Un metodo di scrittura [che] permette infinite interpretazioni comprese fra i due estremi affermati… il Vaticano II ha prodotto documenti che, rifuggendo il fine definitorio e quindi il linguaggio definitorio, si propongono come testi aperti, soggetti a interpretazioni operate attraverso parole chiave e concetti cardine disseminati in altri testi.
Martedì 7 aprile 2015
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E’ pervenuta in Redazione:
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Caro Gnocchi,
mi permetta due righe di sfogo. S. Messa di Pasqua, in un santuario dedicato alla Madonna, dove secoli di storia ci raccontano di interventi miracolosi. Un bellissimo santuario, e tanti fedeli. Questo a prima vista conforta. Poi arriva lo strazio. Un coro che strilla – non canta, strilla – accompagnato da chitarre, tamburi e tamburelli. Assordante e pure stonato. Il celebrante che ringrazia il coro che si è preparato per “rendere più lieta la liturgia” (perché, la liturgia di Pasqua è triste?), ma in compenso un paio di volte deve far cenno al coro di smetterla, perché evidentemente non si sono messi bene d’accordo prima sui tempi degli interventi canori. Insomma, un clima di confusione, rumore (non musica, tantomeno sacra), raccoglimento zero e una predica in cui non si capisce più perché tutti dovremmo essere “felici”.
Infatti durante la predica c’è un breve fuggevole accenno alla Morte e Resurrezione di Nostro Signore, ma in compenso si parla di letizia e felicità perché tutti ci riscopriamo fratelli. Ma in nome di cosa e perché, non lo si dice. Volemose bene. Sono uscito da questa Messa triste e se non credessi fermamente che l’ostia che ho ricevuto era Nostro Signore, mi sarei anche convinto di aver solo perso del tempo. Qui, mi pare, non si tratta più di concilio o postconcilio, di conservatori o progressisti. Qui si tratta di preti che non hanno più la Fede. Perché se si ha davvero Fede, come si può accettare di trasformare la Santa Messa in un caos? Ma il prete si rende ancora conto di ciò che fa sull’altare?
Scusi, forse sono stato troppo lungo. Grazie per quanto lei fa e un cordiale saluto
Franco Cabboi
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Caro Cabboi,
invece si tratta proprio di Concilio e postconcilio, di progressisti e conservatori. Anzi, a voler essere precisi si tratta di preconcilio e di Concilio, di progressisti e tradizionalisti. È bene intendersi sui termini perché oggi troppi “conservatori” fanno dolosamente il gioco dei progressisti e sarebbe sbagliato e ingiusto ascriverli a una battaglia che, se lo è mai stata, ormai da tempo non è più la loro. Lasciamo perdere il termine “conservatore” divenuto così ambiguo da essere utilizzato anche da chi oggi vuole “conservare” le rivoluzioni bergogliane dopo aver “conservato” le timide frenate ratzingeriane, dopo aver “conservato” gli slanci vitalistici wojtyliani, dopo aver “conservato” gli amletici dubbi “montiniani”, dopo aver “conservato” le profetiche aperture roncalliane e poi più nulla perché, secondo questi “conservatori”, ciò che è stato prima del Concilio Vaticano II non sarebbe da “conservare” neanche in un museo.
E lasciamo perdere pure il termine “postconcilio” perché la contesa non è tra un “post” che tradisce il presunto “vero” Concilio, ma tra il Concilio Vaticano II e ciò che lo ha preceduto. Non caso, i progressisti parlano di “Chiesa conciliare” opposta a una “Chiesa preconciliare” e, da questo punto di vista, sono decisamente più onesti e chiari di coloro che si nascondono nelle spire di un postconcilio malsortito per colpa di qualche progressista abile nell’arruffianarsi i giornali.
Caro Cabboi, se, a volte chiaramente e a volte tra le righe, non fosse stato tutto già scritto nei documenti approvati dai padri conciliari, ai progressisti non sarebbe bastato arruffianarsi i giornali per fare la rivoluzione. Ne è un esempio la questione liturgica, che mi pare le stia particolarmente a cuore.
Tutto nasce dalla Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia, “Sacrosanctum Concilium”, la prima approvata dall’assise nel 1963. Questa Costituzione, caro Cabboi viene presentata come un buon testo, in linea con la tradizione, ma snaturato da una cattiva interpretazione.
