedono la docilità nella carità », perché la cosa va analizzata
nel largo spettro della casuistica, cioè dei casi di coscienza, a meno
che il soggetto abbia in cuore, col rifiuto di quel religioso ossequio
che si diceva su un sicuro giudizio del magistero, di volersi separare
con ciò dalla comunione col Pontefice romano e con coloro che sono in
comunione con lui, giacché in tal caso la sua ritrosia al dovuto
ossequio nascerebbe piuttosto da una volontà scismatica, che – essa sì –
è un peccato mortale. Ma questo non è il nostro caso, v. il mio La Chiesa ribaltata, Gondolin, Verona 2014, pp. 293-300, con Prefazione
di Antonio Livi, dove professo la mia più intima e invincibile adesione
a Papa Bergoglio come Vicario di Cristo e regola prossima della mia
fede, intima e invincibile adesione che riposa sulla garantita e
certissima continuità di forma e contenuto di tale santissima ‘regola
prossima’ con la remota (Sacra Scrittura e Tradizione). E se si dovesse
dubitare di tale continuità? Risponderò anche a questo, anche se la
risposta più esauriente la si troverà solo in Il domani del dogma e appunto ancora in La Chiesa ribaltata.
3. IL PENSIERO DEL MIO CONFUTATORE
COME ESPOSTO DA ‘RADIO SPADA’.
Il mio confutatore utilizza come argomenti tre strumenti eterogenei: il Codex Iuris Canonici,
la risposta di un Padre Domenicano (Padre Angelo Bellon) a tal signor
Marchesini e due brevi riflessioni di Padre Stefano Manelli, cofondatore
della Congregazione dei Frati Francescani dell’Immacolata.
Gli articoli del CIC sono il 752, il 753, il 1322, il 2033, oltre ai
1322 ss del CIC del 1917. Non c’è nulla da eccepire: è tutto giusto,
viene ribadito con chiarezza e semplicità che, per quanto riguarda il
magistero ‘autentico’, o fallibile, « i fedeli sono tenuti ad aderirvi con religioso ossequio dell’animo » (CIC, can. 753). Per la conoscenza punto per punto delle argomentazioni, si rimanda qui all’originale.
Il Domenicano afferma un concetto di magistero omnicomprensivo: per lui « il magistero in quanto tale, soprattutto perché è garantito, non può contenere errore. E pertanto non è fallibile
». Dopo tale premessa, che parrebbe offrire un certo sapore
massimalista e totalizzante, e su cui si inchiavarda, come si vedrà,
tutto il dissenso, Padre Bellon articola il suo discorso pianamente,
ossia tornando a distinguere i due gradi di magistero e i diversi
comportamenti da tenere al riguardo, salvo che alla fine del suo punto
2, in cui cita un documento della Congregazione per la dottrina della
fede sulla “Professione di fede e Giuramento di fedeltà” (29-6-1998),
afferma: « A questo comma [del magistero ordinario autentico]
appartengono tutti quegli insegnamenti in materia di fede o di morale
presentati come veri o almeno come sicuri, anche se non sono stati
definiti con giudizio solenne né proposti come definitivi dal magistero
ordinario e universale. Allora, caro Marchesini, non si tratta di
magistero fallibile, ma vero e sicuro ».
Il Marchesini però, perplesso, gli chiede: « Ma se anche questo magistero è infallibile che differenza vi è da quello proposto in maniera definitoria o definitiva? ».
Alla cui domanda Padre Bellon risponde: « Come avrai notato, a
proposito del terzo tipo di magistero, non si parla di infallibilità, ma
di insegnamento vero e sicuro e che affermare il contrario significa
proporre un insegnamento erroneo, temerario e pericoloso e che
sicuramente non può essere insegnato (tuto doceri non potest) ».
Ma qui mi pare che il Domenicano non abbia con ciò davvero risposto al
quesito del Marchesini (e di tutti noi). Vi risponderò io, dando anche
una traduzione più appropriata della citazione latina che fa.
Ne consegue comunque che, riguardo alle pene, se il fedele rigetta un
insegnamento dogmatico, o anche solo ‘definitivo’ ma non dogmatico,
oppure simpliciter ‘ordinario autentico’, per il Nostro quel
fedele cade sempre e comunque nello stesso e medesimo peccato: che il
rifiuto sia di un insegnamento dogmatico o invece non dogmatico, il
delitto sarebbe di eresia, che è decisamente un peccato mortale.
A questo punto la conclusione del Confutatore è: « Pertanto […] anche
per i domenicani del post-concilio, è “temerario, erroneo e pericoloso”
rifiutare un insegnamento del “magistero autentico” anche se “non
definitivo o infallibile”, in quanto essendo comunque ‘vero’ e ‘sicuro’,
il rifiutarlo comporta il commettere peccato mortale “indirettamente
contro la fede” ». Come mai? « Perché “un insegnamento erroneo non può essere insegnato” ».
La citazione di Padre Manelli, da ultimo, la direi irrilevante: essa si
limita a enumerare quelle che vengono chiamate le ‘verità connesse’ –
che poi vedremo – e a fare un breve panegirico della figura del Papa per
ricordarci quanto il suo ruolo sia « come un’altra specie di uomo » e « le sue parole […] non altrimenti che quelle di Gesù Cristo, perché questi è che parla per la sua bocca
». I Papi che utilizzavano il plurale maiestatis – come rilevo in a mio
parere importanti pagine de La Chiesa ribaltata (pp. 60-8) – mostravano
di essere ben consapevoli di ciò, è vero, ma dopo il concilio Vaticano
II questo non si può più dire, o perlomeno: non sempre. Bisognerebbe in
ogni caso distinguere per prima cosa tra magistero privato e magistero
pubblico, e, in quest’ultimo, tra il fallibile e l’infallibile, che è
appunto ciò che si vedrà.
Questo è quanto. Non credo d’aver dimenticato niente.
Ritengo che questa posizione non sia in tutto quella insegnata dalla Chiesa, ma che se ne differenzi in più di una sfumatura. Penso
che la posizione ortodossa della Chiesa sia esposta meglio, qui, al §
2, con le argomentazioni che ora poi darò ai paragrafi seguenti, pur se
dopo il Vaticano II molti chierici e anche alti prelati senz’altro
condividono la forma enunciata qui dal Padre Bellon. Più avanti se ne
capirà di certo il motivo. Che costituisce, nella sua gravità, la vera
causa di tutto il dissenso. Infatti nella Chiesa, pure su questo punto,
si stanno fronteggiando molto silenziosamente ma non meno acerbamente
due opposte e assolutamente immiscibili correnti dottrinali. Dirò di
più: due opposte concezioni di Chiesa.
Con i miei libri – e con le mie Postfazioni ai tre libri di Romano Amerio pubblicati da Lindau: Iota unum, Stat Veritas e Zibaldone
– da più di dieci anni mi prefiggo di contrastare ragionevolmente e
cattolicamente questa non corretta benché largamente maggioritaria
interpretazione teologica, perché ritengo che essa sia portatrice di
massimalismo e persino di un certo totalitarismo dottrinale, indebito e
piuttosto pericoloso (per la Chiesa tutta, oltre che per i singoli
fedeli), e rimando a Il domani del dogma e a La Chiesa ribaltata
chi desideri avere il quadro teoretico più completo della sua
confutazione e il quadro strategico più largo del suo possibile e
auspicabile riassorbimento nella Chiesa, qui riassunti.
Per far questo, vediamo ora per prima cosa che significato hanno le principali parole coinvolte nelle nostre argomentazioni.
4. MAGISTERO INFALLIBILE (O ‘DEPOSITUM FIDEI’).
L’ESEMPIO DELLA MOSCA.
Cosa si intende per ‘magistero infallibile’? L’infallibilità è
‘l’impossibilità di cadere in errore’, e, continua l’Enciclopedia
Cattolica, voce Infallibilità, col. 1920, « per la teologia
cattolica, riguardo all’infallibilità della Chiesa e del Papa,
l’infallibilità è quella prerogativa soprannaturale per la quale Chiesa e
Papa non possono errare in nessun modo nel professare e definire la
dottrina rivelata, per una speciale assistenza divina » in rebus fidei
et morum, “nelle cose della fede e della morale”.
Scrive Padre Umberto Betti, che morirà cardinale: « D’altra parte,
proprio perché l’infallibilità è iscritta nell’ufficio del Sommo pastore
e dottore, essa è tanto personale che non può essere comunicata ad
altri, nello stesso modo che il Papa non può commettere a nessuno di
fare il Papa al suo posto.
« Di qui questa evidente conseguenza: né gli esperti ai quali il Papa
confida lo studio di particolari questioni, né le Congregazioni Romane,
neppure quelle che hanno come Prefetto lo stesso Romano Pontefice, sono
infallibili. Perché le loro conclusioni, proposte o decisioni siano
rivestite del carattere d’infallibilità è necessario che il Papa le
faccia sue personali e ne assuma tutte le responsabilità e come tali le
proponga alla Chiesa.
« Anche se nella forma restassero del tutto immutate da come furono
preparate da altri, esse sono infallibili solo se il Papa le fa talmente
sue che non possano dirsi di nessun altro » (Divinitas, 1961, p. 592).
Alla luce della Verità rivelata, abbiamo tre ‘infallibilità’: l’infallibilità della Chiesa, per prima cosa, che si ha « quando l’universalità dei credenti esprime il suo universale consenso
[sincronico e diacronico] in materia di fede e di morale » (v. Denz
2922 etc.). L’infallibilità dei vescovi, in secondo, che si ha quando
essi esercitano il magistero supremo in unione al Papa (v. Denz
4150). L’infallibilità infine del Papa, che si ha allorché vuole
esercitare tutta la sua autorità come maestro di tutti i credenti, ossia
ex cathedra, in fide et moribus (cf. Cost. dogm. Pastor Æternus, Cap. 4, Denz 3074, vista nel mio articolo Non solo sedevacantisti): « Romani Pontificis definitiones ex sese, non autem ex consensu Ecclesiæ, irreformabiles sunt » (“Le definizioni del Romano Pontefice sono irreformabili per se stesse, e non per consenso della Chiesa”).
Si dice che un Papa ha parlato usando il carisma dell’infallibilità
quando consegue esplicitamente quattro condizioni: 1), parla come
Dottore e Pastore universale; 2), manifesta chiaramente la volontà di
definire e obbligare a credere; 3), nella pienezza della propria
autorità pontificia, o carisma petrino; 4), trattando di fede o di
morale.
