Articolate e approfondite riflessioni sulle tesi che Padre Cavalcoli e Don Ariel Levi hanno scritto in questi giorni in merito ad alcune delle più importanti tesi che il nostro direttore Monsignor Antonio Livi ha sostenuto con la sua usuale precisione.
Rinnoviamo l'invito alla lettura del volume DOGMA E PASTORALE da poco uscito che trovate qui a fianco.
IN DIFESA DELLA VERITA' CATTOLICA SUL MATRIMONIO.
Il documento finale del Sinodo, anche se non è un atto del magistero ecclesiastico ma solo una serie di suggerimenti forniti dai vescovi di tutto il mondo al Papa sui temi pastorali legati alla famiglia cristiana nelle attuali circostanze sociali. Di tali suggerimenti il Papa terrà conto, se lo riterrà opportuno, nell’apposita “esortazione apostolica post-sinodale” che secondo la prassi segue di qualche mese la conclusione dei lavori del Sinodo. Ma già adesso giornalisti, teologi ed ecclesiastici di ogni livello gerarchico esultano o piangono per quanto il Sinodo avrebbe “deciso”, e cioè concretamente la facoltà per i “divorziati risposati” di accedere alla comunione sacramentale pur restando volontariamente in tale situazione morale e canonica e quindi senza aver ottenuto il perdono sacramentale con la Confessione.
La lettura del documento finale del Sinodo esclude assolutamente che ci sia stata questa “decisione”, e nemmeno un esplicito consiglio al Papa in tale direzione. Infatti, di Comunione e di “divorziati risposati” non si parla affatto nel testo, ma solo di «accompagnamento e discernimento». Basta leggere i paragrafi attinenti alla questione: « Secondo la Relatio finale, la partecipazione alla vita ecclesiale dei divorziati risposati può esprimersi in “diversi servizi”: occorre perciò «discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate. Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa» (n. 84); «Il percorso di accompagnamento e discernimento orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio. Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere» (n. 86).
Ciò nonostante, dicevo, tanti hanno pianto sulle sorti dell’ortodossia o hanno esultato in vista di una radicale riforma della pastorale. Tra questi ultimi anche un teologo al quale finora ero stato molto vicino, ma che ora sostiene tesi inammissibili e oltretutto mi critica aspramente per il fatto di non condividerle (sono tesi, peraltro, non condivise dalla maggior parte dei Pastori e dei teologi moralisti). La vicenda è lunga da narrare, e io mi limiterò ai principali episodi, poco importanti in sé e proprio sé, ma utili assai per la comprensione della discussione teologica in atto nella Chiesa universale. In un libro di vari autori che ho curato e pubblicato di recente (1) io avevo sposto ordinatamente e serenamente le ragioni che inducono a ritenere teologicamente inammissibili le proposte di riforma della prassi della Chiesa in materia di disciplina dei sacramenti (Matrimonio, Penitenza ed Eucaristia) che alcuni membri del Sinodo (tra questi, i cardinali Kasper e Marx) avevano avanzato prima e durante il Sinodo, e che erano state presentate da molti teologi come assolutamente necessarie per rispondere alle esigenze dei tempi moderni e incamminare la pastorale cattolica sulla strada della “misericordia” indicata da papa Francesco. Tali ragioni ruotano attorno all’evidenza (condivisa, oltre che dagli autori del libro, anche da molti altri padri sinodali e da moltissimi teologi) che quelle proposte di riforma della prassi implicano in realtà una radicale riforma della dottrina.
A parole, quei riformatori assicurano che la nuova prassi pastorale lascerebbe immutata la dottrina, ma nei fatti intendono abolire i documenti del magistero ordinario e universale dei pontefici che hanno già definito quale deve essere la prassi pastorale in materia; tra questi documenti, due hanno un chiaro valore dottrinale: l’enciclica Humanae vitae del beato Paolo VI e l’enciclica Familiaris consortio di san Giovanni Paolo II. Proprio per questo, il teologo domenicano padre Giovanni Cavalcoli, avendo ultimamente preso posizione a favore di quelle proposte di riforma che sono state invece criticate da molti studiosi cattolici, ha polemizzato con questi ultimi e in particolare con me, accusandomi di due gravi errori teologico-morali: il primo sarebbe un errore di valutazione circa la condizione morale dei cosiddetti “divorziati risposati”; il secondo sarebbe un errore di valutazione circa la natura teologica della Familiaris consortio. Espongo adesso queste due accuse, che nelle intenzioni di Cavalcoli avrebbero dovuto squalificare totalmente le mie argomentazioni teologiche contro la “tesi Kasper” e le altre ad essa assimilabili.