Per cominciare, vale la pena di ricordare che lo schema preparatorio di questo documento fu l’unico a non essere rigettato dal colpo di mano neomodernista operato in apertura di Concilio. Come scrive Roberto de Mattei nel suo saggio “Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta”, era “l’unico che soddisfaceva i progressisti, definito dal domenicano Edward Schillebeeckx ‘un capolavoro’. Gli olandesi insistettero perché lo schema, che figurava come il quinto nell’ordine dei lavori, fosse il primo ad essere discusso. Si trattò, come sottolinea Wiltgen, di una nuova vittoria del fronte centro-europeo”.
Capisce bene, caro Cabboi, che un “capolavoro” agli occhi di una punta di diamante del neomodernismo come padre Schillebeeckx non può certo tranquillizzare chi abbia a cuore l’ortodossia cattolica. Neanche quando da tale “capolavoro” sortisca un documento come la Costituzione “Sacrosanctum Concilium” in cui si trovano affermazioni in linea con la Tradizione, poiché, secondo una collaudata strategia, i neomodernisti disseminarono il testo di passaggi che permettevano di leggerlo e applicarlo in chiave eversiva.
In perfetta consonanza tradizionale, per esempio, vi si sostiene che nella “liturgia (…) soprattutto nel divino sacrificio dell’eucaristia, ‘si attua l’opera della nostra redenzione’”. E, riguardo alla conservazione della lingua liturgica, che molti conservatori estrapolano trionfalmente dal testo conciliare, al primo paragrafo del punto 36 si dice: “L’uso della lingua latina, salvo il diritto particolare, sia conservato nei riti latini”.
Ma il primo paragrafo del punto 36 è seguito da un secondo paragrafo che dice: “Dato però che, sia nella messa, sia nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua può riuscire di grande utilità per il popolo, vi sia la possibilità di concedere ad essa un ampio spazio, anzitutto nelle letture e nelle monizioni, in alcune orazioni e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti”.
Il “però” avversativo è la vera chiave anche di questo testo conciliare. Un metodo di scrittura che permette infinite interpretazioni comprese fra i due estremi affermati. Rimane il fatto che l’estremo dominante, come ha dimostrato la storia e come dimostra quotidianamente la cronaca di cui lei stesso, caro Cabboi, è testimone, si è mostrato quello neomodernista, lasciando supporre che le affermazioni tradizionali fossero solo residuali ed estranee alla trama occulta sottostante al testo.
A proposito della ricaduta di tale ambiguità, scrive Brunero Gherardini in “Concilio Vaticano II. Un discorso da fare”: “Si prenda ad esempio SC 21: vi si parla di ’una parte immutabile perché d’istituzione divina, e di parti soggette a cambiamento… qualora vi si fossero insinuati elementi meno rispondenti alla natura della Liturgia o si fossero resi meno adatti’. Una formula del genere fa di qualunque innovazione un gioco da ragazzi”.
Più avanti, prendendo in esame il dettato conciliare di procedere a “un’accurata riforma generale della liturgia stessa”, il teologo scrive: “Che si chieda la soppressione degli elementi eterogenei i quali, nel tempo, si sian sovrapposti alla ‘parte immutabile’ della Liturgia stessa e sian quindi incompatibili con essa, è ovvio. Non è ovvio, invece, che si parli di riforma generale, e da compiere nel modo più accurato se ad una tale riforma la Liturgia stessa sottrae la sua ‘parte immutabile’ e quindi irreformabile”.
Secondo Gherardini, le smanie di novità “trovaron proprio nel dettato conciliare, cioè nel suo linguaggio e nelle porte ch’esso andava dischiudendo, un insperato aiuto. Si legga con attenzione quanto segue: ‘Salva la sostanziale (il corsivo è mio, ma la parola è quanto mai sintomatica) unità del rito romano, anche nella revisione dei libri liturgici si lasci un margine alle legittime diversità e ai legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli, soprattutto nelle missioni’ (SC 38). ‘I riti, conservata fedelmente la loro sostanza (come sopra), sian resi più semplici; si sopprimano gli elementi che, col passare dei secoli, vennero o duplicati o meno utilmente aggiunti; alcuni elementi invece, che col tempo andarono perduti sian ripristinati, secondo la tradizione dei Padri, nella misura che sembrerà opportuna e necessaria’ (SC 50). Qui c’è molto di più di una porta aperta: è addirittura spalancata. (…) L’accenno alla tradizione dei Padri, di per sé ineccepibile, sembra nel contesto una pennellata d’archeologia. Sì, la porta è proprio spalancata. E se qualcuno è passato attraverso di essa per introdurre nella Chiesa non una riforma liturgica che armonizzasse, sulla base delle sue fonti, la Tradizione ecclesiale con le attese dell’oggi in vista del domani, ma una liturgia eversiva della sua stessa natura e delle sue finalità primarie, in ultima analisi responsabile è proprio il testo conciliare”.