L’infallibilità del dogma della Rivelazione si estende a tutto il
deposito della Rivelazione, e rende catafratto, corazzato, suggellato,
piombato, tale sacro Depositum fidei così come lo hanno ricevuto
gli Apostoli: tutti i dogmi stabiliti in seguito sono solo un suo
naturale e organico sviluppo, o svolgimento, o progresso (mai e in
nessun modo però ‘evolutivo’) nel proprio stesso divino oggetto.
Ma per capire bene cosa significhi ‘infallibilità’ c’è bisogno però di un esempio. Eccolo: una mosca forse
non andrà mai a posarsi all’interno di una boccia di vetro munita di un
collo lungo e stretto posta in una grande e ariosa stanza, ma forse invece, se pur difficilmente, ci andrà, e forse, se pur ancor più difficilmente, ve ne andrà anche una seconda, e una terza, e una quarta. Però di certo nessuna mosca andrà mai e poi mai
in una boccia di vetro, dove anche quel piccolo pertugio di un collo
lungo e stretto è sigillato ermeticamente con un bel tappo di sughero:
se pur con difficoltà, l’aria della prima boccia di vetro, avendo essa
un’imboccatura stretta ma aperta, può essere contaminata, l’aria della
seconda invece, dall’imboccatura ermeticamente chiusa, non lo può: essa
resta pura, incontaminata, e non può entrarvi neppure un microbo. Questa
è la vera differenza tra magistero fallibile e magistero infallibile
della Chiesa. E questa è l’infallibilità: un semplice, ma decisivo,
tappo di sughero.
5. MAGISTERO FALLIBILE (O ‘AUTENTICO’, O ‘PASTORALE’).
IL CASO DELLE ‘VERITÀ CONNESSE’ (AL DEPOSITUM FIDEI).
Cosa si intende invece per ‘magistero fallibile’? È ‘la possibilità di
cadere in errore’. Non è la caduta in sé, ma unicamente la sua
possibilità, la sua anche remota fattibilità: una mosca forse non
entrerà mai in una boccia di vetro con l’apertura al sommo di un collo
lungo e stretto, ma forse vi entrerà.
Il mio Confutatore sostiene che « non è mai stato ammesso […] che ‘il più basso’ grado di magistero possa essere falso, non veritiero o non vincolante
», ma ciò è contraddetto anche solo dal fatto che la Chiesa considera
non solo un grado di magistero infallibile, cioè che non può sbagliare
in alcun modo, ma anche uno fallibile, che può almeno teoricamente
fallare, e ciò essa ammette necessariamente, perché neanche una
società perfetta come la Chiesa, neanche un portatore di verità come il
Papa, possono permettersi di ritenere di insegnare – di fare pubblico
magistero – sempre e solo ‘senza errare’, ‘assistiti sempre e comunque
con speciale assistenza divina’: i casi in cui anche solo per ipotesi di
scuola la Chiesa – il Papa – può cadere in errore nell’insegnamento
della dottrina in fide et moribus possono essere, e dovrebbero essere di
fatto, davvero rarissimi, stante l’estrema attenzione dei soggetti alla
cosa (il collo lungo e stretto della metafora), ma non per questo
possono venire esclusi.
Quali sono questi casi? L’Enciclopedia Cattolica, voce Infallibilità, col. 1923, fa notare che, oltre a quello che i teologi chiamano ‘oggetto primario dell’infallibilità’, affermata “definitorio modo”, ossia ex cathedra, ve ne è un secondo, cui è riconosciuta eguale infallibilità del primo pur non oltrepassando il limite del “definitive tenendum”.
Esso è costituito da quelle che vengono dette ‘verità connesse’, cioè
da quelle verità collegate al dogma di origine divina, o logicamente
dedottene: 1), gli effetti teologici dei fatti dogmatici; 2), le
canonizzazioni stabilite in ottemperanza alle normative canoniche; 3),
la legislazione liturgica e disciplinare obbligante la Chiesa
universale; 4), l’approvazione di Ordini e Congregazioni religiose.
Dunque anche le ‘verità connesse’ alle primarie verità della Rivelazione
sarebbero infallibili. Così infatti si esprime un celebre dogmatico
tedesco: « Si può distinguere un duplice oggetto dell’infallibilità: l’oggetto diretto propriamente detto (obiectum primarium seu directum) e l’oggetto indiretto (o secondarium seu indirectum). Il primo sono i dogmi in senso proprio, o depositum fidei, il secondo le verità cattoliche » (Bernard Bartmann, Manuale di teologia dogmatica, Versione italiana dall’ottava versione tedesca a cura di Natale Bussi, Edizioni Paoline, Alba 1952, p. 63). E continua: « A
riguardo dei dogmi questa tesi è di fede. A riguardo delle verità
cattoliche è solo certa. I dogmi devono essere creduti di fede divina (fides divina), le verità cattoliche [connesse] di fede ecclesiastica (f. ecclesiastica). ‘Fides ecclesiastica’ è
l’assenso col quale aderiamo al giudizio infallibile della Chiesa sulle
verità che sono connesse con le verità rivelate. La ‘ragione formale’
di quest’‘assenso’ è quindi l’infallibilità della Chiesa. Pertanto la
‘fede divina’ si distingue dalla ‘fede ecclesiastica’ in quanto la prima
ha per oggetto le verità “a Deo revelatæ” [rivelate da Dio], la seconda le verità “cum rivelatis connexæ” [connesse alle rivelate]. […] Sono dunque materialmente e formalmente distinte ».
Come si configura per Bartmann l’infallibilità delle ‘verità connesse’ di fede ecclesiastica? « La Chiesa – spiega – insegna
in modo infallibile la morale cristiana, riconosce pure facilmente se
le regole di un ordine religioso siano conformi ad essa o meno. Non è
però infallibile nel giudicare l’opportunità esteriore di queste regole,
sicché potrebbe in seguito formulare un altro giudizio. Così la Chiesa
non può sbagliare nelle decisioni circa il culto, le devozioni, i libri
liturgici, i doveri particolari di certi stati (celibato, breviario)
come nelle prescrizioni disciplinari generali (digiuno, riposo festivo,
istituzione e soppressione di giorni festivi). Non è possibile che in
questa materia ordini od approvi alcunché di contrario alla legge
morale. Non è però infallibile il suo giudizio di queste formule (sensus)
e una verità immutabile. Può darsi invece che la Chiesa in altro tempo
crei formule migliori, più comprensive e più efficaci per esprimere le
medesime verità definite. […] V. le formule del Concilio di Calcedonia
con quelle del Concilio di Efeso, il simbolo degli Apostoli con quello
di Atanasio » (Idem, pp. 63-4).
Sulle canonizzazioni, 1 oltre Bartmann, diversi teologi, p. es. mons.
Brunero Gherardini, ultimo rappresentante della gloriosa Scuola Romana
(che annoverò personalità del calibro di Composta, Fabro, Franzelin,
Garofalo, Landucci, Ottaviani, Palazzini, Parente, Piolanti, Spadafora,
Spiazzi), eccepiscono che esse in realtà non avrebbero nella Sacra
Scrittura solide basi per riscontrare la loro infallibilità, v.,
dell’esimio monsignore, Canonizzazione ed infallibilità, in Chiesa viva, nn. 354-5-6, anno 2003, ripreso poi da chiesaepostconcilio [qui]. « Nella storia della Chiesa, anche recente
– scrive il teologo per rilevare la “discutibilità” di un per lui
troppo perentorio infallibilismo delle canonizzazioni dei santi –, ci
furon Santi discutibili, che prestarono cioè e prestano il fianco a
rilievi non proprio positivi. Altri, come già rilevato [nell’articolo],
non sono neanche esistiti. […] La domanda è […]: anche la canonizzazione
di Santi discutibili o addirittura inesistenti, o anche la sola
tolleranza del loro culto ufficiale, avvenne all’insegna
dell’infallibilità? ».
Inoltre, sono esse sempre state condotte col rigore dovuto, « in ottemperanza alle normative canoniche
»? Sia, come rilevato unanimemente dai teologi, per alcune
canonizzazioni dei secoli passati, per le quali le norme adottate non
paiono essere state delle più rigorose, che per alcune delle più
recenti, si hanno buoni motivi di credere di no, si veda l’intervista
che lo storico Roberto de Mattei diede in proposito a suo tempo al
mensile Catholic Family News.
6. IL DOGMA, ESSENDO LA FORMA DELLE ‘VERITÀ CONNESSE’,
È ANCHE LA FORMA DELLE LEGGI LITURGICHE, DELLA LITURGIA.
Sulla legislazione liturgica ‘obbligante la Chiesa universale’, potenti
perplessità circa l’infallibilità di tali ‘verità connesse’ per alcuni
provengono dall’analisi compiuta a suo tempo dai cardinali Bacci e
Ottaviani sul Novus Ordo Missæ, a conclusione della quale la Messa uscita dal NOM non potrebbe essere definita che « un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa », v. il mio Sacro al calor bianco. La Messa di Pio V e la Messa di Paolo VI alla luce della Filosofia dell’Æsthetica trinitaria. Pars Prima, la teorica, pro manuscripto, Milano 2007, p. 103. Ciò che per alcuni striderebbe con la pretesa di infallibilità a priori
di detto comparto sono: 1), i drammatici risultati riscontrabili in
questa “riforma”, a partire da quella che essi vedono come una riduzione dell’adorazione elargita a Dio Padre dal soppiantato Rito Romano, riduzione che in La Chiesa ribaltata (p. 149) mi porta a configurare nel nuovo Rito, a mio avviso così duramente preteso in sua vece da Papa Paolo VI, una adoratio minor a Dio Padre in opposizione simmetrica e ideologicamente contraria alla adoratio maior
erompente alla somma Maestà dal sempiterno Rito Gregoriano – e mi si
dimostri il contrario –, esso sì rispettoso in tutto del dogma, sua
forma; 2), il recente divieto di celebrazione di tale Rito ai Frati
Francescani dell’Immacolata, per l’illustrazione del cui impossibile
divieto rimando ancora a La Chiesa ribaltata, pp. 150-9.
Sulla base di una bella intuizione del liturgista benedettino Mario Righetti, per il quale « il dogma è per la liturgia ciò che è l’anima per il corpo » (p. 146 di Ribaltata),
essendo l’anima la forma del corpo, possiamo arrivare all’importante
conclusione che quindi il dogma è precisamente la forma della liturgia, o
equipollentemente che la liturgia ha per forma il dogma.