Un “giudizio temerario”?
La prima accusa mi è stata rivolta da Cavalcoli per tramite di Jorge Facio, un redattore della rivista informatica L’Isola di Patmos il quale, in un lungo articolo critico nei miei confronti, scrive, su evidente suggerimento di Cavalcoli: «Il ritenere che i divorziati risposati siano in uno “stato permanente di peccato grave” è un giudizio temerario, che non ha a che vedere con la dottrina della Chiesa. Al contrario, secondo la morale cattolica, qualunque peccato, per quanto grave, se il peccatore si pente, può essere perdonato, anche senza il Sacramento della penitenza, considerando che esistono mezzi ordinari e straordinari di salvezza; i primi sono i Sacramenti di Istituzione divina dei quali la Chiesa è dispensatrice, i secondi sono le vie imperscrutabili di Dio, e per usare questi secondi mezzi, la grazia e la misericordia di Dio non necessitano del permesso né degli epistemologi né dei filosofi, né ai teologi» (2).
Qualche tempo dopo Cavalcoli in persona ripete le stesse idee, ricorrendo agli stessi termini, prima in un’intervista sulla Stampa di Torino intitolata «La comunione ai risposati non tocca la dottrina ma la disciplina» (3), poi in vari interventi sull’Isola di Patmos (4). Io ho subito replicato sostenendo che la considerazione pastorale e canonica dei divorziati risposati come di fedeli tenuti a uscire dal loro “stato di peccato” 1) non può essere considerata contraria al Magistero e dunque teologicamente infondata; 2) tanto meno costituisce un «giudizio temerario» e dunque un peccato contro la giustizia e contro la carità.
Tanto per cominciare, la mia tesi non può essere considerata contraria al Magistero per il semplice fatto che con essa io non faccio altro che riprendere alla lettera l’insegnamento di san Giovanni Paolo II nell’enciclica Familiaris consortio. Secondariamente, sulla falsariga degli insegnamenti del Magistero, il mio discorso non implica affatto un giudizio sulla coscienza dei singoli nella loro personale condizione di vita spirituale interiore: si parla della situazione dei fedeli “divorziati e risposati” soltanto dal punto di vista “oggettivo” e “pubblico”, nel senso che riguarda il foro esterno e non il foro interno, ossia la coscienza dei singoli, dove la guida e il consiglio – non certamente le disposizioni disciplinari - sono affidati alla prudenza del confessore.
Cavalcoli insiste a voler dimostrare che io sono in errore perché parlo di uno “stato di peccato”, mentre – secondo lui – «il peccato è solo un singolo atto» che si esaurisce nel momento in cui viene commesso e non dà origine a uno “stato” o condizione permanente dell’anima: ma questa è una teoria infondata, mentre tutto ciò che io ho affermato è perfettamente in linea con la tradizionale dottrina circa lo “stato di grazia” (e del suo contrario, lo “stato di peccato” che impedisce di accostarsi alla Comunione) riscontrabile nell’enciclica Veritatis splendor di san Giovanni Paolo II, come anche negli studi di teologi e Pastori come il cardinale Carlo Caffarra.
Alla fine, comunque, Cavalcoli deve correggere in parte il suo duro giudizio nei miei confronti, e infatti, rivolgendosi direttamente a me, scrive: «Quello che io definisco “giudizio temerario”, non è affatto “la considerazione pastorale e canonica dei divorziati risposati come di fedeli tenuti a uscire dal loro stato di peccato”, ma bensì la pretesa da parte di alcuni di ritenere che certi conviventi, che per il momento non possono uscire dal loro stato illegittimo e irregolare, si trovino necessariamente in uno stato permanente, inespiabile ed insopprimibile di colpa mortale, quasi che fossero privi del libero arbitrio e la grazia perdonante non esistesse.
