ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 19 giugno 2015

Per molti, non per tutti

Perché la Chiesa non ammette alla Comunione i divorziati risposati?
La Comunione ai divorziati risposati mette in campo questioni di Fede della massima importanza: il Matrimonio è o no indissolubile? Quali disposizioni richiede la Comunione? Cosa significa “Comunione sacrilega”? È evidente che non si tratta solo di disciplina, ma di dottrina.
Come noto la Chiesa Cattolica crede nell’indissolubilità del Matrimonio (non solo sacramentale ma anche come semplice contratto naturale) se rato e consumato. E crede che nessuna autorità umana possa scioglierlo e nessuna causa eccetto la morte. Già il Catechismo Romano pubblicato a seguito del Concilio di Trento nel 1566 scriveva: «Già al matrimonio, come semplice fatto naturale, conveniva che non potesse mai sciogliersi, quantunque tale proprietà risalti soprattutto dalla sua natura di sacramento; esso infatti per tutte le sue proprietà naturali, raggiunge la più alta perfezione. Ad ogni modo ripugna all’esigenza dell’educazione dei figli e agli altri beni del matrimonio la dissolubilità del vincolo».

I cosiddetti privilegi petrino e paolino previsti dall’attuale Codice di Diritto Canonico (cann. 1143 e 1148) non sono un’eccezione a questa regola, ma una sua dimensione e una sua particolare applicazione. Lo stesso dicasi per il caso di annullamento di un matrimonio non valido, per varie possibili ragioni (mancanza di consenso, consanguineità, vizio di forma, impotentia coeundi, ecc.). Credendo all’indissolubilità delle nozze non è possibile ammettere il divorzio. L’istituto del divorzio, vecchio quasi quanto il matrimonio (almeno nella forma del ripudio della donna da parte dell’uomo), è stato sempre disapprovato dalla Chiesa, fin dall’età apostolica. E su questo non si possono avere dubbi, malgrado esistano e siano di moda alcuni tentativi di dimostrare il contrario.
Si veda in proposito l’ottimo studio di sintesi di padre Carpin O. P. [1]. Il Teologo domenicano vi confuta da par suo la lettura che padre Giovanni Cereti aveva fatto di alcuni testi patristici e sinodali in opere ormai vecchie e ampiamente screditate dal punto di vista scientifico [2].
Se il divorzio è inammissibile dal punto di vista del Vangelo, chi lo compie non è in conformità con l’insegnamento della Chiesa, la quale prolunga in un certo senso il Vangelo nella storia. Come si potrebbe quindi ammettere alla Comunione sacramentale – per la quale è richiesto lo stato di grazia – colui che contraddice pubblicamente ad una delle norme più sante della Religione? Lo stesso Codice infatti recita così: «Colui che è consapevole di essere in peccato grave, non celebri la Messa né comunichi al Corpo del Signore senza premettere la confessione sacramentale» (can. 916).
Quindi, come si vede, tale dottrina non è legata alle variabili contingenze della storia e neppure è una mera disciplina riformabile (come il lasso di tempo di digiuno pre-eucaristico che è passato dalla mezzanotte a tre ore e poi ad una sola ora). Qui siamo di fronte a questioni dottrinali della massima importanza ovvero questioni che attengono direttamente alla fede: il Matrimonio è o no un Sacramento? Lutero lo ha negato risolutamente e nei paesi luterani ormai il matrimonio, anche civile, è divenuto un optional. I Sacramenti poi li possono ricevere tutti gli uomini (battezzati) o solo quelli che hanno le giuste disposizioni? Il peccato mortale rende in qualche modo sacrilega la Comunione, come insegna san Paolo (cf. 1Cor 11,27), oppure no?
Per questo, «il cambiamento nella dottrina e nella disciplina» proposto dal card. Walter Kasper al Sinodo risulta inaccettabile e si fonda, in ultima analisi, su delle «idee fuorvianti sia della fedeltà che della misericordia» [3]. Al contrario il Concilio Vaticano II sottolineava in più punti che l’intima unione del Matrimonio, «in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l’indissolubile unità» (Gaudium et spes, n. 48).
Nell’esortazione apostolica Familiaris consortio (1981), Giovanni Paolo II, il Papa della famiglia, ribadiva la prassi della Chiesa, «fondata sulla Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter essere ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio» (n. 84).