Lo sviluppo storico della liturgia si muove all’interno di tale forma,
peraltro per essa vitale. Tale moto può avere un massimo ma anche un
minimo di aderenza al dogma: la somiglianza dell’immagine storica e
transeunte, rappresentata dalla singola liturgia, all’esemplare
dogmatico che le dà vita – come ciascuna anima dà vita al singolo corpo
–, può subire delle anche forti variazioni di maggiore o minore
perfezione (di maior aut minor adoratio), ma sempre entro lo spettro dogmatico, dove i cardinali Bacci e Ottaviani hanno creduto di poter denunciare nel Novus Ordo Missæ « un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa
», e, per quanto possa l’allontanamento essere stato ai loro occhi
esperti e cattolicissimi davvero « impressionante », essi però esclusero
di poter parlare di rottura: l’avrebbero senz’altro denunciata. Ma
appunto: persino nel caso di una manifesta intenzione del Novatore di
favorire con tale cataclismatico sommovimento liturgico un avvicinamento
del Rito cattolico al sentire protestante (v. Iota unum, pp.
543-79 Lindau), anche i più severi e attenti critici quali quei due
esimi cardinali, abilitati, nel caso, a senz’altro proclamarla, non
poterono giungere a dichiarare una situazione di rottura, perché la
forma del dogma non era stata sforata.
Che il dogma sia il principio della liturgia lo si è visto ora con il NOM,
ma lo si potrebbe vedere ancora in altri accadimenti, p. es. allorché
nel 1529 Papa Clemente VII chiese al cardinale francescano Francesco
Quignonez di riformare il breviario romano. « Il nuovo breviario – scrive il benedettino Alcuin Reid in Lo
sviluppo organico della Liturgia. I principi della riforma liturgica e
il loro rapporto con il Movimento liturgico del XX secolo prima del
Concilio Vaticano II, Prefazione di Joseph Ratzinger, Cantagalli, Siena 2013, p. 31 – fu pubblicato nel 1535 sotto Paolo III, come oggetto di consultazione cui si invitava a fare commenti critici ». Nonostante le intenzioni, il nuovo breviario finì con l’essere usato in celebrazioni pubbliche. « È significativo – scrive il benedettino nella sua disamina – che
il breviario di Quignonez, elaborato su richiesta della Sede Apostolica
e da essa debitamente promulgato, fosse nondimeno considerato passibile
di critica. Il ripudio di questo breviario per rescritto da parte di
Paolo IV nel 1558, e la successiva proscrizione a opera di san Pio V nel
1568, sono la testimonianza più importante nella storia liturgica della
priorità attribuita allo sviluppo organico della liturgia rispetto
all’approvazione dell’autorità competente. Il giudizio prudenziale con
cui Paolo III promulgò questa riforma nel 1536 fu un errore, finalmente
corretto a distanza di cinque papi e di trentadue anni, in vista
dell’evidente insoddisfazione dei fedeli e su richiesta degli studiosi » (Idem, pp. 32-3).
Cosa insegna tutto ciò? Che anche la legislazione liturgica non è di per
sé infallibile, ma è infallibile l’ambito formale, il campo dogmatico
in cui essa si muove. Tale moto può essere causato da una spinta a una
maggiore conformazione della liturgia al principio che la informa – il
dogma –, così come, viceversa, da spinte opposte, atte a conformare la
liturgia il meno possibile a tale suo principio vitale, studiandosi di
non travalicarne i limiti e cercando piuttosto di avvicinarsi a principi
ad esso non solo estranei, ma nemici (nel caso dell’ecumenismo
montiniano il protestantesimo, immesso a forza nel suo Novus Ordo,
ma sempre in modo equivoco, capace cioè di soddisfare le esigenze di
validità e legittimità del Rito cattolico, se pur nei termini minimi
indispensabili, peraltro riconosciuti anche dai cardinali Bacci e
Ottaviani, pervenendo a quella adoratio minor, anzi minima, di sapore protestante, v. Iota unum, loc. cit.)
Quignonez e Montini rappresentano due casi esemplari e opposti di come
le leggi liturgiche siano fallibili, restando esse però nell’ambito di
una generale infallibilità, per la quale nessuno di quei due sistemi
porta a distruggere positive la Chiesa, perché nessuno dei due passa i limiti del dogma: infatti, come segnala Amerio in Iota unum, p. 28 Lindau, « la Chiesa non va perduta nel caso che non pareggiasse la verità, ma nel caso che perdesse la verità » (marcature dell’Autore).
La Chiesa non si perde dunque se pur non pareggia la verità, ma va
sottolineato bene però che, non pareggiandola, di certo non solo essa
non più si santifica, ma si abbruttisce, e se dunque non muore per
sradicamento, però sfiorisce, si avvizzisce, perché non più ben
innaffiata, concimata, curata, e ciò lo si può riscontrare in entrambi i
casi visti, specie però nel montiniano, perché se oggi la Chiesa è nel
pantano dottrinale e morale in cui si trova e se sta rattrappendosi in
ogni parte del mondo perdendo fedeli a milioni, è solo a causa del Rito
non adeguato al dogma come dovrebbe, cioè, come era nel Rito Romano (o
Gregoriano, o Tridentino), teso al massimo dell’adeguamento. E dico teso
perché, essendo io un tradizionista e non un tradizionalista (v., in Il domani del dogma, le voci Immobilismo, Tradizionalismo, Tradizione e Tradizionismo, pp. 176-7), dunque essendo un tipico ‘portatore di futuro’ come dovremmo essere tutti noi cattolici in forza del Nome Filius,
che indica nella generazione trinitaria, per analogia, la forza
generatrice e come “infuturente” delle cose, so bene che lo sviluppo
della adoratio al Padre teso al suo massimo potrebbe dare
in futuro un Rito ancor più aderente al dogma e vivo nel dogma di quanto
esso sia aderente e vivo con la grande sistematizzazione voluta da Papa
san Pio V nel 1570. Ma la base è quella (e solo quella).
Dunque la legislazione liturgica e disciplinare obbligante la Chiesa
universale, per quanto, come visto, sia uno dei quattro ambiti di
‘verità connesse’ al Depositum fidei, non è di per sé infallibile, ma è certa e sicura, offrendo in ogni caso una adoratio minor e una adoratio maior
(con tutta la gamma possibile che si può immaginare di esse) che non
sono mai né invalide né illegittime, perché infallibile è il campo in
cui operano.
Ad alcuni fedeli, come il sottoscritto, basterebbe l’istituzione del Novus Ordo
per rendere problematica ogni pretesa di automatismo dogmatico per le
‘verità connesse’. Il fatto è che l’infallibilità delle ‘verità
connesse’ si può riconoscere solo a precise condizioni, che esistono
sulla carta, ma che possono essere realizzate ma anche non realizzate, e
se ne accennerà più avanti, salvo dedicarvi in altra sede una specifica
attenzione. Qui basti richiamare la metafora del vaso di vetro che si
diceva: per sigillarlo, gli si può apporre il tappo di sughero, ma per
farlo è necessario seguire un preciso protocollo, che permetta alle
colle di solidificarsi come si deve, eccetera, ma è un protocollo che,
fuor di metafora, a partire dal Vaticano II, a parere di quei tali
fedeli, tra cui lo scrivente, oggi non viene seguito dalla Chiesa col
rigore necessario a tenere sotto la protezione del dogma il proprio
magistero ‘pastorale’, facendo anzi di tutto, come si vedrà, per
liberarsi di quella che alcuni Pastori chiamano « la lista dei precetti e degli ammonimenti », lista che non parrebbe essere altro, però, che la Legge del Signore: il dogma della cristica salvezza.
7. COME UNA ‘CONCLUSIONE TEOLOGICA DI FATTI DOGMATICI’
POSSA PASSARE DA ‘VERITÀ CONNESSA’ A INFALLIBILE DOGMA.
Sulle conclusioni teologiche dei fatti dogmatici, tutto dipende dalla
chiarezza e specialmente dalla qualità dei percorsi logici che legano i
dogmi (con tutto l’apparato che ne consegue di Sacre Scritture e
Tradizione) ai loro derivati, p. es. la qualità dei sillogismi su cui si
fondano le connessioni, ma non solo: se p. es. il sillogismo è
deduttivo, la sua sicura, tetragona, inscalfibile solidità garantisce il
passaggio logico e oggettivo dal dogma alla ‘verità connessa’
(sillogismi del tipo: “Tutti gli uomini sono animali, tutti gli animali
sono mortali, dunque tutti gli uomini sono mortali”, dove il termine
medio ‘animale’ trovasi sia nella maggiore che nella minore,
garantiscono un passaggio forte e sicuro sotto ogni punto di vista), ma
non è più così nel sillogismo esplicativo, o analitico, o induttivo, il
cui termine medio non connette nulla, ma costituisce solo un fatto, e il
fatto, in logica, è nulla (“L’uomo e il cavallo sono longevi, l’uomo e
il cavallo sono animali senza ali, dunque gli animali senza ali sono
longevi”: il termine medio qui è ‘essere senza ali’, ed è associato alla
longevità solo nella conclusione, cioè a posteriori); ora, è difficile
distinguere le due specie di sillogismi, per cui non sempre può essere
garantita la solidità di impianto delle connessioni che vogliono legare i
dogmi alle ‘verità connesse’: questo è il motivo p. es. per cui, prima
della Bolla Ineffabilis Deus di Papa Pio IX, il dogma
dell’Immacolata Concezione era una verità discutibile ed effettivamente
discussa, pur essendo di suo già riscontrabile come ‘verità connessa’
(ciò che oggi sarebbe definibile ‘magistero autentico’), proprio in
quanto alcuni teologi non riconoscevano la solidità catafratta e
indistruttibile dei percorsi di connessione delle conclusioni, che poi
saranno quelle papali, con i dogmi rivelati già conosciuti cui dovevano
essere agganciate; se la Bolla sulla Beata Vergine poté essere costruita
sulle solide basi che oggi conosciamo lo si deve anche a quelle
perplessità che si diceva, che sollecitarono un approfondimento tale da
garantire come si deve il percorso logico necessario (v. Antonio Livi, Tommaso d’Aquino. Il futuro del pensiero cristiano, Leonardo Mondadori, Milano 1997, p. 84).