Questo è un giudizio allucinante di chi non sa né che cosa è il libero arbitrio né che cosa è la grazia. Infatti, l’incentivo al peccato non è ancora il peccato. L’incentivo può essere non voluto, inevitabile ed invincibile. Il peccato è invece un atto voluto, evitabile e vincibile. Altrimenti, facciamo come Lutero, che confondeva la concupiscenza, che è solo tendenza a peccare o desiderio di peccare, col peccato, cadendo con ciò sotto la netta condanna del Concilio di Trento». Io qui lascio da parte il discorso, che potrei anche fare, sull’illogicità semantica contenuta nella definizione di peccato come «atto voluto, evitabile e vincibile» (perché quello che deve essere “vincibile” non è l’atto volontario ma la passione disordinata che spinge ad esso il soggetto) e mi soffermo invece a notare come Cavalcoli riduca lo “stato di peccato” a un imprecisato “incentivo al peccato”, che naturalmente può essere contrastato e superato. Invece, la condizione dei fedeli che divorziando hanno mancato alla fedeltà al legittimo coniuge e poi con il cosiddetto matrimonio civile hanno istituito una pubblica convivenza adulterina, è proprio una situazione pubblica di peccato grave e continuo: non solo perché contravviene al dovere di praticare la virtù della castità, come la legge naturale (il sesto comandamento) e la legge di Cristo (i precetti evangelici) richiedono a tutti i cristiani, ciascuno nella sua condizione, ma anche e soprattutto perché contravviene al dovere di praticare la virtù della giustizia.
Cavalcoli considera solo l’aspetto sessuale della situazione di peccato che impedirebbe l’accesso all’Eucaristia, ma questo non è assolutamente l’unico aspetto da prendere in considerazione: va considerato anche che i fedeli che con il divorzio hanno mancato alla fedeltà al legittimo coniuge e poi con il cosiddetto matrimonio civile hanno istituito una pubblica convivenza adulterina hanno leso gravemente i diritti del coniuge ed eventualmente dei figli, e inoltre hanno arrecato un danno morale gravissimo alla comunità dei fedeli per via di quel peccato di “scandalo” che si trova denunciato esplicitamente da Cristo nel Vangelo, così come si trova la condanna del peccato di divorzio e di conseguente convivenza adulterina. E se consideriamo che i peccati contro la giustizia non possono essere perdonati – né in via sacramentale né i via extrasacramentale - se al pentimento non è unita la volontà efficace di operare una congrua riparazione, si capisce che la soluzione del problema di come “normalizzare” la situazione dei “divorziati risposati” perché si accostino alla Comunione senza commettere un ulteriore peccato (quello del sacrilegio) non può essere lascata a ipotesi di vaga “misericordia” ecclesiale.
Natura “esclusivamente disciplinare” della Familiaris consortio?
La seconda accusa mi è stata rivolta da Cavalcoli in uno scritto pubblicato sull’Isola di Patmos (5). Io capisco che, dovendo ammettere (anche se obtorto collo) che la mia tesi corrisponde alla lettera e allo spirito della Familiaris consortio, a Cavalcoli resti soltanto, per continuare a contraddirmi, l’espediente dialettico di negare che l’enciclica sul matrimonio abbia un carattere dottrinale. In tal modo egli pensa di poter poi affermare che le norme ivi contenute – a cominciare da quella per cui i divorziati risposati sono esclusi dalla comunione eucaristica - sono solo una possibile applicazione pastorale tra le tante possibili, il che rende perfettamente plausibile – dice lui – auspicare che effettivamente vengano adottate altre norme completamente diverse.
Allora si capisce perché, nell’introdurre il testo di padre Giovanni Cavalcoli, don Ariel Levi di Gualdo, direttore del blog, mi accusa di “strumentalizzare” l’enciclica Familiaris consortio di san Giovanni Paolo II. Io faccio notare che un teologo ha il dovere istituzionale di basarsi proprio sui testi del Magistero quando espone una sua resi. Compito del teologo è appunto la ricerca dei termini precisi con i quali la Chiesa ha definito le verità della fede cattolica (6), per poi contribuire alla vita di fede del Popolo di Dio con l’elaborazione di adeguate ipotesi di interpretazione razionale del dogma proponendone le più opportune applicazioni pastorali (7). Non ha senso denominare questo ministero ecclesiale “strumentalizzazione”: con questa parola “strumentalizzazione” si intende l’utilizzo indebito di qualcosa contro i fini propri di quella cosa, il che nel lavoro del teologo non avviene, perché il teologo, se è fedele alla sua missione e allo statuto epistemologico della sua scienza, non si serve del Magistero ma serve il Magistero, rendendolo efficace in tanti ambiti della vita cristiana.
