ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 25 settembre 2015

Qualcosa non va? no problem*


Sinodo: per la correzione del paragrafo 137 dell’Instrumentum Laboris. La richiesta dei 50 Moralisti.

C’è qualcosa che non va nel paragrafo n. 137 dell’Instrumentum Laboris, il documento che dovrebbe servire da guida, l’ottobre prossimo, alla XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, sul tema “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”. Se ne sono accorti David S. Crawford e Stephan Kampowski, professore associato, il primo, di teologia morale all’Istituto Pontificio Giovanni Paolo II di Washington e, il secondo, professore di antropologia filosofica all’Istituto Giovanni Paolo II di Roma.
Ne è uscito un Appello[1] firmato, per il momento, da una cinquantina di teologi e filosofi moralisti (studiosi di etica), in cui si chiede la rimozione del succitato paragrafo. Secondo Crawford e Kampowski, esso mette in opposizione le necessità soggettive della coscienza e l’oggettività della norma, generando il dubbio che i comandamenti di Dio siano un ostacolo alla perfezione e alla felicità umane, desiderate dalla coscienza.
Al paragrafo 137, che tratta il tema della contraccezione, si legge dunque:
«Tenendo presente la ricchezza di sapienza contenuta nella Humanae Vitae, in relazione alle questioni da essa trattate emergono due poli da coniugare costantemente. Da una parte, il ruolo della coscienza intesa come voce di Dio che risuona nel cuore umano educato ad ascoltarla; dall’altra, l’indicazione morale oggettiva, che impedisce di considerare la generatività una realtà su cui decidere arbitrariamente, prescindendo dal disegno divino sulla procreazione umana. Quando prevale il riferimento al polo soggettivo, si rischiano facilmente scelte egoistiche; nell’altro caso, la norma morale viene avvertita come un peso insopportabile, non rispondente alle esigenze e alle possibilità della persona. La coniugazione dei due aspetti, vissuta con l’accompagnamento di una guida spirituale competente, potrà aiutare i coniugi a fare scelte pienamente umanizzanti e conformi alla volontà del Signore».
Legge e coscienza: due «poli» discordi?
In effetti, le riserve di Crawford e Kampowski sembrano motivate. Il paragrafo 137 presenta la norma e la coscienza nella veste di «due poli», che devono essere coniugati costantemente e non, piuttosto, come agenti concordi della salvezza umana. Si parla di due parti, di due ruoli, di due indicazioni opposte: «Da una parte - si legge - il ruolo della coscienza intesa come voce di Dio, che risuona nel cuore umano educato ad ascoltarla; dall’altra, l’indicazione morale oggettiva, che impedisce di considerare la generatività una realtà su cui decidere arbitrariamente, prescindendo dal disegno divino sulla procreazione umana». Qua l’ambito della contraccezione e della generatività è secondario. Le riserve dell’Appello, piuttosto, sono legate alla contrapposizione tra norma e coscienza. È anche vero che il paragrafo sembra prendere le distanze dall’eccessivo soggettivismo - causa delle «scelte egoistiche» - e da un certo oggettivismo, causa di un «peso insopportabile», non «rispondente alle esigenze e alle possibilità della persona».
La strada per cui, tuttavia, la Croce da pesante si fa leggera non passa - osservano Crawford e Kampowski - nel cercare la «coniugazione dei due aspetti» (oggettivo e soggettivo) suggerita dal paragrafo, magari mediante una «guida spirituale competente». Passa, invece, secondo le indicazioni del Magistero, tramite l’obbediente ossequio della coscienza, che accoglie la legge di Dio scritta nel cuore e cerca di osservarla. Viceversa, il paragrafo 137 insinuerebbe la convinzione errata secondo la quale sussisterebbero in Dio due differenti modi di parlare all’uomo, contrastanti tra loro nei contenuti: da una parte Egli comunicherebbe direttamente con il cuore umano e, dall’altra, si rivelerebbe mediante le norme e i comandamenti contenuti nella legge sacra.
