QUANDO L'ASINO VOLA VIA
Che vita da cani quando l’asino vola via di Marcello Veneziani
Ragazzi, sono emozionato e commosso. Voi non potete immaginare chi ho incontrato. Naomi Campbell? Ma no scemi. Ho visto un asino. Un somaro, un ciuccio, un ciuco. Insomma quella specie di cavallo per la classe economica. Lo davano per finito.
Era scomparso, forse si era umanizzato. Lessi qualche anno fa che gli asini in Italia erano passati da un milione a centomila. I tagli del personale in esubero, la liquidazione della manovalanza tecnologicamente arretrata, la crisi demografica… e poi la cattiva nomea del quadrupede che ricadeva anche sui proprietari. Gli asini si vanno estinguendo. A scuola ci dicevano quando andavamo male: voi siete come gli asinelli di Martina Franca. Adesso provate a cercare un asino a Martina Franca. Se ci sarà, vivrà sotto falso nome e mentite spoglie. Magari è un trans, si fa passare per Cavallo o per il loro comune cugino, il Mulo. No, il povero asino non è scomparso per eccesso di possibilità, come il mitico asino di Buridano, ma perché lo hanno tagliato fuori, lo hanno considerato out, fuori corso come la moneta da cinque lire.
Era scomparso, forse si era umanizzato. Lessi qualche anno fa che gli asini in Italia erano passati da un milione a centomila. I tagli del personale in esubero, la liquidazione della manovalanza tecnologicamente arretrata, la crisi demografica… e poi la cattiva nomea del quadrupede che ricadeva anche sui proprietari. Gli asini si vanno estinguendo. A scuola ci dicevano quando andavamo male: voi siete come gli asinelli di Martina Franca. Adesso provate a cercare un asino a Martina Franca. Se ci sarà, vivrà sotto falso nome e mentite spoglie. Magari è un trans, si fa passare per Cavallo o per il loro comune cugino, il Mulo. No, il povero asino non è scomparso per eccesso di possibilità, come il mitico asino di Buridano, ma perché lo hanno tagliato fuori, lo hanno considerato out, fuori corso come la moneta da cinque lire.
Perciò trovarne uno è un piacere da collezionista, provi la commozione di vedere un vecchio parente che avevi dato per defunto. Non vedevo asini da una vita. L’ultimo con cui ebbi una storia stava per concludersi in tragedia o in rissa. Ero a Santorini, un’isola bianca nell’azzurro del mare Egeo. Splendida, antica e mitica. Per salire dal porto al paesino non c’era che un mezzo di locomozione, l’asino. Asini greci, per giunta. Più antichi degli altri, forse più astuti, più levantini. Così fui costretto a montare sull’asino. Faceva un caldo boia e la povera bestia non se la sentiva di salire ancora una volta lungo il tortuoso cammino. Allora decise di farmela pagare. Faceva le curve larghe. Quando c’era il precipizio le faceva radendo il burrone, con la chiara esortazione a suicidarmi o con il sottile gusto di spaventarmi. Quando il tornante volgeva nella pancia del monte, l’asino radeva il muro per farmi strusciare la gamba alla roccia e farmi raschiare dalle pietre. A nulla valevano i miei tentativi di raddrizzarlo, con le buone e con le cattive, con le briglie e con i ragionamenti, le mazzate e i sentimenti. Mi distrusse un pantalone grigio-asino e mi ammaccò una gamba. E alla fine, quando smontai da lui, emise un raglio di felicità liberatoria. Lui si vendicava così del suo ruolo di sottoposto, ingaggiava la sua lotta di classe bestiale e faceva pagare agli altri, odiati turisti la soma della sua esistenza in salita, della sua fatica al sole. La sua gioia era solo l’assenza momentanea di sofferenza. Non chiedeva piaceri, solo la stasi.