Ma passiamo al testo di Cavalcoli, il quale scrive: «In teologia, tu me lo insegni, il teologo, quando spiega un dogma, non adduce ragioni necessarie del contenuto dogmatico, perché il dogma non si può dimostrare razionalmente, ma avanza motivi di convenienza, che rendono il dogma conciliabile con la ragione, e che ammettono altre possibili spiegazioni. Se invece il dogma si potesse dimostrare razionalmente, non esisterebbe altro che una sola conclusione dimostrativa ― la verità è una sola ―, mentre ogni altra sarebbe falsa». L’inciso «tu me lo insegni» si spiega per il fatto che tre anni or sono Cavalcoli prese parte a una presentazione del mio trattato su Vera e falsa teologia e successivamente pubblicò anche in suo commento a questo testo di rigorosa epistemologia teologica (8). Ora però Cavalcoli dimostra di non averlo letto attentamente e comunque di non averne capito affatto il fondamentale assunto, ossia che la teologia è la formulazione di ipotesi razionali di interpretazione del dogma e non una giustificazione del dogma in base a ragioni storiche o filosofiche (questo è semmai il compito dell’apologetica); per questo arriva a scrivermi, come argomento per confutare la mia tesi: «In teologia, tu me lo insegni, il teologo, quando spiega un dogma, non adduce ragioni necessarie del contenuto dogmatico, perché il dogma non si può dimostrare razionalmente, ma avanza motivi di convenienza, che rendono il dogma conciliabile con la ragione, e che ammettono altre possibili spiegazioni.
Se invece il dogma si potesse dimostrare razionalmente, non esisterebbe altro che una sola conclusione dimostrativa ― la verità è una sola ―, mentre ogni altra sarebbe falsa» (9). In ogni caso, quando la teologia parte dal dogma, accettato senza riserve come verità rivelata da Dio, e su questa base formula delle ipotesi di interpretazione razionale (ivi compresa la vasta gamma delle possibili applicazioni pastorali), deve assicurarsi, con il massimo rigore logico, della compatibilità di tali ipotesi con il dogma, altrimenti il lavoro teologico, invece di incrementare la fede del popolo di Dio, incrementa il dubbio e induce l’opinione pubblica cattolica al relativismo dogmatico e morale. L’ipotesi teologica prospettata da Cavalcoli è talmente confusa e contraddittoria da non poter essere utilizzata a confermare il dogma dell’indissolubilità del matrimonio e il dogma della necessità dello stato di grazia per accedere alla Comunione, perché mescola dati oggettivi e visibili, di competenza del giudizio ecclesiastico) con dati soggettivi e invisibili, di competenza della coscienza del singolo fedele in ogni singolo momento della sua esistenza. La legge vigente dice che la l’infedeltà coniugale e la convivenza adulterina comportano una situazione permanente di peccato e di scandalo dalla quale il fedele può uscire solo chiedendo e ottenendo l’assoluzione sacramentale, la quale è possibile solo se il penitente è davvero pentito, ha deciso di cambiare vita e ha fatto quanto in suo potere per rimediare alle colpe commesse.
Invece Cavalcoli ritiene perfettamente compatibile con il dogma una nuova legge in base alla quale, anche quando il perdono sacramentale è negato (perché il penitente non ha potuto manifestare al ministro della Penitenza la sua sincera ed efficace decisione di uscire dallo stato di peccato), il fedele può accedere alla Comunione se Dio lo perdona in altro modo. Ma come fa una legge della Chiesa a prevedere il verificarsi di questo evento di grazia? La Chiesa, a qualsiasi livello, non può mai venire a conoscenza di quando e come si può verificare la giustificazione del peccatore nel segreto della sua coscienza e in un modo extrasacramentale. Se la Chiesa, consapevole dei suoi limiti, nella nuova legge proposta da Cavalcoli, prescrivesse semplicemente al fedele di regolarsi secondo coscienza, in pratica si tornerebbe alla legge canonica tradizionale, sulla base di quanto stabilito dal Concilio di Trento: per accedere alla Comunione il fedele deve essere certo in coscienza di non essere i peccato mortale.