Detto questo, caro Cabboi, lei si chiederà perché i modernisti, con le loro interpretazioni, hanno avuto la meglio sui loro oppositori. La ragione sta nel fatto che il Vaticano II ha prodotto documenti che, rifuggendo il fine definitorio e quindi il linguaggio definitorio, si propongono come testi aperti, soggetti a interpretazioni operate attraverso parole chiave e concetti cardine disseminati in altri testi.
Uno di questi concetti cardine è quello di “popolo di Dio”, che non è certo nuovo nella storia della Chiesa. Ma qui diventa un concetto dinamico e aperto che necessita di un contenitore a sua volta dinamico e aperto. Un’esigenza che si può soddisfare solo rivoluzionando i termini e le gerarchie del discorso.
Ecco così che la Costituzione “Lumen gentium” sulla Chiesa, per “narrare” il concetto di “popolo di Dio” rimanda al decreto sull’ecumenismo “Unitatis redintegratio”. Una costituzione “dogmatica” come “Lumen Gentium” rimanda dunque a un testo di inferiore importanza quale è un decreto come “Unitatis redintegratio” dichiarando di essere un contenitore aperto e di fatto da completare. E qui, seguendo “Lumen gentium”, al punto 15 ci si chiede: i giusti acattolici (per esempio i protestanti in buona fede) sono membri della Chiesa? Non si sa con certezza. Il punto 3 di “Unitatis redintegratio”, che dovrebbe chiarire la questione, non porta alcuna luce e dunque rimangono operanti le soluzioni più diverse e rivoluzionarie.
Ebbene, caro Cabboi, provi ad applicare il concetto dinamico e aperto di “popolo di Dio” come chiave di lettura e di recezione della Costituzione sulla Sacra Liturgia. Se vuole sapere che cosa ne esce, torni a Messa nel santuario di cui ha parlato nella sua lettera.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
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E’ pervenuta in Redazione:
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Caro Gnocchi,
mi permetta due righe di sfogo. S. Messa di Pasqua, in un santuario dedicato alla Madonna, dove secoli di storia ci raccontano di interventi miracolosi. Un bellissimo santuario, e tanti fedeli. Questo a prima vista conforta. Poi arriva lo strazio. Un coro che strilla – non canta, strilla – accompagnato da chitarre, tamburi e tamburelli. Assordante e pure stonato. Il celebrante che ringrazia il coro che si è preparato per “rendere più lieta la liturgia” (perché, la liturgia di Pasqua è triste?), ma in compenso un paio di volte deve far cenno al coro di smetterla, perché evidentemente non si sono messi bene d’accordo prima sui tempi degli interventi canori. Insomma, un clima di confusione, rumore (non musica, tantomeno sacra), raccoglimento zero e una predica in cui non si capisce più perché tutti dovremmo essere “felici”.
Infatti durante la predica c’è un breve fuggevole accenno alla Morte e Resurrezione di Nostro Signore, ma in compenso si parla di letizia e felicità perché tutti ci riscopriamo fratelli. Ma in nome di cosa e perché, non lo si dice. Volemose bene. Sono uscito da questa Messa triste e se non credessi fermamente che l’ostia che ho ricevuto era Nostro Signore, mi sarei anche convinto di aver solo perso del tempo. Qui, mi pare, non si tratta più di concilio o postconcilio, di conservatori o progressisti. Qui si tratta di preti che non hanno più la Fede. Perché se si ha davvero Fede, come si può accettare di trasformare la Santa Messa in un caos? Ma il prete si rende ancora conto di ciò che fa sull’altare?
Scusi, forse sono stato troppo lungo. Grazie per quanto lei fa e un cordiale saluto
Franco Cabboi
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Caro Cabboi,
invece si tratta proprio di Concilio e postconcilio, di progressisti e conservatori. Anzi, a voler essere precisi si tratta di preconcilio e di Concilio, di progressisti e tradizionalisti. È bene intendersi sui termini perché oggi troppi “conservatori” fanno dolosamente il gioco dei progressisti e sarebbe sbagliato e ingiusto ascriverli a una battaglia che, se lo è mai stata, ormai da tempo non è più la loro. Lasciamo perdere il termine “conservatore” divenuto così ambiguo da essere utilizzato anche da chi oggi vuole “conservare” le rivoluzioni bergogliane dopo aver “conservato” le timide frenate ratzingeriane, dopo aver “conservato” gli slanci vitalistici wojtyliani, dopo aver “conservato” gli amletici dubbi “montiniani”, dopo aver “conservato” le profetiche aperture roncalliane e poi più nulla perché, secondo questi “conservatori”, ciò che è stato prima del Concilio Vaticano II non sarebbe da “conservare” neanche in un museo.