« Nell’argomentazione teologica – spiega ivi l’esimio
Decano emerito della Facoltà di Filosofia della Lateranense a proposito
di un sillogismo deduttivo utilizzato per ricavare da un dogma primario
di fede una ‘verità connessa’ – la premessa maggiore è un’asserzione
di fede (cioè una verità rivelata), mentre la minore è una evidenza di
ragione. La seconda premessa è quindi il momento in cui la ragione fa
uso delle proprie conoscenze per riuscire a comprendere meglio la verità
rivelata ».
Sulla legislazione ecclesiastica, infine, desta non poche perplessità
che si pretenda di vedere un carisma di infallibilità, sia pure come
oggetto secondario, ma sempre di infallibilità, in una normativa di
carattere storico, codificata solo nel 1817 e già corretta nel 1983: il
cozzo tra la natura eterna dell’infallibilità e la natura per
definizione non eterna della storia mi pare tanto evidente da rendere
ogni altra considerazione decisamente superflua.
Se a qualcuno destano perplessità alcune delle cosiddette ‘verità
connesse’, il che non significa escludere questo ambito di verità dal
regno delle infallibili visto che si è anche portato or ora un esempio
di come se ne possa creare una, ciò però non significa assumere tale
ambito come aprioristicamente infallibile, ma, una ad una, ammettere
queste verità nel Depositum fidei solo dopo averle passate al
necessario vaglio con adeguata sentenza dogmatica straordinaria, a
maggior ragione sarà d’obbligo usare ancor più forte cautela con tutte
quelle dottrine che appartengono al magistero mere ‘autentico’
della Chiesa, dottrine non solo non protette dal carisma
dell’infallibilità, ma neppure riconosciute come ‘verità connesse’.
Mi riferisco, per fare alcuni esempi, a tutte quelle dottrine proposte
dal Vaticano II che, non potendo dirsi infallibili, non si debbono
obbedire con obbedienza de fide, giacché quel concilio fu
convocato in una forma di magistero che fu detta ‘pastorale’ per
distinguerla dalla forma dogmatica con cui erano stati aperti i venti
concili ecumenici (universali) precedenti. Il magistero ‘pastorale’ del
Vaticano II è magistero ‘autentico’, cioè fallibile, con la sola
esclusione, come ovvio, di tutte e solo quelle parti dei suoi documenti
che segnalano verità dogmatiche già sedimentate, come quando al § 6 di Dei Verbum la nota 6 della citazione spiega i motivi delle verità rivelate rinviando alla Cost. dogm. Dei Filius, Cap. 2 (Denz 3005).
Qui vale la pena sottolineare che, quando i Papi richiedono assenso obbedienziale anche verso le Encicliche (Leone XIII nella Satis cognitum, Pio XII nella Humani generis), va loro obbedito; però, come proprio essi dicono e comandano, « seguendo l’intenzione e la volontà degli stessi Pontefici » (Humani generis), ossia non genericamente obbedendo anche a quegli scritti che non sono stati concepiti per essere obbediti, come Spe salvi o Lumen Fidei
di Benedetto XVI, ma solo a quei documenti redatti con tali precise
intenzioni, come i due sunnominati di Papa Pacelli e di Papa Pecci, o
come quando certi documenti, v. la Humanæ vitæ di Paolo VI, richiedono obbedienza a verità in fides et moribus
sempre e universalmente insegnate e professate dalla Chiesa, come sono
lì quelle sulla contraccezione. Una diversa posizione condurrebbe al
massimalismo ideologico, atteggiamento greve e illogico di cui la Chiesa
oggi è da più parti anche tra loro ideologicamente ostili troppo
appesantita.
8. ESEMPIO DI QUEL MAGISTERO FALLIBILE (O ‘AUTENTICO’,
O ‘PASTORALE’) CHE ALCUNI PENSATORI E TEOLOGI
CATTOLICI RITENGONO EFFETTIVAMENTE FALLATO.
Come segnalo anche in La Chiesa ribaltata, pp. 207-8, oltre ai casi sopra detti di ‘verità connesse’ al ‘Depositum fidei’ che, non appartenendo di per sé al Depositum
(v. § 5), furono corrette o persino proscritte dal magistero della
Chiesa senza grave nocumento o scandalo, come nel caso del breviario di
Clemente VII, la cui eliminazione fu anzi provvidenziale, dopo il
concilio Vaticano II ad alcuni non pochi e noti pensatori cattolici
quali l’Amerio, il de Mattei, mons. Gherardini, mons. Spadafora eccetera
parrebbe senz’altro che di casi egualmente dubbi, se non pericolosi,
come quelli, per la fede, ne siano riscontrabili diversi altri, tutti
dovuti alla scelta di fissare la forma di quel concilio, pur definito
magistero universale, solenne e straordinario, in ‘pastorale’, o
‘autentica’, dunque in chiara forma non dogmatica, e, se non dogmatica,
non ‘infallibile’, ma ‘fallibile’, esposta cioè, come quel vaso di vetro
del nostro esempio, pur non volendo, a qualche umano errore,
all’intrusione di una qualche mosca.
Prendiamo, fra tutte, l’affermazione che vien fatta al n. 24/d della Costituzione pastorale Gaudium et spes, che nell’originale latino afferma: « homo in terris sola creatura est quam Deus propter seipsam voluerit » (marcatura mia). Il genere femminile del complemento di causa dato dal pronome ‘seipsam’ è non equivocabile legame al genere femminile di ‘sola creatura’, per cui la traduzione italiana non può che essere: “L’uomo è in terra la sola creatura che Dio volle per se stessa”,
e non, come sarebbe meglio fosse (e come anche i Pastori novatori che
hanno concepito quel passo cercano di dimostrare che sia), “per se
stesso”, cosa che permetterebbe, col pronome al genere maschile, di
riferirsi più facilmente, ma, come si vedrà, non ancora del tutto
nettamente, non all’uomo, ma a Dio.
Ma in Iota unum (p. 427 Lindau, nota 2) Amerio rileva che « la traduzione italiana corrente volta erroneamente ‘per sé stesso’ travolgendo il senso [pericolosamente erroneo dell’affermazione] e annullando la variazione della dottrina », dimenticando così che però « Giovanni Paolo II – come non può non sottolineare il filologo luganese – citò il testo latino in un discorso sull’amor coniugale (OR,
17-1-80) », e non l’italiano, ossia citò proprio il testo palesemente
erroneo, e non quello che poteva essere considerato solo equivoco,
inesatto, ma non inaccettabile.
Si vedrà poi, nella nostra nota 3, come anche il genere maschile non
possa dileguare tutte le ombre, proprio per la costruzione sintattica,
in sé, della frase, troppo intorbidata ab origine dalla vana
intenzione di glorieggiare oltremodo l’uomo – siamo sotto il pontificato
montiniano – invece che Dio. Se non più di Dio.
Inoltre, anche il contesto in cui essa è inserita confermerebbe il senso
della frase, travisante il sentire ortodosso. Pochi passi sopra,
infatti, si può leggere: « Secundum credentium et non credentium fere
concordem sententiam omnia quæ in terra sunt ad hominem tamquam ad
centrum suum et culmen ordinanda sunt » (Gaudium et spes 14):
“Per consenso generale di credenti e non credenti tutte le cose del
mondo si devono ordinare all’uomo come alla loro cima e al loro centro”.
Dunque la gloria dell’universo, qui, parrebbe proprio rivolta tutta
all’uomo.
L’affermazione, in sé, è stata letta da molti come portatrice di
un’antropologia e di una teologia devastanti, e in tal senso fu
confutata da Amerio prima appunto in Iota unum, poi in Stat Veritas (Chiosa 15), 2 infine, definitivamente, da mons. Brunero Gherardini, che la stronca: « È un testo assurdo e blasfemo, sia che le parole finali si leggano al femminile (“per se stessa”), sia che le si leggano al maschile (“per se stesso”) » (Concilio Vaticano II. Il discorso mancato,
Torino: Lindau 2011, p. 36 -7, dove l’illustre teologo pratese stende
tutti i più inappellabili argomenti logici per distruggere l’intimorata
affermazione, v. anche La Chiesa ribaltata, pp. 107-8). 3
Insomma, quel che qui si vuol trasmettere è che, appena fuori dalle
sacre mura della cittadella dottrinale costituita dall’infallibile Depositum fidei,
lungi dal mettere tutto in uno stato gelatinoso e tremolante, con
altrettanta prudenza di quella con cui il magistero si perita di
garantire ai fedeli la sicurezza sigillata e corazzata del dogma quando una verità è dogmatica (quando
la bocca del vaso di vetro è sigillata da un tappo), lo stesso
magistero non può però più garantire quel medesimo sicuro e marmoreo
giudizio su ciò che, di suo, “infallibile dogma” non è (quando la bocca del vaso di vetro non
è sigillata da un tappo), perché non vincolato, non coperto dalla
stessa assistenza piena, totale e assoluta che lo Spirito Santo assicura
unicamente al magistero dogmatico. E se non può più assicurare
tale soprannaturale e ineffabile solidità, tale ermetico sigillo,
neanche però ci deve provare, perché ciò sarebbe un inqualificabile
delitto di falso ideologico, un’offesa a Dio stesso, che si farebbe
passare come mallevadore di verità assolute che però non sono altro che
verità relative. Relative a cosa? Relative p. es. al tempo in cui sono
state formulate, alle conoscenze che si avevano di una certa materia, al
concetto di legge, e altre cose così: una storicizzazione del
magistero, finché non tocca le verità eterne, assolute appunto, è anche
scientificamente necessaria. Difatti nei secoli sempre la Chiesa è
rifuggita da tale infamia, se non che…
9. SUI CONCETTI DI ‘MAGISTERO AUTENTICO’
E DI ‘ ‘MAGISTERO PASTORALE’.
Vediamo allora più precisamente cosa significa la perifrasi ‘magistero autentico’. ‘Autèntico’, gr. autentikòs, da authentèo, ‘agire da sé medesimo’, da autòs, ‘egli stesso’, ed entòs, ‘che risponde’: dicesi di ‘ciò che ha autore sicuro’ e che per ciò fa autorità; ‘autentici’ sono gli atti solennemente redatti per mano di un notaio o di altro pubblico ufficiale.