Oggi si gioca molto con le parole e certi teologi dell’aggiornamento (in servizio permanente effettivo) dicono così: ma la Comunione mica è solo per i perfetti, per i santi, per i mistici, ma per tutto il popolo di Dio!!! La frase in sé pare innocua, anzi pia e fa un certo effetto sull’ascoltatore superficiale. Ma per sposarsi c’è bisogno, ad esempio, di non essere fratello e sorella, ed anche di essere cresimati, e perfino di non essere... già sposati! Così come del resto per essere ordinati sacerdoti bisogna avere altre caratteristiche e non si deve essere sposati né volerlo essere dopo... Ergo: non tutti i Sacramenti sono per tutti i battezzati! Non esiste alcun diritto al Sacramento. Ma esiste il dovere di rispettare le regole che la Santa Madre Chiesa stabilisce per l’accesso a questo o a quel Sacramento. Certe regole possono cambiare e sono cambiate di fatto, come la precedenza dell’Eucarestia sulla Confermazione e viceversa, e molte altre. Ma certe regole no poiché collegate direttamente con il Diritto divino (Ius divinum) di per sé immutabile.
Non si può ammettere il divorzio vivente l’altro coniuge (ma solo la separazione per gravissime ragioni): ammetterlo significherebbe negare l’indissolubilità del Matrimonio. Ma questa indissolubilità è un Dogma di fede e fa parte della Rivelazione divina del Nuovo Testamento.
Quindi se si dice, con un linguaggio generale, che siamo tutti peccatori, allora si può ammettere che anche i peccatori si nutrano della Comunione divina, altrimenti essa non sarebbe per nessuno. Se però si vuole intendere con quella locuzione che chiunque, in qualunque stato di vita si trovi, ha diritto alla Comunione sacramentale, allora ciò è da negarsi in quanto ogni diritto è fondato su un dovere e il dovere di obbedire a Dio e alla Chiesa precede il diritto del fedele.
La chiarezza di Giovanni Paolo II non ammette repliche: «La riconciliazione nel sacramento della penitenza – che aprirebbe la strada al Sacramento eucaristico – può essere accordata solo a coloro che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio» (Familiaris Consortio, n. 84).
Riguardo alla situazione di peccato grave del divorziato risposato esiste una Dichiarazione del Pontificio Consiglio per i testi legislativi (24.6.2000). La situazione oggettiva di peccato grave si deduce da tre fattori: dalla consistenza del peccato in foro esterno (e nei peccati di lussuria non c’è parvità di materia, tanto meno qui, in cui si è preteso di rompere il vincolo coniugale contratto davanti a Dio, creando una nuova famiglia che sostituisca la vecchia); dalla perseveranza ostinata, «che significa l’esistenza di una situazione oggettiva di peccato che dura nel tempo e a cui la volontà del fedele non mette fine»; e dal carattere pubblico e manifesto dello stato di peccato.
Non si tratta tanto per essere chiari di assolvere un uomo coniugato da un singolo peccato d’infedeltà commesso per debolezza, nel qual caso l’assoluzione non va negata, salvo altre ragioni specifiche. Si tratta della situazione di chi abbandona la moglie (o il marito) e si risposa civilmente, come se il Matrimonio fosse a tempo determinato.
Benedetto XVI poi nell’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis (2007) dopo aver ribadito la Dottrina tradizionale della Chiesa sul punto chiedeva alcune misure pastorali per non allontanare dalla comunità i fedeli in situazione oggettivamente contraria alla Morale. Ma aggiungeva che è bene «evitare di intendere la preoccupazione pastorale come se fosse in contrapposizione col diritto. Si deve piuttosto partire dal presupposto che fondamentale punto di incontro tra diritto e pastorale è l’amore per la verità» (n. 29).

Note
[1] Indissolubilità del matrimonio. La tradizione della Chiesa antica, ESD, Bologna 2014.
[2] Si tratta di Matrimonio e indissolubilità. Nuove prospettive del 1971 e Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva del 1977.
[3] AA. VV., Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica, Cantagalli, 2014, pp. 7-8.

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