E lasciamo perdere pure il termine “postconcilio” perché la contesa non è tra un “post” che tradisce il presunto “vero” Concilio, ma tra il Concilio Vaticano II e ciò che lo ha preceduto. Non caso, i progressisti parlano di “Chiesa conciliare” opposta a una “Chiesa preconciliare” e, da questo punto di vista, sono decisamente più onesti e chiari di coloro che si nascondono nelle spire di un postconcilio malsortito per colpa di qualche progressista abile nell’arruffianarsi i giornali.
Caro Cabboi, se, a volte chiaramente e a volte tra le righe, non fosse stato tutto già scritto nei documenti approvati dai padri conciliari, ai progressisti non sarebbe bastato arruffianarsi i giornali per fare la rivoluzione. Ne è un esempio la questione liturgica, che mi pare le stia particolarmente a cuore.
Tutto nasce dalla Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia, “Sacrosanctum Concilium”, la prima approvata dall’assise nel 1963. Questa Costituzione, caro Cabboi viene presentata come un buon testo, in linea con la tradizione, ma snaturato da una cattiva interpretazione.
Per cominciare, vale la pena di ricordare che lo schema preparatorio di questo documento fu l’unico a non essere rigettato dal colpo di mano neomodernista operato in apertura di Concilio. Come scrive Roberto de Mattei nel suo saggio “Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta”, era “l’unico che soddisfaceva i progressisti, definito dal domenicano Edward Schillebeeckx ‘un capolavoro’. Gli olandesi insistettero perché lo schema, che figurava come il quinto nell’ordine dei lavori, fosse il primo ad essere discusso. Si trattò, come sottolinea Wiltgen, di una nuova vittoria del fronte centro-europeo”.
Capisce bene, caro Cabboi, che un “capolavoro” agli occhi di una punta di diamante del neomodernismo come padre Schillebeeckx non può certo tranquillizzare chi abbia a cuore l’ortodossia cattolica. Neanche quando da tale “capolavoro” sortisca un documento come la Costituzione “Sacrosanctum Concilium” in cui si trovano affermazioni in linea con la Tradizione, poiché, secondo una collaudata strategia, i neomodernisti disseminarono il testo di passaggi che permettevano di leggerlo e applicarlo in chiave eversiva.
In perfetta consonanza tradizionale, per esempio, vi si sostiene che nella “liturgia (…) soprattutto nel divino sacrificio dell’eucaristia, ‘si attua l’opera della nostra redenzione’”. E, riguardo alla conservazione della lingua liturgica, che molti conservatori estrapolano trionfalmente dal testo conciliare, al primo paragrafo del punto 36 si dice: “L’uso della lingua latina, salvo il diritto particolare, sia conservato nei riti latini”.
Ma il primo paragrafo del punto 36 è seguito da un secondo paragrafo che dice: “Dato però che, sia nella messa, sia nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua può riuscire di grande utilità per il popolo, vi sia la possibilità di concedere ad essa un ampio spazio, anzitutto nelle letture e nelle monizioni, in alcune orazioni e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti”.
Il “però” avversativo è la vera chiave anche di questo testo conciliare. Un metodo di scrittura che permette infinite interpretazioni comprese fra i due estremi affermati. Rimane il fatto che l’estremo dominante, come ha dimostrato la storia e come dimostra quotidianamente la cronaca di cui lei stesso, caro Cabboi, è testimone, si è mostrato quello neomodernista, lasciando supporre che le affermazioni tradizionali fossero solo residuali ed estranee alla trama occulta sottostante al testo.
A proposito della ricaduta di tale ambiguità, scrive Brunero Gherardini in “Concilio Vaticano II. Un discorso da fare”: “Si prenda ad esempio SC 21: vi si parla di ’una parte immutabile perché d’istituzione divina, e di parti soggette a cambiamento… qualora vi si fossero insinuati elementi meno rispondenti alla natura della Liturgia o si fossero resi meno adatti’. Una formula del genere fa di qualunque innovazione un gioco da ragazzi”.
Più avanti, prendendo in esame il dettato conciliare di procedere a “un’accurata riforma generale della liturgia stessa”, il teologo scrive: “Che si chieda la soppressione degli elementi eterogenei i quali, nel tempo, si sian sovrapposti alla ‘parte immutabile’ della Liturgia stessa e sian quindi incompatibili con essa, è ovvio. Non è ovvio, invece, che si parli di riforma generale, e da compiere nel modo più accurato se ad una tale riforma la Liturgia stessa sottrae la sua ‘parte immutabile’ e quindi irreformabile”.