I Papi dei primi secoli parlano di una ‘regola autentica’ da cui non si
può recedere, né che si può ricusare. I testi inautentici non si possono
usare come autorità, mentre un autore autentico “non era trattato”, non
era discusso: il maestro determina, propone e dà l’ultima sentenza alla
questione. ‘Autentico’ è ciò che fa autorità proprio perché ha
l’autorità.
Il senso di tale parola, riferita al magistero della Chiesa, si trova particolarmente in Qui pluribus (Pio IX, 1846), Inter gravissimas (Idem, 1870), Officio sanctissimo (Leone XIII, 1887), Libertas (Idem, 1888), Humani generis (Pio XII, 1950).
Mentre però, come visto al § 4, c’è un luogo dove la Chiesa definisce il ‘magistero dogmatico’ o ‘infallibile’ (la Cost. dogm. Pastor Æternus),
manca un luogo dove sia indicata una definizione, a quella simmetrica e
opposta, di ‘magistero pastorale’ o ‘autentico’, sia nel senso che i
due termini avevano prima del Vaticano II, sia in quello che hanno
ricevuto dopo di esso, posto che per alcuni teologi (p. es. Brunero
Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare,
Casa Mariana Editrice, Frigento 2009, p. 58), è indubbio che quella
augusta assise abbia corretto, nei fatti, il senso di tali concetti,
dato che, come visto, non vi è una precisa definizione dogmatica (e
forse non vi può essere) che lo stringa in una rigorosa e inequivocabile
univocità.
Veniamo allora al secondo termine. ‘Pastorale’ è il magistero della cura
d’anime, che sminuzza la dottrina universale – sia quella strettamente
dogmatica, sia quella direttamente connessa a questa – nella pratica
quotidiana, specifica e particolare. È su questo concetto che vengono
chiamate ‘pastorali’ le due Lettere di san Paolo a Timoteo e quella a
Tito.
Si può dunque assimilare il concetto di ‘magistero pastorale’ a quello
di ‘autentico’, giacché entrambi indicano quello che, almeno oggi, è il
medesimo ambito magisteriale: l’ambito di quel magistero autoritativo
(nel preciso senso di ‘determinato dall’autorità’), sebbene non
infallibile, cioè cui non è del tutto interdetto cadere in errore, che
permette alla Chiesa di compiere l’imprescindibile passaggio dalla
teorica alla pratica, dall’infallibile Depositum fidei alla se pur rarissimamente fallibile, ma fallibile, conduzione delle coscienze.
10. LA STRATEGIA DI CHI VUOLE DARE LA COMUNIONE
A CONVIVENTI E DIVORZIATI E IL MAGISTERO ‘PASTORALE’.
Ma con la nascita e l’espandersi della Nouvelle Théologie e, per
alcuni, con la preparazione del Vaticano II come primo concilio
ecumenico ‘pastorale’ della storia della Chiesa, avviene che, come bene
illustra mons. Gherardini, la parola “pastorale” sta ancora a « indicare l’inalienabile vocazione apostolico-missionaria della Chiesa » (loc. cit.), ma per altri viene a prestarsi, molto equivocamente, « ad
assicurar a tale vocazione una libertà di movimento di cui non avrebbe
goduto se legata ancor alla concezione tridentina del sacro ministero » (ibidem), la concezione dogmatica, quella che oggi Papa Bergoglio chiamerebbe « da intellettualisti ».
Il teologo che fu per trentasette anni ordinario di ecclesiologia alla Lateranense nota che « sulla
qualifica di pastorale, inoltre, i commentatori di varia estrazione e
d’indirizzo anche contrapposto basaron la loro adesione al Vaticano II o
le loro critiche ad esso » (ibidem), proprio perché la
qualifica, come d’altronde quella di ‘magistero autentico’, non
impegnava davvero nessuno: né, da parte dei Pastori, a tenere il dovuto
rigore formale del linguaggio dogmatico, che è la prima, necessarissima e
imperativa condizione da assolvere, né, da parte dei fedeli, alla
corrispondente obbedienza.
Anzi, « per qualcuno – completa il pensiero l’esimio teologo andando a toccare esattamente il nervo che nessuno avrebbe mai dovuto toccare – ‘pastorale’
significò superamento dell’imponente staccionata giuridico-dogmatica
entro la quale, quasi in un inaccessibile fortilizio, la Chiesa aveva
finora protetto le sue certezze e resa operante la sua tradizione
evangelizzatrice » (ibidem).
Se oggi « la comunione si dà a tutti, senza soffermarsi troppo a
indagare il curriculum vitæ di chi s’accosta all’altare per ricevere
l’ostia », come dice a Il Foglio padre Pepe di Paolo, amico e
discepolo di Papa Bergoglio da un ventennio quando questi era sacerdote
e poi vescovo e poi cardinale a Buenos Aires, è perché ieri è stata
superata « l’imponente staccionata » per poter irrompere nel
territorio magisteriale ‘pastorale’, finalmente liberi da quelli che
vengono ormai considerati solo ingombranti cascami giuridico-dogmatici
ideologicamente “esclusivisti”, come dicono i novatori per ancor più
esecrare e far esecrare quegli ormai non molti cattolici che hanno solo
la colpa di voler rimanere nell’ortodossia evangelico-dogmatica
costituita proprio da quei “codicilli”, perché « i sacramenti – insiste il discepolo di Papa Bergoglio – sono
per tutti. Noi rispettiamo la gente. Se le persone cercano di
comunicarsi, diamo loro la Comunione. Non siamo dei giudici che decidono
chi si deve comunicare e chi no » (8-11-14). Giusto: chi sono io per giudicare?
Sicché: « Quando ci troviamo davanti alle persone che convivono senza
essere sposate in Chiesa non alziamo barricate, neppure nel caso dei
sacramenti e della comunione. Ci opponiamo a quelli che hanno solo
precetti ». E conclude: « Bisogna guardare al caso concreto, non
sciorinare la lista dei precetti e degli ammonimenti » (8-11-14). Siamo
al “magistero fai da te”. Che si oppone al magistero-magistero, quello «
dei precetti e degli ammonimenti », quello, specialmente, del « Beato l’uomo che cammina nella legge del Signore » (Sal 118,1) e del « Se mi amate, osservate i miei comandamenti
» (Gv 14,15). E i comandamenti di Gesù, i comandamenti dell’amore che
fanno l’uomo beato, se non sono barricate, precetti e ammonimenti, se
pur d’amore, e d’amore beatificante, cosa mai sono?
Forse non si rendono conto – dei vescovi? dei teologi? dei cardinali? Impossibile – che « l’imponente staccionata » superata dal ‘pastorale’ concilio Vaticano II è il Logos, è costituita dalla stessa seconda Persona della ss. Trinità, e in altre parole è il dogma, il Katéchon
divino, l’unica forza che può liberare l’amore, v. dimostrazione in La
Bellezza che ci salva, Primo capitolo. E il “superamento” del Logos
è, né più né meno – con tutto il carico di peccato di sacrilegio che
tale cognizione comporta –, che la morte del peccato e con ciò della
stessa sua Redenzione: è la distruzione del cattolicesimo e l’avvento
dell’anarchia, cioè del diavolo e di satana, come già sta succedendo.
Per tornare a noi: dai testi segnalati si deduce che anche il ‘magistero
autentico’, o ‘pastorale’, è divino, ma solo in parte, in quanto Dio è
l’agente principale del magistero della Chiesa, e il magistero ne è
l’agente secondario, sì da interpretare autenticamente le verità normative
– quelle cui obbedire nei modi sopra indicati – da Lui rivelate. E Dio,
ancora, è il sommo e “principale” Pastore delle proprie pecorelle, ma
vi sono poi i “Pastori secondari” (il Papa, i vescovi, le Congregazioni
vaticane) che ne devono far capire, rendere intelligibili e chiari, i
concetti e le indicazioni che lo Spirito Santo loro suggerisce di
insegnare per la salvezza delle anime.
In realtà, come ha indicato con chiarezza mons. Gherardini, è qui, in
questo territorio virtualmente immenso di ‘magistero autentico’, o
‘pastorale’, che si annida la possibilità per l’uomo di trovare quella
magisteriale « libertà di movimento » che gli permetterebbe,
caricato da intenzioni religiose forse anche sante, come, ieri, la
speranza di Clemente VII di un breviario più vicino alle traduzioni
originali, o ancora il ricongiungimento con i “fratelli separati” di
Papa Paolo VI e oggi la rincorsa dei “feriti sociali” di Papa Bergoglio,
tuttavia anche pur sempre intenzioni seconde rispetto alle
primarie necessità veritative del dogma, di spingersi a voler affermare
dottrine non sufficientemente suffragate dalla Tradizione e dalle Sacre
Scritture, non dall’impianto logico, non dal Deposito della fede,
malgrado ogni sforzo di perfezione didattica e ogni tensione morale al
conseguimento costante di tale traguardo, deviato da quelle “intenzioni
seconde” che si diceva: magari anche sante, ripeto, ma non sempre
pertinenti direttamente alle verità di volta in volta da raggiungere.
In altre parole: ovviamente, un magistero non infallibile doveva
pur esserci, ad affiancare l’infallibile, per tutte le ragioni che si
sono viste, anche se tale magistero avrebbe costituito per sua natura –
essendo fallibile – l’unico possibile spiraglio all’errore, come in
effetti è avvenuto nei secoli, se pur davvero molto raramente, per
l’attenzione veramente sovrumana con cui la Gerarchia ecclesiastica
seppe sempre controllare la produzione dei propri documenti
magisteriali: non si ha oggi l’idea dello straordinario linguaggio con
cui la Chiesa parlava anche solo “pastoralmente” fino a solo qualche
decennio fa, quando la locuzione ‘magistero pastorale’ non si sapeva
quasi cosa fosse, inserita com’era all’interno di una prospettiva
magisteriale fondamentalmente dogmatica: non è il nostro tema, ma la
questione del linguaggio non è un discrimine secondario, ma decisivo,
per distinguere, da una parte, un magistero dogmatico e infallibile e
anche mere ‘autentico’ e ‘pastorale’, ma impregnato dell’ambienza
veritativa del primo, e dall’altra un magistero invece che, attraverso
l’utilizzazione forzosa del livello ‘autentico’ e ‘pastorale’ – e parlo
proprio di quell’utilizzazione che, almeno per studiosi o teologi quali
l’Amerio, il Gherardini, il sottoscritto eccetera, risulterebbe del
tutto forzosa, avvenuta dal Vaticano II in qua –, si farebbe magistero
non solo fallibile, ma poi di fatto effettivamente fallato, ossia
oggetto di effettivi errori dottrinali, dunque in qualche misura,
almeno per costoro, temerario, pericoloso, a volte erroneo, a volte
persino intimamente corrotto, v. Gaudium et spes 24/d, e non solo.