La coscienza non può creare il bene e il male
Eppure - notano gli estensori dell’Appello - la presunta opposizione tra coscienza e legge è stata più volte chiarita e scartata dai pronunciamenti magisteriali: ne parla, ad esempio, il Concilio di Trento (1545-1563), il Concilio Vaticano II (1962-1965), l’Enciclica Humanae Vitae di Paolo VI (1968) o l’Enciclica Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II (1993).
Quanto al Concilio di Trento, Crawford e Kampowski riportano l’insegnamento secondo cui l’osservanza dei comandamenti non è gravosa ed è alla portata dell’uomo giustificato: «Nessuno poi, benché giustificato, deve ritenersi libero dall’osservanza dei comandamenti; nessuno deve far propria quell’espressione temeraria e condannata con la scomunica dai Padri, secondo la quale è impossibile all’uomo giustificato osservare i comandamenti di Dio. Dio, infatti, non comanda ciò che è impossibile, ma nel comandare ti esorta a fare tutto quello che puoi, a chiedere ciò che non puoi e ti aiuta perché tu possa; infatti “i comandamenti di Dio non sono gravosi” (cf. 1 Gv 5:3) e “il suo giogo è soave e il suo peso è leggero” (cf. Mt 11:30)»[2].
Il Concilio di Trento, cioè, insegna che è del tutto errata la convinzione secondo cui si reputa il comandamento un peso, una zavorra, un fardello. E, a parte questo pronunciamento del Concilio, l’uomo vede spesso nel comandamento un intralcio alla felicità, da contrapporre all’amabilità del libero arbitrio, considerato per questo sganciato dal comandamento stesso.
Il Concilio Vaticano II è altrettanto esplicito e afferma che si deve obbedire alla legge, la quale risiede «nell’intimo della coscienza»: in essa «l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro». E ancora: «L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità»[3].
La sinderesi
Il Concilio Vaticano II, in tale pronunciamento, si riferisce chiaramente alla «sinderesi», che è il nome dato dagli scolastici medievali alla voce di Dio nella coscienza umana. C’è, infatti, una parte della nostra coscienza che non è stata colpita, ferita, dalle conseguenze del peccato originale: la «sinderesi», la voce di Dio, che comunica all’uomo la Legge eterna. Così intuiscono i teologi scolastici del basso Medioevo. Etimologicamente, «sinderesi» è una composizione di termini greco-bizantini: «synteréo», vedere, osservare se stessi. Ma anche «syneidesis», largamente usato da san Paolo, che indica la consapevolezza di qualcosa. Anzi, proprio da «syneidesis» - consapevolezza (con-sapere) - deriva il latino «con-scientia» e, dunque, coscienza.
L’insegnamento è stato accolto dal Magistero che, nel Catechismo della Chiesa Cattolica, afferma: «[…] La coscienza morale comprende la percezione dei principi della moralità (sinderesi) […]» (n. 1780). Così come la ragione pura (intelletto) riconosce intuitivamente e immediatamente, ad esempio, i principi postulati della geometria - punto, retta, ecc… - anche la ragione pratica (che determina la volontà) ha una capacità innata e immediata di riconoscere, per principio, il bene e il male.
San Girolamo - tra i primi - afferma che, nell’anima, vi è una «scintilla conscientiae» (luce della coscienza), in grado di operare una distinzione spontanea tra bene e male[4]. Molto tempo dopo san Tommaso d’Aquino specificherà che la sinderesi «è la prima regola dell’agire umano», non la coscienza[5], nel senso che la coscienza può errare, ma non la sinderesi[6]. Secondo san Tommaso la sinderesi è un abito della ragione e non si può estinguere[7].
