LE SAUX RAPPORTO TRA RELIGIONI
Henri Le Saux e la questione del rapporto fra il cristianesimo e le altre religioni. Quando il dialogo inter-religioso assume forme di relativismo nel quale l’identità cristiana si annacqua o si confonde: in entrambi i casi si snatura di F. Lamendola
Fino ai primi anni ’60 del XX secolo, cioè fino a prima della “stagione conciliare”, il cristiano non si poneva troppi problemi nel rapporto con le altre religioni: la sua era quella vera, le altre no; la sua era via per la salvezza dell’anima, le altre – fermo restando il mistero della imperscrutabilità del giudizio divino -, no.
La questione se l’era già posta un certo Dante Alighieri, e l’aveva chiarita in maniera esemplare, una volta per tutte, perfettamente in linea con il Magistero della Chiesa, di allora e di sempre: «Assai t'è mo aperta la latebra / che t'ascondeva la giustizia viva, / di che facei question cotanto crebra; / ché tu dicevi: ``Un uom nasce a la riva / de l'Indo, e quivi non è chi ragioni / di Cristo né chi legga né chi scriva; / e tutti suoi voleri e atti buoni / sono, quanto ragione umana vede, / sanza peccato in vita o in sermoni. /Muore non battezzato e sanza fede: / ov' è questa giustizia che 'l condanna? / ov' è la colpa sua, se ei non crede?". / Or tu chi se', che vuo' sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d'una spanna? / Certo a colui che meco s'assottiglia, / se la Scrittura sovra voi non fosse, /da dubitar sarebbe a maraviglia. / Oh terreni animali! oh menti grosse! / La prima volontà, ch'è da sé buona, /da sé, ch'è sommo ben, mai non si mosse. / Cotanto è giusto quanto a lei consuona: / nullo creato bene a sé la tira, / ma essa, radïando, lui cagiona» (Paradiso, XIX, 67-90).
E questa era anche la dottrina ribadita dal Catechismo del Concilio di Trento: «Quanti vogliono conseguire la salute eterna devono aderire alla Chiesa, non diversamente da coloro che, per non perire nel diluvio, entrarono nell’arca».
Il Catechismo di San Pio X (articoli 169, 171 e 172) riafferma con forza: «No, fuori della Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, nessuno può salvarsi, come nessuno poté salvarsi dal diluvio fuori dell'Arca di Noè, che era figura di questa Chiesa».
Lo stesso Concilio Vaticano II, anche se la cosa può dispiacere a certi suoi faziosi apologeti “progressisti”, che hanno fatto e stanno facendo di tutto per snaturarne il senso, non potendo falsificare i documenti ufficiali, non ha affatto abolito, né modificato il concetto “nulla salus extra Ecclesiam”, ma, al contrario, lo ha ribadito, in particolare con la costituzione dogmatica «Lumen gentium», dove dichiara (4, 14): «Il santo Concilio [...] basandosi sulla sacra Scrittura e sulla Tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza».
E, per finire, il Catechismo della Chiesa cattolica attualmente in vigore afferma (nel «Compendio», Libreria Vaticana Editrice, 2005):«ogni salvezza viene da Cristo-Capo per mezzo della Chiesa, che è il suo Corpo. Pertanto non possono essere salvati quanti, conoscendo la Chiesa come fondata da Cristo e necessaria alla salvezza, non vi entrassero e non vi perseverassero. Nello stesso tempo, grazie a Cristo e alla sua Chiesa, possono conseguire la salvezza eterna quanti, senza loro colpa, ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio e, sotto l'influsso della grazia, si sforzano di compiere la sua volontà conosciuta attraverso il dettame della coscienza».
Eppure, nonostante tanta chiarezza, vi sono dei cattolici che si sentono autorizzati a pensare e ad agire diversamente; e che, proclamando di voler gettare “ponti” verso le altre religioni e culture, non vedono ragioni sostanziali per cui uno non potrebbe essere, contemporaneamente, per esempio, cristiano e induista, oppure cristiano e buddista, e magari tutte e tre le cose insieme: come ha dichiarato Raimom Panikkar (1918-2010), il noto teologo indo-spagnolo, che, pur essendo sacerdote cattolico, diceva di sentirsi, nello stesso tempo, uomo di tutte e tre queste fedi (bontà sua, precisava di non sentirsi anche musulmano e nemmeno parsi, pur nutrendo simpatia anche per queste altre religioni). La posizione di Panikkar è tipica di un certo “dialogo inter-religioso” postconciliare, dove il “dialogo” diventa una fusione o un sincretismo con le altre religioni e quindi, inevitabilmente (anche se i suoi esponenti lo negano a parole) una forma di relativismo, nel quale l’identità cristiana o si annacqua, o si confonde: e, in entrambi i casi, si snatura.