Quella infatti che fino a oggi, per l’estrema rarità con cui si era
realizzata di fatto, pareva quasi, come si dice, un’ipotesi di scuola,
negli ultimi cinquant’anni, da quella del tutto necessaria e però dunque
anche controllatissima fenditura nella roccia che era – per lasciar
passare dalla forte pietra del dogma quell’emulsione d’acqua capace di
dissetare gli assetati nel cuore delle loro più individuate coscienze –,
è divenuta una vera e propria magna voragine, un abisso in cui
qualcuno vorrebbe poter intravvedere stia sprofondando persino la stessa
sacra Roccia da cui necessariamente essa originava, e con essa
sprofondi il peccato, e col peccato scompaia dunque anche l’offesa a Dio
Padre (dunque la Redenzione, il Cristo, la Trinità, Dio stesso). Ma, a
parte dunque la grande offesa, cosa gravemente in atto, tutto il
resto: sprofondamento della sacra Roccia cioè annientamento della Legge e
scomparsa del peccato, non avverrà mai, né mai potrà avvenire, grazie
ai due giuramenti di Cristo che qui ricordiamo: « Portæ Inferi non prævalebunt adversus eam » (Mt 16,18) ed « Ego vobiscum sum omnibus diebus » (Mt 28,20).
RELIGIOSO OSSEQUIO O INVECE RELIGIOSA RESISTENZA.
E qui bisogna chiarirsi: l’infallibilità è un carattere, un carisma
divino che protegge, come ho detto sopra, la verità stessa, e la
protegge appunto da ogni errore (anche non voluto) dell’uomo, ma con
essa protegge anche la Chiesa, il Pastore che la afferma, i Pastori che
se ne avvalgono, il gregge che la contempla, il mondo che la cerca.
Se la Chiesa ha creduto nei secoli necessario non avvalersi sempre e
comunque di questo ombrello protettivo, di questa corazza
soprannaturale, accostando al proprio magistero infallibile il
fallibile, al dogmatico il ‘pastorale’, è perché essa per prima sa che
le verità a priori non hanno la medesima giustificazione delle verità a posteriori:
le verità soprannaturali si giustificano da sé per la loro divina e
direi olistica cioè tutt’intera autenticità data dall’Autorità somma da
cui provengono, divina e indiscutibile (san Roberto Bellarmino la
definisce “Auctoritas in se”, cioè in se stessa, distinguendola dalla “Auctoritas quoad nos”, in quanto a noi); le verità solo logiche e storiche invece, quali le ‘verità connesse’, che è a dire le verità de fide ecclesiastica,
no, perché, anche se si suppone che i Pastori che le formulano tendano
sempre e indefessamente a mantenerle all’interno della forma dogmatica
che le produce (loro causa remota; la prossima è la loro necessità
specifica), e anzi si adoperino con tutte le forze a rendere sempre più
manifesti e realizzabili poi, nella vita di ciascun fedele, proprio i
dogmi ultimi che le sottendono, in una certa misura sono accidentali,
hanno sempre necessità di un qualche aggiustamento, pur santamente
tendendo, nella religiosa e dogmatizzante intentio del sacro
legislatore, a dare diuturnamente a ogni propria parola la necessaria
perfezione veritativa eterna, e le verità logiche sono giustificate solo
tanto quanto si legano con ragione alle prime, alle soprannaturali,
cioè al dogma, come d’altronde visto al § 5.
A questo punto è ben chiaro perché la Chiesa, nel considerare la
risposta richiesta dai fedeli ai due diversi insegnamenti impartiti,
distingua bene tra ‘obbedienza’ e ‘ossequio’: perché una cosa è
‘eseguire scrupolosamente i voleri altrui’, come è l’obbedire, altra
invece è ‘fare del proprio meglio per compiacere con il necessario
discernimento il volere altrui’, come è il pur religioso
ossequio; una cosa è ‘pensare con la testa di un altro’, o ‘martirizzare
il proprio intelletto’, e siamo ancora all’obbedienza, altra il
‘riverire il volere altrui usando della propria intelligenza e volontà’,
ossia ‘con discernimento’, e siamo all’ossequio (sempre religioso,
ovvio).
Nel primo caso è richiesta la donazione dell’intelligenza in toto e toto corde,
la consegna senza discutere e anzi di tutto cuore dell’intelletto,
della ragione; nel secondo è richiesta invece una consegna della
ragione, come visto, solo “parziale” e a posteriori, ossia
un’obbedienza ragionata, critica, che in altre parole deve sapersi
avvalere, per definizione, da parte del soggetto, della propria
personale valutazione giudiziale della verità fallibile, e non
dogmatica, proposta dal santo magistero.
Da qui si aprono due strade: se il soggetto vuole (il ‘religioso ossequio’ di cui si parla è ‘di intelletto e di volontà’),
egli può scegliere di legarsi mani e piedi al magistero anche in questo
caso, per umiltà, per fiducia, per spirito obbedienziale, per intima
convinzione, o forse anche solo per pigrizia intellettuale; ma, se
ritiene, egli può soppesare le verità proposte alla luce del magistero
pregresso di livello dogmatico, della Tradizione e delle Sacre
Scritture, come hanno scelto di fare, tra gli altri, Romano Amerio e
mons. Brunero Gherardini – e io con loro nel citare positivamente nelle
mie pagine le loro posizioni – a proposito p. es. di Gaudium et spes 24/d, come di altre non poche proposte egualmente problematizzanti del magistero degli ultimi cinquant’anni.
Tutto questo per dire che la Chiesa sa che le verità a priori non hanno la stessa provenienza di quelle a posteriori,
e che alle une e alle altre si deve corrispondere dunque con due
approcci assolutamente differenti sia nel loro approntamento che nella
loro esecuzione, sia nelle loro formulazioni che nella loro ricezione,
per non parlare della comminazione delle pene previste nel caso
venissero rifiutate: sarebbero forse in peccato mortale d’eresia i
critici di Gaudium et spes 24/d, utilizzatori accorti e
giudiziosi, e in ogni caso di certo in buona fede e scrupolosi fino al
più cattolico midollo, del ‘religioso ossequio dell’intelletto e della
volontà’ nei confronti di quello che a loro (e a me che scrivo) pare in
tutto un errante magistero che, per far passare una novità che a loro
pare antropologicamente intrigante, avrebbe usato la forma mere
‘pastorale’ scansando la dogmatica, o non lo sarebbero piuttosto i suoi
estensori, che sarebbero stati spinti, in quell’occasione come in altre,
a diffondere urbi et orbi quelle che, almeno per i sopraddetti,
paiono in tutto, oggettivamente, pericolose dottrine, e pure con
magistero straordinario, solenne e universale, ma formalizzato in
carattere simpliciter ‘pastorale’, e non, come invece avrebbero pur dovuto, con magistero straordinario, solenne, universale e specialmente dogmatico,
così aprendosi il varco, almeno per ipotesi di scuola, ma evidentemente
non solo, a volte anche a quello che Padre Bellon chiamerebbe « un insegnamento erroneo, temerario e pericoloso e che sicuramente non può essere insegnato (tuto doceri non potest) », come Gaudium et spes 24/d?
Ho utilizzato qui la traduzione di Padre Bellon, ma va detto, come avevo
anticipato, che in realtà essa non dà il senso in cui dovrebbero essere
tradotte quelle quattro parole latine, “tuto doceri non potest”:
infatti, al di là che, com’è ovvio, di certo non va insegnata mai
nessuna dottrina erronea, temeraria o pericolosa, l’affermazione in
realtà spiega che una certa dottrina “non può essere insegnata con sicurezza”,
ovvero non si hanno elementi indiscutibili, indubitabili, per poterla
insegnare con assoluta certezza e tranquillità – come invece sarebbe per
una qualsiasi dottrina formalmente dogmatica –. Questo il vero senso
della frase.
Quale dottrina? Nei manuali di teologia, il “tuto doceri non potest”
era frequente, specie a riguardo delle dottrine morali e della loro non
rarissima fallibilità, dovuta agli approfondimenti scientifici,
antropologici, culturali e via dicendo che l’uomo compie nel tempo, per
cui abbiamo: « non si può insegnare [una certa dottrina morale] con sicurezza
», cioè non si possono dare, di una certa dottrina morale, sicure
garanzie di veridicità: è dottrina dubbia, fallibile, insicura, e dunque
da insegnare cum grano salis. Questo perché l’avverbio tuto, il nostro ‘sicuramente’, è legato al predicato doceri, e non al verbo servile non potest, per cui è corretto dire: non può ‘essere insegnato/insegnata con sicurezza’, ed è un errore dire: ‘non può sicuramente’ essere insegnata. Quello, e non questo, è infatti il solo significato utilizzato dai manuali di teologia.
Chiarito dunque qui il senso di quel “sicuramente”, che sottolinea come
alcune dottrine non possano essere affatto insegnate come sicure (“tuto doceri non potest”),
si deve finalmente arguire che se dunque quegli accorti e religiosi
critici di dottrine incerte fossero davvero in peccato pubblico di
eresia per aver pubblicato sui loro cattolicissimi libri le loro ben
ponderate perplessità, per non chiamarle i loro più decisi biasimi sul
per loro disdicevole passo che si diceva, oltre che su altri analoghi,
come mai non si è mai avuta notizia di una pena loro comminata per tale
delitto, ossia di una loro altrettanto pubblica e chiara scomunica dalla
Chiesa?