A parte questo incidente con l’asino greco, ho un debole per gli asini. Sono cavalli che non si sono montati la testa. Evocano dei, eros e natura. Mi ricordano Poppea che faceva il bagno nel latte d’asina e Gina Lollobrigida popputa sull’asinello in Pane amore e fantasia. Mi ricordano Zarathustra di Nietzsche e l’Asino d’oro di Apuleio. Ma mi ricordano anche i cafoni della terra mia, di cui gli asini erano fratelli muti ma consorti. Gli asini portano sul dorso i doni della terra. Mi ricordano le strade di polvere fuori dal tempo, gli alberi a cui si attaccavano per interminabile tempo, i silenzi della campagna divorata dal sole, appena scossi dal fluire del vento. Mi ricordano il sesso in campagna, dove ci imboscavamo “arrapati a ciuccio” come allora si diceva alludendo alle doti sessuali del medesimo. Mi ricordano gli dei, perché gli asini sono figure mitologiche, portatori sani di una sapienza magica e misteriosa che traspare dal loro sguardo ebete ma lungimirante. Ma ricordano anche il Dio padre perché l’umiltà dell’asino è una virtù cristiana, e il suo fiato nella mangiatoia fu il primo climatizzatore della storia, servì da termosifone a Gesù Bambino e alla sua famiglia. L’asino fu il primo strumento tecnologico dell’umanità; oltre che da impianto di riscaldamento l’asino funzionava da carrello per la spesa, da utilitaria per gli spostamenti anche delle donne e per la scuola guida, una specie di veicolo senza targa rispetto alla berlina del cavallo. È stato l’animale più utile e più maltrattato dall’uomo, più prezioso e più vilipeso. Ma incarnava soprattutto la pazienza cocciuta e la fedele sottomissione alla natura, alle sue leggi, ai suoi cicli. Quanta santa modestia in quelle orecchie lunghe e basse.
Adesso capisco perché l’asino è scomparso. Perché rappresentava la tradizione, la realtà dura, tenera e antica. L’hanno messo fuori legge perché lo hanno considerato un conservatore, un reazionario, un arretrato antimoderno. Uno che non si aggiorna, che è reso superfluo e obsoleto, che non ha la marmitta catalitica e fa i suoi bisogni strada facendo. Perciò quando ho visto l’asino l’ho abbracciato. Come Nietzsche abbracciò un cavallo a Torino prima di diventare pazzo. Ognuno abbraccia secondo il suo rango. Nietzsche era Nietzsche, un Grande Pazzo. Io, nel mio piccolo…perché l’asino viene da lontano. Ho il sospetto che gli asini siano spariti dalla circolazione perché sono andati ad abitare in cielo. Vi è mai capitato da bambini quando vi andava una bevanda di traverso che vi dicevano di vedere l’asino volare? Beh, volevamo stupirvi con effetti speciali ma in fondo era vero. Gli asini volano davvero, quando non li vede nessuno. Avevano conoscenze altolocate per via del presepe e se ne sono andati in cielo. Perché di loro – che hanno patito in silenzio e servito in umiltà - sarà il regno dei cieli.
Articolo apparso su Il Borghese n. 32/1998.
Marcello Veneziani
Laureato in filosofia all'Università degli Studi di Bari Aldo Moro, inizia la carriera di giornalista nel 1979 nella redazione barese del quotidiano Il Tempo. Giornalista professionista dal 1982, dopo il praticantato a Il Giornale d'Italia – il quotidiano romano diretto dal deputato democristiano Luigi D'Amato – assume nel 1981, all'età di 26 anni, la direzione del gruppo editoriale Ciarrapico-Volpe-La Fenice, incarico che mantiene fino al 1987. Sempre negli anni giovanili scrive per il settimanale leccese Voce del Sud, diretto da Ernesto Alvino. Ritenuto uno degli intellettuali di destra più rappresentativi dell'area che si riconosce nella leadership di Silvio Berlusconi, Veneziani ha significativamente tentato di rivalutare, in diverse pubblicazioni, l'operato del pensatore tradizionalista Julius Evola. Scrive a lungo su Il Giornale, collabora con Il Messaggero, La Repubblica, La Stampa, il Secolo d'Italia, L'Espresso, Panorama, Il Mattino, La Nazione, Il Resto del Carlino, Il Giorno e La Gazzetta del Mezzogiorno. Redattore del Giornale Radio Rai di mezzanotte, prende parte a vari programmi televisivi e da