«La sinderesi - scrive l’Aquinate - è quindi la custode della legge morale naturale […], mentre il compito della coscienza è quello di fare attenzione a questa legge applicandola ai diversi casi dell’agire umano». E perciò, «appare chiara la differenza fra sinderesi, legge naturale e coscienza: la legge naturale si riferisce ai principi universali del diritto [il cosiddetto “diritto naturale”], la sinderesi si riferisce al loro abito, o alla facoltà con l’abito [abito della ragion pratica], la coscienza invece dice applicazione della legge naturale all’azione sotto forma di una conclusione»[8].
C’è, allora, nell’anima qualcosa d’inestinguibile, che è la voce di Dio. Paradossalmente, tale voce è talmente connaturata nella nostra anima, che sussiste anche nello stato di dannazione eterna, per cui i dannati soffrono di un rimorso perenne e acutissimo proprio a causa della sinderesi[9].
L’insegnamento della Chiesa sulla coscienza è esposto nel succitato Catechismo della Chiesa Cattolica, nella terza parte, dal numero 1776 al numero 1802. La Chiesa raccomanda la «formazione della coscienza», affinché il giudizio morale sia illuminato dalla retta ragione e sostenuto dalla grazia. Difatti, «una coscienza ben formata è retta e veritiera. Essa formula i suoi giudizi seguendo la ragione, in conformità al vero bene voluto dalla sapienza del Creatore» (n. 1783).
È importante sapere pure che «l’educazione della coscienza è un compito di tutta la vita. Fin dai primi anni essa dischiude al bambino la conoscenza e la pratica della legge interiore, riconosciuta dalla coscienza morale. Un’educazione prudente insegna la virtù; preserva o guarisce dalla paura, dall’egoismo e dall’orgoglio, dai sensi di colpa e dai moti di compiacenza, che nascono dalla debolezza e dagli sbagli umani. L’educazione della coscienza garantisce la libertà e genera la pace del cuore» (n. 1784).
Se chiunque poi non obbedisce al «al giudizio certo della propria coscienza», ben formata e illuminata dalla grazia, il giudizio stesso sarebbe «erroneo» e, quindi, inclinato al male e all’errore (cf. nn. 1790-1794). Il problema, per chi non crede e non educa cristianamente la propria coscienza, è proprio questo: fallire nella valutazione del giusto agire e, dunque, rimanere nel peccato.
Altri pronunciamenti
Quanto all’Appello, vi si citano altri documenti magisteriali. Nella Humanae Vitae di Paolo VI, poi, il paragrafo 137 - scrivono Crawford e Kampowski - ammette una «ricchezza di sapienza», ma nei fatti «mina lo scopo centrale dell’Enciclica stessa», che è quello di «offrire nulla di meno che un’interpretazione normativa della legge morale naturale». Norma che, va ricordato, l’uomo è tenuto ad osservare, proprio a partire dal grido intimo della coscienza, del tutto concorde con la norma stessa.
Se l’Humanae Vitae fu pesantemente criticata e osteggiata già dopo la pubblicazione, stessa sorte capitò allaVeritatis Splendor di Giovanni Paolo II, redatta proprio per confutare tanto l’assunto sul conflitto che esisterebbe tra la libertà umana e la legge di Dio, quanto per arginare molti degli errori moderni in seno alla teologia e alla filosofia morale. In nessun caso la coscienza può essere «creatrice», afferma l’Enciclica: non può cioè stabilire arbitrariamente, a capriccio, cosa sia bene e male.
L’Appello informa di quanto Giovanni Paolo II prendesse le distanze da certa «pastorale», troppo blanda nell’accettare l’opposizione tra legge e coscienza, e troppo favorevole rispetto alla prassi «creatrice» della coscienza, che spesso è portata a decidere in autonomia cosa sia bene e cosa sia male.

[1] http://www.firstthings.com/web-exclusives/2015/09/an-appeal
[2] cf. Decreto sulla giustificazione, s. VI c. XI.
[3] Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et Spes, n. 16.
[4] San Girolamo, Commentariorum in Ezechielem prophetam, I, c. I.
[5] San Tommaso d’Aquino, De ver., q. 17, a. 2, 7m.
[6] San Tommaso d’Aquino, cf. II Sent., d. 24, q. 2, a. 4.