In realtà, rispetto a Gaudium et spes 24/d, e con esso – sempre e
unicamente secondo l’avviso di alcuni stimati studiosi e di anche esimi
teologi cattolici – rispetto a quelle che a costoro e a me non paiono
che molto discutibili e anche gravi novità dottrinali diffusesi nella
Chiesa negli ultimi dieci lustri a partire dal Vaticano II, non è
peccato mortale di eresia quello dei suoi religiosi critici, come
sostengono il mio Confutatore e le autorità che porta a sostegno
(mentre, parere mio e di quei tali di cui sopra, è ben possibile che lo
sia quello dei suoi forse non altrettanto religiosi estensori),
giacché il ‘religioso ossequio dell’intelletto e della volontà’, essendo
azione che richiede una costruzione non a priori, ma a posteriori,
ossia utilizzando le due qualità più determinanti dell’uomo – appunto
l’intelletto e la volontà –, e utilizzandole ‘religiosamente’, che è a
dire nello spirito di umile e disinteressato servizio alla verità divina
e sommamente ordinatrice, è azione massimamente morale, è cioè azione
estremamente rispettosa della realtà, in ossequio a quel grande
principio – esso sì perfettamente obbedienziale – che i filosofi
sanamente individuano con la nota formula della « adæquatio rei et intellectus
», “eguagliamento tra intelletto e realtà”, tanto cara anche a san
Tommaso, formula che sottende, nel suo lungimirante arco di categorico e
splendido regno imperativo tutto e solo marcato dal sacro Nome Imago
(l’eguagliamento è una similitudine, e la similitudine si fa tra
immagini), sia la cattolica e totalitaria obbedienza de fide al
magistero strettamente dogmatico, che l’altrettanto cattolica ma
obbedenzialmente non così totalizzante reazione intellettuale e volitiva
al magistero ‘autentico’, o ‘pastorale’, che è il religioso ossequio,
con annesso possibile discernimento critico, e a volte anche deciso,
estremo e ben motivato rigetto, come nel caso considerato, sempre e
comunque sotteso dall’amore vivo e amicale e dalla totale dedizione al
Papa regnante e alla Chiesa presente, come credo spiegare bene anche in La Chiesa ribaltata, pp. 150-64.
12. C’È UN DOGMA CHE STABILISCE CHE GESÙ CRISTO, OLTRE CHE REDENTORE DEGLI UOMINI, È ANCHE LORO LEGISLATORE. ECCOLO.
Dunque il discernimento critico di Amerio, di mons. Gherardini e di
altri (compreso il sottoscritto) che come costoro corrispondono
perfettamente alla richiesta del magistero della Chiesa, di onorare con
‘religioso ossequio dell’intelletto e della volontà’ il magistero
‘autentico’ e ‘pastorale’ (che però neppure davvero ‘pastorale’ è) che
gli si para dinanzi con Gaudium et spes 24/d e altri passi che a
quelli come a chi scrive paiono in tutto erronei e temerari come quello,
e che si adoperano religiosamente a disinfestare il magistero da
dottrine che ad essi paiono in tutto erronee e temerarie e che dunque a
loro avviso di recente lo avrebbero intorbidato, non solo non sarebbe
peccato mortale di eresia, ma sarebbe azione doverosa e santa,
sommamente cattolica e meritoria, che dunque dovrebbe anzi al più presto
essere raccolta dal sommo Pastore per riportare l’insegnamento della
Chiesa allo splendore dogmatico che solo le donerebbe un’adeguata cioè
perfetta ambienza veritativa, e così anche, ancor più, infine,
caritativa.
C’è un aspetto importante infatti da considerare: le verità insegnate
non coinvolgono nella loro obbedienza solo i fedeli, ma, nella stessa
precisa misura, i loro Pastori: nessuno, per quanto in alto, può
sottrarsi alla forza del dogma, della legge, così come nessuno può
sottrarsi alla debolezza – relativa, ma pur sempre debolezza – della sua
mancanza.
Il concilio di Trento è al proposito molto chiaro: « Si quis dixerit,
Christum Iesum a Deo hominibus datum fuisse ut Redemptorem cui fidant,
non etiam ut Legislatorem cui obediant, anathema sit » (“Se qualcuno
afferma che Dio ha dato agli uomini Gesù Cristo come Redentore in cui
confidare, e non anche come Legislatore cui obbedire, sia anàtema”, Can.
21, Denz 1571).
Sopra si è visto che « qualcuno », sapendo che per venir anatemizzato dovrebbe professare apertis verbis la dottrina condannata, per non esser colpito come dovrebbe pensa di compiere il « superamento dell’imponente staccionata giuridico-dogmatica
», ossia l’aggiramento del divino Legislatore e del suo anàtema,
neanche più esponendo la dottrina, ma buttandosi tutto nella pura e
semplice azione: « Se le persone cercano di comunicarsi – sostiene –, diamo loro la Comunione ».
Ma, nel vuoto giuridico così creatosi, un briciolo di dottrina permane, ed è provvidenzialmente il nocciolo: « Ci opponiamo a quelli che hanno solo precetti
». Lo sterminatore della Legge, il prevaricatore del Legislatore, da un
lato tanto “misericordioso” e “inclusivo”, si oppone direttamente al « Cristo legislatore, cui obbedire » del Canone 21 del Decretum de iustificatione, Cap. 16, sopra citato, del concilio di Trento.
Su queste basi dovrebbe essere facile per il legislatore ravvisare nella
pratica qui attuata, nella sua persistenza, nella sua conclamata e
continua divulgazione, e specialmente nella sua chiara teorica tutta
contraria al dogma, palesata sia dalle azioni pratiche che dalle poche
parole sopra dette, gli estremi per applicare il Canone. Ma il
cosiddetto “superamento delle staccionate” vale provvidenzialmente (o
purtroppo, secondo i punti di vista) per tutti, specialmente per chi non
le avrebbe dovute far superare, sicché si può prevedere che sarà
difficile che oggi qualcuno voglia applicare una legge che egli stesso
ritiene “superata”. Vogliamo vedere?
I santi e buoni Pastori infatti possono e devono avvalersi sempre, in
ogni circostanza, anche nella più apparentemente pratica, della forza
del dogma per poter garantire appieno una certa dottrina, un certo
giudizio, cioè una legge, cui tengono dal punto di vista pastorale,
missionario, casuistico, nella longanime prospettiva della Chiesa che
vuole precorrere il mondo nelle sue più vere e profonde necessità
spirituali, e i fedeli (tutti infatti, anche i Pastori più alti, sono
discepoli, cioè fedeli, davanti all’unico Maestro) possono implorarne la
discesa per averne eguali garanzie da due punti di vista che sono
opposti in quanto all’economia della sacra Societas – perché gli
agnelli e le pecorelle non vedono ciò che vedono i (santi e buoni)
Pastori –, ma che convergono in un unico e identico punto di vista in
quanto alla sicurezza di fortificare così la più santa cioè la più
dogmatica e obbediente cristificazione della Chiesa.
13. CONCLUSIONE: LE DUE VIE INDICATE DALLA CHIESA
PER STARE NELLA REALTÀ VANNO SEGUITE ENTRAMBE,
CIASCUNA NEL SUO PRECISO AMBITO, SENZA CONFONDERLE.
A questo punto abbiamo tutti gli strumenti per capire qual è la corretta
posizione da assumere a riguardo del magistero, infallibile e dogmatico
o invece fallibile e ‘autentico’, o ‘pastorale’ che dir si voglia, e
già si è anticipata di tale decisa e primigenia divaricazione la
necessità anche filosofica: tenersi nel reale, stare alla realtà.
Infatti, insegnare imperiosamente, e obbedire ciecamente a tale
insegnamento, servono a stare alla realtà delle cose per ciò che
riguarda le cose divine, così come insegnare con giudizio (critico) e
obbedire con altrettanto giudizio (critico) servono a stare alla realtà
delle cose per ciò che riguarda le cose prossime alle divine, ma non in
sé divine.
‘Magistero autentico’ o ‘pastorale’ è una forma, ‘magistero dogmatico’ è un’altra e diversa
forma. La prima è forma fallibile, la seconda infallibile: fallibilità e
infallibilità di magistero sono due forme diverse, incomunicabili,
impenetrabili, discontinue una all’altra. A cosa si deve tale
incomunicabilità, impenetrabilità e discontinuità? All’ingenita possibile maculatezza dell’una (di fatto poi verificatasi, ma è secondario) e all’ingenita impossibile maculatezza dell’altra.
Ricordate l’esempio della mosca? Una mosca forse non andrà mai a
posarsi all’interno di una boccia di vetro munita di un collo lungo e
stretto posta in una grande e ariosa stanza, ma forse invece ci andrà. Però di certo non potrà mai e poi mai penetrare in una boccia con l’imboccatura sigillata ermeticamente da un tappo.
Affermare una qualche verità in forma fallibile non dà e non può dare le
medesime garanzie che affermarla in forma infallibile. E perché mai?
Perché la verifica di continuità di quell’asserzione con Sacre Scritture
e Tradizione, per il fatto che essa è enunciata – come dice Padre Betti
– dal Vicario di Cristo nelle precise modalità normative richieste per
averne tutta la pienezza dovuta (v. § 4), è come se la portasse sopra al
braciere infuocato del dogma, e se mancano tali modalità manca tutto.
Oggi non si riconosce alla forma il ruolo arbitrale, divisivo, selettivo
che ha, ma la forma è il principio di ogni cosa, è il suo primo atto,
dunque è ciò che distingue quella cosa da ogni altra, e il principio divisivo resta anche se lo si nega. Ma perché negare che la forma ‘dogmatica’ non è la ‘pastorale’, che è ciò che si nega non nella teorica, com’è ovvio, ma, come si diceva, nelle conseguenze pratiche?
Si è visto che non tutto il magistero della Chiesa riceve le
garanzie di verità che lo Spirito Santo offre a quelle asserzioni
compiute con precise disposizioni, quali sono le dogmatiche, sicché
l’affermazione vista al § 3: « e pertanto detto magistero non è fallibile
», riferita al magistero in generale (« in quanto tale », dice il
domenicano Padre Angelo Bellon, dunque che sia fallibile o non
fallibile, dogmatico o non dogmatico, che è a dire mere
‘autentico’ o ‘pastorale’, è uguale), sarebbe bene concludere che,
palesemente contraddittoria, non sia in nulla rispondente alle norme
della Chiesa, cioè sia affermazione errata, falsa, e anche sviante e
fuorviante, almeno per come tali norme si possono raccogliere dalle
attuali loro non adeguatamente precisate, cioè non dogmatizzate definizioni.
Così pure, l’affermazione che, ancora riferendosi al magistero
non dogmatico, dunque al magistero sempre e solo ‘autentico’ o
‘pastorale’, ancora al § 3 il mio Confutatore dichiara: « Non si tratta di magistero fallibile, ma vero e sicuro », se per « vero e sicuro
» si intende equiparare tale livello di magistero fallibile al
magistero dogmatico e infallibile, è anch’essa, a mio avviso, per tutte
le ragioni esposte, non rispondente a verità, dunque anch’essa
fortemente sviante e fuorviante.