vent'anni collabora come commentatore della RAI. Fonda nel 1981 il mensile Omnibus e dal 1985 al 1987 dirige il bimestrale Intervento. Nel 1988 fonda il mensile di cultura Pagine libere, che dirige fino al 1992. Successivamente fonda e dirige settimanali come L'Italia settimanale (1992-1995) – periodo in cui parallelamente dà vita alla Fondazione Italia – e Lo Stato (1998-1999) che poi si fonde con Il Borghese del quale diventa direttore editoriale insieme a Vittorio Feltri. Il sodalizio con Feltri, iniziato con L'Indipendente e nel 1994 con Il Giornale, prosegue nel 2004 con Libero e dall'agosto 2009 di nuovo con Il Giornale, di cui Veneziani è attualmente editorialista. È stato membro del Consiglio di Amministrazione della RAI durante la XIV Legislatura e membro del Consiglio di Amministrazione di Cinecittà. Attualmente vive a Roma e affianca alla professione di giornalista e scrittore un'«intensa attività di conferenziere»
Marcello Veneziani sito autorizzato: http://www.marcelloveneziani.com/index.html
Face book: https://www.facebook.com/pages/Marcello-Veneziani-Pagina-autorizzata/529384787155314?ref=ts&fref=ts
Fonte: http://www.marcelloveneziani.com/che-vita-da-cani-quando-lrsquoasino-vola-via-08082015.html dell'8/08/15 in redazione il 9 Agosto 2015
Corrida: l’ultima tradizione
Nessuno viene ad assistere ad una corrida per vedere la sofferenza lenta e straziante della fiera bestia taurina. L'interesse è altro: lo scontro, il pericolo, la forza bruta dell'animale contro l'eleganza e l'intelligenza dell'uomo. Questa è la corrida. Violenza e passione. Tradizione e scontro. Un fenomeno che divide, nell'epoca dell'animalismo di maniera in cui la morte di un leone colpisce più di una strage in Medioriente.
LA REDAZIONE - 8 AGOSTO 2015
di Mario Manna
È sera. Il sole di questi tempi non si cura degli orari, la luna può aspettare. È sera. I primi aliti di vento decidono finalmente di agitare l’aria, immobile e bollente della terra Andalusa. È sera. Una folla sempre più grande si sta annidando per le strade del centro, qui a Siviglia.
È sera. L’attesa, il fermento, l’ansia creano un’esaltazione palpabile, l’atmosfera è incredibile a pochi passi dalla Maestranza. In programma oggi c’è una “Novillada”. Una corrida di tori e matador giovani che si sfidano a dispetto dei pochi anni. “La miglior corrida da vedere per prima”, ci suggerisce Ernest Hemingway, a proposito della Novillada, in Morte nel Pomeriggio.
Le entrate della più antica Plaza de Toros di Spagna iniziano ad essere occupate da donne di tutte le età, dalle vesti lunghe e colorate, le scarpe aperte con il tacco alto e largo, gli occhi grandi e scuri, la carnagione ambrata baciata dal sole di Al-Andalus. Al loro fianco uomini in tenuta da corrida: sigari, camicie di lino e borse termiche ripiene di sangria, taralli e jamon serrano. Non c’è ressa in fila. Nessuno spinge nonostante la trepidazione che avvolge nel profondo ogni spettatore. Tra la folla alcuni turisti: qualcuno scoraggiato, altri ansiosi di assistere ad uno spettacolo unico al mondo.
È sera. L’attesa, il fermento, l’ansia creano un’esaltazione palpabile, l’atmosfera è incredibile a pochi passi dalla Maestranza. In programma oggi c’è una “Novillada”. Una corrida di tori e matador giovani che si sfidano a dispetto dei pochi anni. “La miglior corrida da vedere per prima”, ci suggerisce Ernest Hemingway, a proposito della Novillada, in Morte nel Pomeriggio.
Le entrate della più antica Plaza de Toros di Spagna iniziano ad essere occupate da donne di tutte le età, dalle vesti lunghe e colorate, le scarpe aperte con il tacco alto e largo, gli occhi grandi e scuri, la carnagione ambrata baciata dal sole di Al-Andalus. Al loro fianco uomini in tenuta da corrida: sigari, camicie di lino e borse termiche ripiene di sangria, taralli e jamon serrano. Non c’è ressa in fila. Nessuno spinge nonostante la trepidazione che avvolge nel profondo ogni spettatore. Tra la folla alcuni turisti: qualcuno scoraggiato, altri ansiosi di assistere ad uno spettacolo unico al mondo.