Ma come fa – allo stato attuale – un divorziato risposato ad avere la certezza che Dio gli ha concesso nel segreto della sua coscienza quel perdono e quel ritorno alla grazia che la Chiesa di Dio gli ha negato in sede di celebrazione del sacramento della Penitenza, in quanto mancano le condizioni richieste per dimostrare un autentico pentimento? Per superare questa difficoltà, davvero insuperabile, molti teologi (con i quali sembra concordare Cavalcoli) prospettano quello che il documento finale del Sinodo denomina, in maniera peraltro assai vaga, «accompagnamento e discernimento». Ma anche qui: che tipo di discernimento extrasacramentale può avere un sacerdote che funge da consigliere spirituale, un parroco o il vescovo della diocesi? E sulla base di quali conoscenze dell’azione della grazia nell’anima di quel singolo penitente quali strumenti di discernimento essi possono autorizzare il fedele ad accostarsi alla Comunione?
A questo punto conviene che io trascrivo un intero brano del discorso con cui Cavalcoli tenta di convincermi delle sue ragioni. Dalla lettura di questo brano si potrà capire se il mio disaccordo sia davvero motivato:
«I conviventi certamente sono tenuti, se possono, a interrompere la loro relazione, che costituisce per loro una tentazione forte e continua al peccato. Ma non sempre questa interruzione è possibile, anche nonostante ogni buon volere, e questo per cause di forza maggiore ed anche per ragionevoli motivi, come è noto in certi casi particolari intricati e complessi, dove occorre tener conto di dati oggettivi ineliminabili, per esempio la presenza di figli od obblighi civili o vantaggi economici o il convivente ammalato. In tal caso i due si trovano in uno stato di vita che certo permane, ma questo non vuol dire che si trovino necessariamente in uno “stato di peccato” permanente, se con questa espressione intendiamo il rimanere prolungatamente e volontariamente nella colpa. Infatti, in forza del liberto arbitrio e dell’azione della grazia, essi possono in qualunque momento e in qualunque situazione o condizione, interiore o esteriore, attuale o abituale, ambientale o psicologica, giuridica o morale, anche molto sfavorevole, annullare la colpa e tornare in grazia, senza che ciò richieda un’impossibile interruzione della convivenza e senza la pratica del sacramento della penitenza, che è stato loro negato. Dio, infatti, come tu sai bene, può dare la grazia anche senza i Sacramenti. La Familiaris consortio, appunto perché tocca solo il foro esterno, non sfiora neppure la questione in esame, caratteristica del foro interno, ossia della condizione o dello stato o del dinamismo interiore della volontà dei conviventi e lascia quindi aperta la porta alla legittimità della discussione in atto nel Sinodo, se, in certi casi gravi, ben precisati e circostanziati, con forti scusanti, i divorziati possano o non possono accedere ai Sacramenti. Giovanni Paolo II si limita a ribadire la norma vigente, espressione di un’antichissima tradizione, sia pur corredandola di alti motivi teologici. Ma trattandosi di norma certo fondata sul dogma, ma non necessariamente connessa con esso, questo insegnamento del Papa non è da considerarsi immutabile, come non lo sono generalmente le norme positive, giuridiche e pastorali della Chiesa, senza che ciò comporti un insulto al dogma sul quale si basano. Infatti, un medesimo principio morale può avere diverse applicazioni. Non sarebbe saggio né prudente attaccarsi ostinatamente ad una sola delle possibili applicazioni, per il semplice fatto che essa si fonda su di un valore assoluto, il quale, viceversa, ammette una pluralità di diverse applicazioni, salvo restando il principio. Ora, il timore di alcuni che un mutamento della disciplina vigente possa intaccare il dogma, è infondato, perché l’attuale normativa non è così connessa al dogma come fosse la conclusione di un sillogismo dimostrativo, dove la premessa sarebbe il dogma; ma la detta normativa ha solo una connessione di convenienza col dogma, tale da ammettere anche altre possibili conclusioni. […] Quindi ci sono consentiti ed anzi possono essere utili la discussione e il contradditorio, ma nel rispetto reciproco delle nostre opinioni, ed evitiamo per ciò di assolutizzare la nostra personale opinione facendola passare per “dottrina della Chiesa”, come se quella contraria fosse contro il dogma. Altrimenti, se il Papa deciderà che si conceda la Comunione ai divorziati risposati, che diremo? Che il Papa è eretico? Che è cambiata la dottrina della Chiesa?».