Conclusione: questa dunque, che qui sopra si è data, e non quella
del mio Confutatore di Radio Spada, mi pare in tutto la più corretta
interpretazione da dare intorno alla dottrina fondamentale delle due
forme di magistero – l’infallibile e la fallibile – se si vuole
perfettamente aderire all’insegnamento perenne della Chiesa come
indicato in Premessa: « [Nos credimus solum] quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est
»: la prima è forma sicura, certa, garantita in tutto e per tutto dallo
Spirito Santo. La seconda è forma insicura, bisognosa di tutta
l’attenzione, la rettitudine e lo zelo religioso dei Pastori: che si
adoperino sempre, e in ogni suo percorso e necessità, di porla all’ombra
della prima, la forma dogmatica che ne è il principio costitutivo e
vitale, riprendendone al massimo la necessarissima forma, e, per ciò che
è possibile, anche il linguaggio, soprattutto il linguaggio, sì da
tornare ad avere un magistero della Chiesa de facto almeno, se non de iure, in tutto e per tutto infallibile. Pena l’anarchia, come oggi si va profilando.
14. UNA PROPOSTA
PER POR FINE ALLA “GRANDE GUERRA DELLE FORME”
CHE IMPERVERSA DA CINQUANT’ANNI NELLA CHIESA.
Per contrastare questa mortale prospettiva, anzi, per metter fine a
quella che io chiamerei “La Grande Guerra delle Forme”, o “Guerra delle
due forme”, cioè all’incresciosa lotta che sordidamente sta
imperversando da cinquant’anni tra la forma di un magistero ‘pastorale’
che ad alcuni, come visto, tra cui il sottoscritto, oggi parrebbe in
tutto sottratto al dogma, suo invece imprescindibile principio
informatore, dunque tra la forma di un magistero (per alcuni) oggi più
fallibile che mai, e la forma dell’unico magistero dichiaratamente
infallibile della Chiesa, c’è un solo modo, come scrivo anche in La Chiesa ribaltata
(pp. 300-3): costringere le due forme di magistero a combattere tra
loro direttamente, fallibilità e infallibilità “una contro l’altra
armate”. Ecco come.
Se una norma, una disposizione, una legge stabilita al grado, nella
forma e con linguaggio di semplice magistero ‘pastorale’ resisterà
all’annientamento anche portandola sul braciere dottrinale dove al Cielo
si alza solo il fuoco vivo e al calor bianco del magistero dogmatico,
ossia là dove bruciano nei Cieli eterni solo le parole di fuoco
infallibili e perenni tenute vive dallo Spirito Santo di Dio, allora
quella norma, o disposizione, o legge, vivrà, sarà graziata e anzi,
unita come la si vede alle altre fiammeggianti parole di vita del Logos, certo si darà disposizione che essa sia obbedita in tutto e riverita massimamente, come merita, in tutta la Chiesa.
In altre parole, il Papa dovrebbe ancora una volta assumere su di sé il
carisma consegnato al Vicario di Cristo e formalizzare le decisioni
ultime da prendere su un determinato argomento in fides et moribus
– p. es. dare o non dare l’Eucaristia a conviventi o divorziati
risposati, o altri temi che saranno messi a fuoco nel Sinodo sulla
famiglia previsto per il 2015 – rispettando le quattro disposizioni
viste al § 4: 1), parlare come Dottore e Pastore universale; 2),
manifestando chiaramente la volontà di definire e obbligare a credere;
3), nella pienezza della propria autorità pontificia, o carisma petrino;
4), trattando appunto di fede o di morale.
Ma se quella norma, o disposizione, o legge stabilita al grado, nella
forma e con linguaggio di magistero meramente ‘pastorale’ non resisterà
alla bocca ardente dello Spirito Santo, al pronunciamento papale
compiuto con le disposizioni ora viste, se essa non riuscirà a essere
profferita utilizzando anche lo scettro aurico e irresistibile
dell’infallibilità, in forza dei due giuramenti di Cristo sopra visti
possiamo essere soprannaturalmente più che sicuri che le sue braci
morenti e malsane, che si volevano far credere invece, come dovrebbero,
essere della stessa natura del Fuoco celeste, saranno calpestate come
meritano: con il più deciso vigore, e spente per sempre, e possiamo
essere soprannaturalmente sicuri altresì che anzi sarà fulminato su di
esse e su chi le volesse ancora pronunciare, come sempre è stato fatto
nei secoli nella Chiesa, l’anàtema che le proscrive in eterno come
dottrine sommamente nocive e mortali. Ritrovando così la perduta pace e
la più viva unità, i due valori divini che alla Chiesa dà solo il dogma:
che alla Chiesa cioè dà solo quello che è la soprannaturale e
inalienabile forma della Chiesa.
Sarà sufficiente la formalizzazione compiuta a suo tempo da Paolo VI con la Humanæ vitæ?
Molti teologi la trovarono inadeguata, equivoca, e intere conferenze
episcopali di fatto disobbedirono alle sue disposizioni. Ciò che oggi la
Chiesa deve superare per sopravvivere è proprio il vortice di ambiguità
in cui è stata trascinata dagli anni ’60. Ci vuole un colpo di reni, un
evento che la strattoni via dalla “terra di mezzo” in cui si trova,
bisogna che torni all’originaria chiarezza.
L’alternativa è restare, appunto, nella “terra di mezzo” adogmatica dove
il neomodernista, costringendo la Chiesa a vivere respirando l’aria del
mondo e non quella soprannaturale del dogma, crede di fare il bravo
Pastore, nascondendosi il fatto che fuori della propria forma la Chiesa a
lungo non può stare. E Dio, per quei due famosi giuramenti, come sempre
avvenuto, non la lascerà a lungo respirare l’aria del mondo: « Abbiate fiducia – ci dice infatti il Cristo –: Io ho vinto il mondo » (Gv 16,33). E se ’ha vinto, lo vincerà ancora.
Un’ordalia dunque, un deciso e netto giudizio divino, che ponga
fine a una lotta fratricida che troppo si è lasciata durare, e che
riporti finalmente la Chiesa alla sua divina pace: pace di verità.
Oggi la posta in gioco, in vista del Sinodo ordinario sulla famiglia
dell’ottobre 2015, e, più ancora, delle decisioni finali che Papa
Francesco si riserva di prendere subito dopo, è senz’altro decisiva, è
universale, è per la Chiesa e per tutto il mondo decisamente vitale.
Dimostrare che le scelte che ne usciranno sono davvero non solo in linea
con i giudizi umani, fossero anche i più alti e consigliati, ma con il
giudizio di infallibile e divina verità di Nostro Signore Gesù Cristo,
ecco: dimostrare proprio questo fatto inequivocabile porrà la Chiesa – e
il mondo – al riparo da ogni reale o anche solo ipotetico errore, in
quella limpida e soprannaturale sicurezza che si rivela necessaria
quando si è davanti ai momenti estremi, ai momenti decisivi.
Di vita o di morte propria.* * *
Nota bene. Si sarà notato che non si accenna qui alle
forme di magistero ‘ordinario’ e ‘straordinario’, se non di sfuggita in
due punti. Ciò in quanto entrambe le categorie non influiscono in alcun
modo sul tema della fallibilità, come ognuno può vedere sui dizionari
teologici, oggi anche su internet, perché entrambe possono risultare sia
fallibili (‘autentiche’, o ‘pastorali’) che infallibili (‘dogmatiche’).
__________________________
1. 1 A proposito di canonizzazioni, mi è segnalato un articolo, sempre
su Radio Spada, Il fallibilismo ovvero dell’inventiva teologica: una
risposta ad Enrico Maria Radaelli, firmato Fra Leone da Bagnoregio,
pseudonimo dietro il quale parrebbe nascondersi un religioso o un prete
dalle forti inclinazioni sedevacantiste, al quale comunque, al presente,
non si può rispondere, perché quelli trattati sono temi in cui ci si
mette la faccia, in cui cioè si assume la responsabilità di ciò che si
afferma, e i dibattiti si fanno a viso aperto, specie tra cattolici,
amici fraterni nella stessa fede, si crede, o almeno: fino a prova
contraria. Le obiezioni saranno volentieri raccolte solo quando sarà
fatta pulizia di ogni velo.
2. Ecco quanto scrive il filosofo luganese su Stat Veritas: « […]
I Padri dell’ultimo Concilio sconvolsero i sensi delle Sacre Scritture
addossando all’uomo ciò che era da riferire a Dio: nella Costituzione
Gaudium et spes, 24, affermano che l’uomo “in terris sola creatura est
quam Deus PROPTER SEIPSAM voluerit”: L’uomo è nel mondo la sola creatura
che Dio abbia voluta per sé stessa. Quest’affermazione si riferisce al
solenne passo di Proverbi 16,4: “Universa propter SEMETIPSUM operatus
est Dominus: Il Signore ha fatto tutte le cose per sé stesso. Ma la
citazione riferisce al complemento oggetto ciò che nelle Scritture
appartiene al soggetto rovesciandone il senso: è infatti impossibile che
la volontà divina abbia per oggetto altro che la sua propria bontà,
giacché tutte le bontà finite sussistono solo grazie alla bontà infinita
né l’infinito può uscire da sé stesso alienandosi e appetendo il finito ».
3. Qui il pensiero completo di mons. Gherardini. Esso si articola nel testo e poi in nota. Nel corpo del testo: « Se
“per se stesso” [l’espressione] dovesse riferirsi a Dio, verrebbe
subito da domandarsi: c’è una sola creatura che Dio non abbia voluto per
sé? e perché, allora, l’uomo soltanto? Se invece dovesse riferirsi
all’uomo, la conseguenza farebbe di Dio il tributario dell’uomo, un suo
sottoposto, e dell’uomo il valore primario, condizionando la libertà
assoluta di Dio all’assolutezza di codesto valore, imponendo a Dio
un’assurda e contraddittoria “determinatio ad unum” ». Nella nota poi: «
È un pensiero assurdo e blasfemo, sia che le parole finali si leggano
al femminile (“per se stessa”), sia che le si leggano al maschile (“per
se stesso”). Il “per se stessa” sovverte i valori, sottoponendo il
Creatore alla creatura. Altrettanto va detto del “per se stesso” in
riferimento all’uomo; in riferimento a Dio, escluderebbe tutto il
creato, con eccezione del “solo” uomo, dalla sua finalizzazione alla
glorificazione esterna del Creatore ».
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