Prendiamo posto in segunda barrera, siamo a due passi dal toro. La banda, sita nella parte alta dell’arena, comincia a suonare. Inizia la corrida. Nella Novillada, i picadores, uomini a cavallo incaricati di colpire il toro con una lancia, all’altezza del collo, per indebolirlo e per sondarne il valore, non ci sono.
I primi ad entrare sono i peones. Questi , brandendo il “capote”, grande drappo di tela, rosso all’esterno e giallo nella parte interna, stancano il toro, facendolo girare per l’arena, aprendo la strada ai banderillos. Incaricati di provocare la furia del toro con il solo movimento del corpo, i banderillosinfilzano l’animale con tre paia di banderillas: piccole lance di 70 Cm con una punta d’acciaio.
Dopo le prime due fasi, chiamate in gergo “Tercios” è finalmente il turno delMatador, nel “Tercios de Muleta” dal nome del drappo agitato dal Torero.
Sono tre i giovani che dovranno battersi con i sei tori, due per ognuno. Tra i partecipanti uno gioca in casa qui a Siviglia, va da se che il pubblico è tutto per lui. Gli altri toreri sono di Malaga e Salamanca. Al suo secondo toro, il Matador di Salamanca, che tiene coraggiosamente la muleta molto vicina al corpo viene colpito, senza riportare ferite gravi, per ben due volte. Il giovane, nonostante i colpi, affronta con coraggio il suo avversario ma, al momento di infilzare il cuore della bestia stremata, le forze abbandonano il matador, che non riesce a finire l’animale agonizzante. Il pubblico sbraita innervosito, i peones rientrano per dare una mano al torero a porre fine alla triste agonia del toro. Nessuno viene ad assistere ad una corrida per vedere la sofferenza lenta e straziante della fiera bestia taurina. L’interesse è altro: lo scontro, il pericolo, la forza bruta dell’animale contro l’eleganza e l’intelligenza dell’uomo. Il rito d’antichissima origine dionisiaca, praticato dagli etruschi e dai greci, affascina e colpisce, non per la sua brutalità, ma perché mette ancora una volta di fronte l’uomo e la bestia in uno scontro ancestrale, che alle cruente lance conficcate nella carne del toro alterna il rispetto che il pubblico e il Matador mostrano per l’animale, degno avversario del coraggioso torero. Ma la Novillada Sivigliana non si ferma e al suo termine ha un vincitore: il Torero di casa, che per il suo valore riceve per ben due volte le orecchie del toro.
Alla fine della corrida, il pubblico si alza all’unisono, per acclamare il suo beniamino. All’interno dell’arena fanno il loro ingresso più di cinquanta ragazzi, presumibilmente amici del giovane matador cittadino, contenti di portarlo in trionfo, tra le grida della folla che sventola fazzoletti bianchi e lancia in segno di giubilo piccole icone raffiguranti i santi e la madonna.
Questa è la corrida. Violenza e passione. Tradizione e scontro. Un fenomeno che divide, nell’epoca dell’animalismo di maniera in cui la morte di un leone colpisce più di una strage in Medioriente.
I primi ad entrare sono i peones. Questi , brandendo il “capote”, grande drappo di tela, rosso all’esterno e giallo nella parte interna, stancano il toro, facendolo girare per l’arena, aprendo la strada ai banderillos. Incaricati di provocare la furia del toro con il solo movimento del corpo, i banderillosinfilzano l’animale con tre paia di banderillas: piccole lance di 70 Cm con una punta d’acciaio.
Dopo le prime due fasi, chiamate in gergo “Tercios” è finalmente il turno delMatador, nel “Tercios de Muleta” dal nome del drappo agitato dal Torero.