In realtà io non ho mai scritto e nemmeno pensato che il Papa possa incorrere nel peccato di eresia; io, nel libro del quale ho parlato all’inizio, ho sostenuto proprio il contrario, ossia che questa ipotesi del Papa che «concede la Comunione ai divorziati risposati» non è da prendersi nemmeno in considerazione, perché sarebbe come ipotizzare che il Papa stabilisca una norma pastorale incompatibile con il dogma, cosa che corrisponde effettivamente a un’eresia e che io – che credo fermamente al dogma dell’infallibilità del Papa quando insegna formalmente come Pastore della Chiesa universale in rebus de fide et moribus – sono certo non avverrà mai. Può in vece avvenire che il Papa rimandi la soluzione dei problemi personali e particolari di alcuni individui (non di una generica classe di persone) al discernimento dei confessori, e pertanto alla direzione spirituale o “accompagnamento pastorale”, dove il sacerdote entra in dialogo con il soggetto che gli confida le sue disposizioni interiori. Si tratterebbe quindi della pastorale che già si attua ordinariamente “in foro interno”, e non al di fuori dell’amministrazione del sacramento della Penitenza, ossia “in foro esterno”. Quello che non è assolutamente possibile è proprio ciò che Cavalcoli pensa si debba fare e sia prevedibile che si faccia, ossia stabilire che alcune autorità locali (vescovo, parroco, cappellano) possano giudicare “da fuori” che una persona che non è in grado di ricevere l’assoluzione sacramentale è di nuovo in “stato di grazia” (e quindi può accostarsi alla Comunione) per via di un atto intimo di pentimento (che sarebbe però inefficace, ossia non tale da poter ottenere l’assoluzione sacramentale) ed una grazia assolutoria di tipo extrasacramentale.
Ma chi sulla terra, anche nella Chiesa, conosce direttamente la coscienza della persona in questione? Chi conosce direttamente l’azione della grazia divina nell’anima altrui? Non un vescovo, non un parroco, non un cappellano, come tali. Per questo la Chiesa stessa insegna da sempre che essa non è in grado di giudicare la coscienza dei fedeli (visibile a Dio ma invisibile agli uomini) ma solo la loro condotta esteriore, compresa la testimonianza che possano dare delle loro disposizioni interiori: «De internis neque Ecclesia iudicat». Si sa bene che un carisma straordinario come quello della “lettura” di ciò che è nel “cuore” degli altri non è tra le prerogative ministeriali concesse da Dio ai membri della gerarchia ecclesiastica, come invece è l’infallibilitas in docendo.
Quindi, il discorso di Cavalcoli non va d’accordo con la logica. La legge della Chiesa che riguarda lo “stato di grazia” per essere ammessi alla Comunione fa appello al discernimento del soggetto stesso che è tenuto all’esame di coscienza (eventualmente, con il prudente consiglio del confessore “in foro interno”), come già stabilito dal Concilio di Trento quando insegna che il fedele deve discernere da sé, in coscienza, se si trova o no in peccato mortale. Ciò significa che, logicamente, una legge morale umana rinuncia a prevedere tutte le fattispecie dei casi concreti in cui un soggetto può avere la certezza di non essere tenuto a osservarla. Pertanto, se la nuova prassi pastorale chiesta da alcuni padri del Sinodo (e da padre Cavalcoli) si configura come una legge che preveda espressamente determinate fattispecie di eccezione alla regola, allora non si può parlare di una diversa applicazione possibile del medesimo criterio teologico della legge precedente. Insomma, la verità è che con questa proposta la Familiaris consortio viene abolita, in quanto la sua dottrina esplicita è sostanzialmente contraddetta da un’altra dottrina, sia pure implicita. L’andare ripetendo, come fa Cavalcoli, che si tratta solo di una diversa applicazione prudenziale di una medesima dottrina alla prassi è un mero artificio retorico.
La dottrina è diversa, ed è erronea: consiste infatti nell’attribuire al Magistero la conoscenza a priori di casi nei quali la grazia divina supplisce in via straordinaria all’azione salvifica da essa garantita in via ordinaria mediante l’amministrazione dei sacramenti. Ma è proprio questa via ordinaria l’unica che il Magistero possa conoscere perché sa - non per scienza umana né per rivelazione privata ma solo per rivelazione pubblica - che Cristo glie l’ha affidata nell’istituire la sua Chiesa.