[7] Cf. ibid., d. 39, q. 3, a. 1, - d. 24, q. 2, a. 3.
[8] Ibid., d. 24, q. 2, a. 4.
[9] Cf. ibid., d. 39, q. 3, a. 3.
http://www.vanthuanobservatory.org/notizie-dsc/notizia-dsc.php?lang=it&id=2213

Al Sinodo diocesano di Bolzano la retta Dottrina va al macero

C’è chi ha già deciso. Sinodo o no, ci sono Diocesi che han già chiaro il da farsi ovvero tutto quanto contrasti la Dottrina della Chiesa, la Sacra Scrittura, il Magistero e la Tradizione. E’ quanto emerso in occasione della V Sessione del Sinodo diocesano di Bolzano-Bressanone, svoltasi lo scorso 30 maggio a Pietralba. Sessione, di cui il n. 26 del periodico Egna del giugno scorso ha riportato ampi stralci, che qui riportiamo.

Certo, il Sinodo straordinario dello scorso anno, alla fine, non ha approvato né la Comunione ai divorziati risposati, né l’apertura alle coppie omosessuali, non raggiungendo la richiesta maggioranza dei due terzi; eppure a Bolzano dev’essere sfuggito questo passaggio, dato che il Segretario del Sinodo locale, Reinhard Demetz, è convinto del contrario, cioè che a Roma abbiano «abbozzato itinerari per rendere possibile la piena partecipazione alla vita ecclesiale ed ai Sacramenti alle coppie che, dopo un divorzio, vogliono dare una forma impegnativa alla loro relazione con il matrimonio civile». Il che proprio non risulta. Vi sono stati tentativi bocciati, questo sì. Tentativi, che – in quanto tali – non fanno testo. Nulla più.
Eppure, quella Diocesi va molto oltre. E plaude al fatto che agli adulteri venga consentito di accostarsi alla Santa Comunione, pur non mutando la propria condizione, in assenza di qualsiasi pentimento e senza emendare la propria vita: «Anziché concentrarsi sul fallimento, occorre porre attenzione al nuovo progetto di vita che le coppie intraprendono, all’assunzione di responsabilità, dimostrando una grande fiducia nell’istituzione del matrimonio». Sono affermazioni sconcertanti. E’ come se l’abitudine al peccato grave rappresentasse già in un certo senso un’unione autentica, infischiandosene della precedente, di quella tradita, una ferita rimasta aperta alle spalle, una palese violazione dell’indissolubilità sacramentale dell’unione coniugale, nonostante la Dottrina cattolica la proclami e la ribadisca.
Ma Bolzano rilancia e giunge a promuovere addirittura il sacerdozio femminile e laicale, valutando le «condizioni di accesso delle donne, di sposati e celibi al ministero ordinato (vescovo, sacerdote, diacono), che sono da ridefinire», afferma, auspicando in merito «una discussione libera e aperta nella Chiesa». Evidentemente, qui non è giunta nemmeno l’eco di ciò che Giovanni Paolo II scrisse nella Lettera Apostolica Ordinatio sacerdotalis, espressamente per togliere ogni dubbio in merito: «In virtù del mio ministero di confermare i fratelli, dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa» (n. 4). Ma non dev’essere giunta eco neppure del Codice di Diritto Canonico del 1917, che al can. 987, paragrafo 2, precisa come le persone sposate siano «impedite», quindi non possano accedere alla sacra ordinazione: «Sunt simpliciter impediti viri uxorem habentes». Concetto ribadito anche nel nuovo Codice, quello del 1983, che al can. 277, paragrafo 1, precisa: «I chierici sono tenuti all’obbligo di osservare la continenza perfetta e perpetua per il regno dei cieli, perciò sono vincolati al celibato». Punto e basta.