Sono tre i giovani che dovranno battersi con i sei tori, due per ognuno. Tra i partecipanti uno gioca in casa qui a Siviglia, va da se che il pubblico è tutto per lui. Gli altri toreri sono di Malaga e Salamanca. Al suo secondo toro, il Matador di Salamanca, che tiene coraggiosamente la muleta molto vicina al corpo viene colpito, senza riportare ferite gravi, per ben due volte. Il giovane, nonostante i colpi, affronta con coraggio il suo avversario ma, al momento di infilzare il cuore della bestia stremata, le forze abbandonano il matador, che non riesce a finire l’animale agonizzante. Il pubblico sbraita innervosito, i peones rientrano per dare una mano al torero a porre fine alla triste agonia del toro. Nessuno viene ad assistere ad una corrida per vedere la sofferenza lenta e straziante della fiera bestia taurina. L’interesse è altro: lo scontro, il pericolo, la forza bruta dell’animale contro l’eleganza e l’intelligenza dell’uomo. Il rito d’antichissima origine dionisiaca, praticato dagli etruschi e dai greci, affascina e colpisce, non per la sua brutalità, ma perché mette ancora una volta di fronte l’uomo e la bestia in uno scontro ancestrale, che alle cruente lance conficcate nella carne del toro alterna il rispetto che il pubblico e il Matador mostrano per l’animale, degno avversario del coraggioso torero. Ma la Novillada Sivigliana non si ferma e al suo termine ha un vincitore: il Torero di casa, che per il suo valore riceve per ben due volte le orecchie del toro.
Alla fine della corrida, il pubblico si alza all’unisono, per acclamare il suo beniamino. All’interno dell’arena fanno il loro ingresso più di cinquanta ragazzi, presumibilmente amici del giovane matador cittadino, contenti di portarlo in trionfo, tra le grida della folla che sventola fazzoletti bianchi e lancia in segno di giubilo piccole icone raffiguranti i santi e la madonna.
Questa è la corrida. Violenza e passione. Tradizione e scontro. Un fenomeno che divide, nell’epoca dell’animalismo di maniera in cui la morte di un leone colpisce più di una strage in Medioriente.
È un articolo de “La Stampa” di Mercoledì 5 agosto a riportare la notizia che le giunte di Podemos, insediatesi in più comuni, intendono abolire l’antichissima Tauromaquia. La Stampa presentando l’iniziativa del movimento di Iglesias ci ricorda che in Catalogna ormai dal 2011 la corrida è stata bandita, a Valencia sono stati tagliati i fondi alla Feria de Julio e iniziative analoghe sono state prese in molte altre città della Spagna. Spicca tra tutte la scelta di Alicante, che ha sostituito i giochi taurini con una corsa in bici. L’antica “Fiesta” spagnola, sopravvissuta agli umori dei monarchi e al razionalismo stringente dell’epoca dei lumi ha sempre diviso. Ora al fronte degli animalisti della prima ora, si affiancano tutti gli indignati del web pronti ad alimentare ogni campagna contro il maltrattamento dei criceti o l’estinzione del topo del deserto, con post infarciti di retorica buonista che gridano all’ “animalicidio” con ostentata veemenza.
Ma la stessa Stampa nel riportare “inorridita” le barbarie della corrida cade in tremenda contraddizione. Nel tracciare un quadro storico dei più grandi toreri della penisola iberica, da Joselito a Juan Belmonte, storici rivali dei primi del ‘900, nell’ennesima stigmatizzazione della tradizione taurina, cede nel dichiarare nostalgia per le gesta dei mitici matador d’inizio secolo.
Ma la stessa Stampa nel riportare “inorridita” le barbarie della corrida cade in tremenda contraddizione. Nel tracciare un quadro storico dei più grandi toreri della penisola iberica, da Joselito a Juan Belmonte, storici rivali dei primi del ‘900, nell’ennesima stigmatizzazione della tradizione taurina, cede nel dichiarare nostalgia per le gesta dei mitici matador d’inizio secolo.
È ormai un vizio conclamato della nostra società quella della condanna facile, schermata dal velo del buonismo mainstream, che non necessita d’argomentazione perché intrinsecamente e democraticamente giusto. È quindi più criminale che antistorico provare a spezzare una lancia per la millenaria tradizione della Tauromaquia, che trova la sua origine nel mito di Dioniso, che trasformatosi in più animali per sfuggire alla furia dei titani, una volta prese le sembianze del toro viene fatto a pezzi dalle imponenti figure mitologiche avverse agli dei. Ma questo non interessa agli integerrimi della rete né a tutti coloro che, trincerati dietro un millantato pietismo, gridano contenti la loro vacua gioia per la possibile chiusura delle corride.
Dalla nostra non possiamo che accendere una timida luce per tutti coloro che, spagnoli e non, sono ancora affascinati da questa lotta senza tempo, e non per il gusto della (fiera) morte di 3000 tori all’anno, ma per conservare un rito che stringe a se intere comunità da più di mille anni.
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