Una nuova legge morale che abolisca l’indissolubilità?
Cavalcoli fa intendere che le intenzioni di papa Francesco sono chiare e vincolanti, nel senso di desiderare proprio quello che lui va proponendo con tanta foga dialettica, ossia una norma “disciplinare” che rimette ai vescovi la facoltà di valutare “in foro interno” l’opportunità di concedere, caso per caso, l’accesso alla Comunione dei divorziati risposati. Il teologo domenicano non ne fa menzione, ma dovrebbe sapere che nel dibattito sulla famiglia in occasione del Sinodo molti hanno avanzato la proposta di una nuova legge ecclesiastica che, sulla base di una nuova dottrina, abolisca la Familiaris consortio e con essa il principio dell’indissolubilità del matrimonio.
Sarebbe finalmente il tanto auspicato “superamento” dei fondamenti dogmatici “astratti” della prassi pastorale della Chiesa, e la tanto desiderata abolizione dei canoni sul matrimonio contenuti nel Codice di diritto canonico, la cui versione attuale risale all’epoca post-conciliare (1983) e dunque recepisce la dottrina “pastorale” del Vaticano II. Si tratterebbe allora di codificare la possibilità che l’autorità ecclesiastica dichiari “sciolto” un matrimonio rato e consumato.
Uno dei fautori di questa riforma radicale è il teologo Giovanni Cereti, che si vanta di essere considerato una fonte di ispirazione per papa Francesco, tramite anche il cardinale Walter Kasper che l’ha citato nella sua famosa conferenza introduttiva dell’ultimo concistoro. A questo proposito il teologo ha pubblicato anni or sono il saggio su Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, nel quale egli, richiamandosi alla prassi vigente nella Chiesa dei primi secoli, invoca una legge ecclesiastica sulla riconciliazione e la riammissione all’eucaristia dei divorziati risposati. Proprio in questi giorni, in un’intervista alla Repubblica, alla domanda del giornalista sulla possibilità di superare la dottrina cattolica dell’indissolubilità del matrimonio, Giovanni Cereti ha risposto: «Nessuno può fare venire meno un matrimonio se non gli sposi stessi con delle decisioni e dei comportamenti che per lo più comportano gravi responsabilità. Quando gli sposi decidono di venir meno alla parola data nella celebrazione del matrimonio, quando si separano, distruggono automaticamente il segno sacramentale che consiste nell’amore e nella volontà di essere marito e moglie» (10). Come si vede, per portare avanti certi progetti di riforma non si esita a negare la verità dogmatica circa i sacramenti e in particolare circa il Matrimonio, che altro non è se non l’elevazione al regime della grazia santificante di un istituto naturale voluto direttamente da Dio, che vale per tutti gli uomini di tutti i tempi ed è basato sul consenso dei nubendi, un consenso da essi liberamente e pubblicamente espresso e che nessuna successiva circostanza affettiva può intervenire a rendere inesistente o non più vincolante.
NOTE
(1) Cfr STEFANO CARUSI, ANTONIO LIVI, ENRICO MARIA RADAELLI, Dogma e pastorale. L’ermeneutica del Magistero dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, a cura di ANTONIO LIVI, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2015.
(2) JORGE FACIO, Il Sinodo sulla famiglia e la trilogia di articoli di Antonio Livi, in isoladipatmos.com, 2015.
(3) Cfr ANDREA TORNIELLI, «La comunione ai risposati non tocca la dottrina ma la disciplina», Intervista a GIOVANNI CAVALCOLI, in La Stampa, 2015, 17 ottobre 2015.
(4) GIOVANNI CAVALCOLI, in isoladipatmos.com, maggio 2015.
(5) GIOVANNI CAVALCOLI, in isoladipatmos.com, giugno 2015.
(6) Ciò è quanto ho illustrato in Interpretazione o riformulazione del dogma?, in Verità della fede. Che cosa credere e a chi. I criteri di discernimento tra Magistero e teologia, a cura di GIANNI T. BATTISTI, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2013, pp. 21-94.
(7) Questo è la tesi che io ho esposto e giustificato esaurientemente nel trattato su Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.