Secondo Gherardini, le smanie di novità “trovaron proprio nel dettato conciliare, cioè nel suo linguaggio e nelle porte ch’esso andava dischiudendo, un insperato aiuto. Si legga con attenzione quanto segue: ‘Salva la sostanziale (il corsivo è mio, ma la parola è quanto mai sintomatica) unità del rito romano, anche nella revisione dei libri liturgici si lasci un margine alle legittime diversità e ai legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli, soprattutto nelle missioni’ (SC 38). ‘I riti, conservata fedelmente la loro sostanza (come sopra), sian resi più semplici; si sopprimano gli elementi che, col passare dei secoli, vennero o duplicati o meno utilmente aggiunti; alcuni elementi invece, che col tempo andarono perduti sian ripristinati, secondo la tradizione dei Padri, nella misura che sembrerà opportuna e necessaria’ (SC 50). Qui c’è molto di più di una porta aperta: è addirittura spalancata. (…) L’accenno alla tradizione dei Padri, di per sé ineccepibile, sembra nel contesto una pennellata d’archeologia. Sì, la porta è proprio spalancata. E se qualcuno è passato attraverso di essa per introdurre nella Chiesa non una riforma liturgica che armonizzasse, sulla base delle sue fonti, la Tradizione ecclesiale con le attese dell’oggi in vista del domani, ma una liturgia eversiva della sua stessa natura e delle sue finalità primarie, in ultima analisi responsabile è proprio il testo conciliare”.
Detto questo, caro Cabboi, lei si chiederà perché i modernisti, con le loro interpretazioni, hanno avuto la meglio sui loro oppositori. La ragione sta nel fatto che il Vaticano II ha prodotto documenti che, rifuggendo il fine definitorio e quindi il linguaggio definitorio, si propongono come testi aperti, soggetti a interpretazioni operate attraverso parole chiave e concetti cardine disseminati in altri testi.
Uno di questi concetti cardine è quello di “popolo di Dio”, che non è certo nuovo nella storia della Chiesa. Ma qui diventa un concetto dinamico e aperto che necessita di un contenitore a sua volta dinamico e aperto. Un’esigenza che si può soddisfare solo rivoluzionando i termini e le gerarchie del discorso.
Ecco così che la Costituzione “Lumen gentium” sulla Chiesa, per “narrare” il concetto di “popolo di Dio” rimanda al decreto sull’ecumenismo “Unitatis redintegratio”. Una costituzione “dogmatica” come “Lumen Gentium” rimanda dunque a un testo di inferiore importanza quale è un decreto come “Unitatis redintegratio” dichiarando di essere un contenitore aperto e di fatto da completare. E qui, seguendo “Lumen gentium”, al punto 15 ci si chiede: i giusti acattolici (per esempio i protestanti in buona fede) sono membri della Chiesa? Non si sa con certezza. Il punto 3 di “Unitatis redintegratio”, che dovrebbe chiarire la questione, non porta alcuna luce e dunque rimangono operanti le soluzioni più diverse e rivoluzionarie.
Ebbene, caro Cabboi, provi ad applicare il concetto dinamico e aperto di “popolo di Dio” come chiave di lettura e di recezione della Costituzione sulla Sacra Liturgia. Se vuole sapere che cosa ne esce, torni a Messa nel santuario di cui ha parlato nella sua lettera.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
“FUORI MODA”. La posta di Alessandro Gnocchi – rubrica del martedì
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Ogni martedì Alessandro Gnocchi risponde alle lettere degli amici lettori. Tutti potranno partecipare indirizzando le loro lettere a info@riscossacristiana.it , con oggetto: “la posta di Alessandro Gnocchi”. Chiediamo ai nostri amici lettere brevi, su argomenti che naturalmente siano di comune interesse. Ogni martedì sarà scelta una lettera per una risposta per esteso ed eventualmente si daranno ad altre lettere risposte brevi. Si cercherà, nei limiti del possibile, di dare risposte a tutti.
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Il successo di questa rubrica è testimoniato dal numero crescente di lettere che arrivano in redazione. A questo proposito preghiamo gli amici lettori di contenere i propri testi entro un massimo di 800 – 1.000 battute. In tal modo sarà più facile rispondere a più lettere nella stessa settimana. Ringraziamo tutti per la gentile attenzione e collaborazione.
PD
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