La V Sessione del Sinodo diocesano di Bolzano, tuttavia, pare ormai senza freni, al punto da esprimersi «a favore di una pastorale dei malati nella quale l’unzione degli infermi venga amministrata anche dai laici», dimostrando ancora una volta di avere la memoria corta, visto che il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1516 scrive: «Soltanto i sacerdoti (Vescovi e presbiteri) sono i ministri dell’Unzione degli infermi». Non solo: a Bolzano piace il regime di parlamentarismo, proponendo una «co-decisione nei diversi organi della Chiesa, dove clerici e laici, uomini e donne contribuiscono, con pari dignità e diritti, a costruire in modo partecipato la vita della Chiesa», scordandosi ancora una volta del Catechismo, che parla espressamente di «costituzione gerarchica della Chiesa» (cfr. tutta la parte I, sezione II, cap. III, art. 9, par. 4).
Ma a Bolzano son saltati ormai gli argini. Così si legge nel documento programmatico ufficiale n.8, pubblicato sul sito diocesano (nella foto, la pagina web): «Vogliamo riconoscere la nostra parte di colpa per quanto riguarda l’ingiustizia recata alle persone con una pastorale dura di cuore nelle questioni morali, soprattutto nell’ambito del matrimonio e della famiglia. Pensiamo in particolar modo alla sofferenza recata attraverso umiliazione ed emarginazione alle madri non sposate, ai figli extra-matrimoniali, alle convivenze pre- e non matrimoniali e su persone separate e risposate. Pensiamo anche a persone con orientamento omosessuale o a persone disabili, come anche all’abuso sessuale. Per tutto ciò ci scusiamo e chiediamo perdono». Tradotto: si scusano di avere annunciato in passato la Verità di Cristo! Questa Diocesi dichiara di vergognarsi della retta Dottrina, dell’insegnamento della Chiesa e della Parola di Dio, essendo, quelli citati, tutti aspetti che proprio qui vengono codificati.
Quella che emerge dalla V Sessione del Sinodo di Bolzano è una Chiesa “arcobaleno”, pronta a tutto, aperta a tutto, disposta a tutto, perché, certo, come afferma il documento programmatico n. 8, «nel sacramento del matrimonio vede e promuove un bene prezioso», però (c’è sempre un però…) resta «aperta ad altre forme di convivenza, le quali sono accompagnate e sostenute, invitate e accolte nella comunità ecclesiale, affinché tutti vivano e crescano nell’amore e nel rispetto, nella responsabilità e nella cura reciproca». Insomma, siamo di fronte ad un acritico ed indiscriminato «embrassons nous» collettivo, ad un «volemose bene» senza più regole. Con un’apertura così ampia a tutto ed a tutti, a 360°, ci si potrebbe aspettare chissà quali risultati, un eccezionale consenso di popolo: oratori pieni, chiese piene, liturgie piene. Invece, evidentemente il modello alla gente non piace e non paga. Tanto che, alla V Sessione del Sinodo, è emerso anche come, nel 2020, si preveda di avere circa 70 sacerdoti e «d’età molto avanzata» per 281 parrocchie. Il che non ha suggerito d’interrogarsi e di affrontare il vero problema, quello dell’emergenza vocazionale, chiedendosi cosa allontani i giovani dai seminari; no, si è preferita un’altra strada, molto più semplice e senza impegno: quella di assumere personale, pagando veri e propri stipendi ai laici impegnati e quindi sollecitando la Cei a destinare per questo una parte dei fondi dell’8 per mille. Incredibile. Eppure assolutamente funzionale al sistema, tant’è vero che da qui han tratto spunto per invocare «un ruolo sempre più forte» per quei dipendenti (ormai possiamo chiamarli così!), che, pur non avendo un’ordinazione sacerdotale, si diano da fare. Anche perché i dipendenti, si sa, fanno sempre (o quasi) quello che dice il padrone.
Di fronte a situazioni come questa, non stupisce che poi chiese, seminari e parrocchie siano vuoti. Tutt’altro. Il 27 si apre la VII Sessione di questo Sinodo: non resta che pregare. Ma sarebbe anche buona cosa che chi può, si faccia sentire…

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