(8) Cfr GIOVANNI CAVALCOLI, Perché è necessario che in teologia si torni a parlare di “eresia”, in La verità in teologia. Discussioni di logica aletica a proposito di “Vera e falsa teologia “, di Antonio Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2013, pp. 137-146.
(9) GIOVANNI CAVALCOLI, I divorziati risposati e quei teologi che strumentalizzano la “Familiaris consortio” di San Giovanni Paolo II, in isoladipatmos, 23 ottobre 2015.
(10) «Sinodo, il teologo che ha ispirato il Papa: "Ecco perché si può dare la comunione ai risposati"», intervista a GIOVANNI CERETI, in La Repubblica, 123 ottobre 2015, p. 18.
PER IL DIRETTORE DELL'UFFICIO FAMIGLIA DELLA CEI IL SINODO APRE ALLA «COMUNIONE». NE PARLI CON BAGNASCO...
Qui le dichiarazioni del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, di seguito un'intervista di Don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio per la famiglia della Conferenza episcopale italiana, a Zenit:
«...La Comunione ai divorziati che hanno intrapreso un’altra relazione affettiva è un tema che ha catalizzato le attenzioni della stampa. Eppure nella Relatio non sembra esserci alcun riferimento al riguardo…
Ci sono alcuni verbi chiave che indicano l’atteggiamento da tenere nei confronti di chi ha vissuto il fallimento del proprio matrimonio e intrapreso una nuova unione: accompagnare, discernere, e includere. L’accompagnamento è il compito fondamentale di una Chiesa che è maestra in quanto è madre, e quindi chiamata a curare i feriti con misericordia. Il discernimento è il compito dei pastori e di chi collabora con essi. Si tratta di evitare di essere “stolti e lenti di cuore” (Lc 24,25) come i due di Emmaus, non riconoscendo in quella persona ferita Gesù che ci passa accanto, o amalgamando con atteggiamenti confusi ed erronei situazioni completamente differenti. L’inclusione è l’atteggiamento delle parabole della misericordia; in particolare, della donna che si lascia illuminare dalla lampada e, ritrovando la dracma perduta, le restituisce tutto il suo valore (cfr. Lc 15,8-10). In definitiva, ciò che è davvero cambiato, è la richiesta di uno sguardo nuovo alla comunità dei credenti, perché si abbandoni un atteggiamento giudicante verso le famiglie ferite, coniugando efficacemente verità e misericordia. Solo chi è in conversione può guidare l’altro nel cambiamento del cuore, altrimenti si è “ciechi e guide di ciechi” (Mt 15,14). Con questo sguardo intriso di tenerezza si potranno anche indicare percorsi penitenziali che, in determinate circostanze, aprano la possibilità di accedere alla Comunione eucaristica, ma, prima di tutto c’è una comunione di abbracci da inaugurare».
Ci sono alcuni verbi chiave che indicano l’atteggiamento da tenere nei confronti di chi ha vissuto il fallimento del proprio matrimonio e intrapreso una nuova unione: accompagnare, discernere, e includere. L’accompagnamento è il compito fondamentale di una Chiesa che è maestra in quanto è madre, e quindi chiamata a curare i feriti con misericordia. Il discernimento è il compito dei pastori e di chi collabora con essi. Si tratta di evitare di essere “stolti e lenti di cuore” (Lc 24,25) come i due di Emmaus, non riconoscendo in quella persona ferita Gesù che ci passa accanto, o amalgamando con atteggiamenti confusi ed erronei situazioni completamente differenti. L’inclusione è l’atteggiamento delle parabole della misericordia; in particolare, della donna che si lascia illuminare dalla lampada e, ritrovando la dracma perduta, le restituisce tutto il suo valore (cfr. Lc 15,8-10). In definitiva, ciò che è davvero cambiato, è la richiesta di uno sguardo nuovo alla comunità dei credenti, perché si abbandoni un atteggiamento giudicante verso le famiglie ferite, coniugando efficacemente verità e misericordia. Solo chi è in conversione può guidare l’altro nel cambiamento del cuore, altrimenti si è “ciechi e guide di ciechi” (Mt 15,14). Con questo sguardo intriso di tenerezza si potranno anche indicare percorsi penitenziali che, in determinate circostanze, aprano la possibilità di accedere alla Comunione eucaristica, ma, prima di tutto c’è una comunione di abbracci da inaugurare».
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