Nel caso di Panikkar, i “maestri” spirituali che lo hanno portato ad abbracciare l’induismo insieme al cristianesimo, dopo che egli si fu trasferito in India, non sono stati indù, ma tre membri del clero cattolico: il sacerdote Jules Monchanin (1895-1957), il benedettino Henri Le Saux (1910-1973) e il benedettino Bede Grifftihs (1906-1993). Monchanin veniva da una formazione filosofica nutrita del pensiero di Maurice Blondel,di Emmanuel Mounier, di Teilhard de Chardin, di Henri de Lubac, del “dialogo” col marxismo: la sua vocazione monastica in India era da lui vissuta – parole testuali - come atto di riparazione contro i crimini dell’imperialismo occidentale. Henri Le Saux venne in India, dalla Francia, con sentimenti analoghi, e, insieme a Monchanin, fondò un “ashram” chiamato Shantivanam (“Il bosco della pace”); dopo avere incontrato Ramana Maharsi, si rafforzò in lui la convinzione di doversi fare integralmente indiano, compresa l’assunzione della religione induista, senza peraltro rinunciare al cristianesimo e affermando, anzi, che in tal modo egli realizzava una cosa più perfetta del semplice sincretismo. Anche Bede Griffiths volle vivere in India e farsi Indiano, acquistando l’amicizia e la confidenza della gente e dichiarando che, lui, non voleva convertire nessuno. In tutti e tre si ritrova questa nota costante: il rifiuto di evangelizzare; il disdegno verso il concetto dell’evangelizzazione; il riserbo, venato di diffidenza, se non di vero e proprio disprezzo, nei confronti dell’opera missionaria.
Affinché il lettore possa farsi un’idea più precisa delle loro idee, riportiamo una pagina dal «Diario spirituale di un monco cristiano-sannyasin hindu, 1948-1973» di Henri Le Saux/Swami Abhishikitananda,. Curata dal suo discepolo Raimon Panikkar (titolo originale: «La montée au fond du coeur. Le Journal intime du Moine Chrétien-sannyasin hindou 1948-1973», O.E.I.L., 1986; traduzione dal francese di Claudio Lamparelli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2002, pp. 76-78 [scritta alla data del 31 marzo 1952, dalle grotte di Arunacala]:
«Il problema della conversione. Questa parola è detestata dagli hindu. L'ho sentito fortemente l'altro giorno nel caso del dottor Cohen [Il dottor S. S. Cohen, ebreo, discepolo di Sri Ramana Maharsi]. La colpa di tutto ciò non è principalmente dei "missionari"? Gandhi diceva che per molti conversione significa: "trousers, topi, beef" [pantaloni, casco coloniale, carne di bue] e nella battuta, ahimè, c'è del vero! E qui sta la risposta al problema di Cohen sulla riconciliazione in me di induismo e cristianesimo.
Il cristianesimo e l'induismo non sono due religioni poste sullo stesso piano e quindi in conflitto, di cui l'una sarebbe vera e l'altra falsa, nel quale caso non si sarebbe tra esse che un'alternativa: o un'opposizione totale oppure una fusione che annacquerebbe entrambe. (...) In realtà, per il cristiano, il cristianesimo e l'induismo non sono due culti paralleli conducenti entrambi (come dicono gli hindu) a vette che li superano, dove si ritrovano in totale comunione i grandi veggenti.
Per i cristiani, il cristianesimo è la religione definitiva, la religione escatologica, quella a cui tutte le altre tendono (...) Una volta ammesso che il cristianesimo è la religione finale, l religione degli ultimi tempi, è impossibile pensare per chi crede alla Provvidenza che la fioritura delle religioni diverse sia dovuta al caso. [...]
E ora posso rispondere alla domanda del dottor Cohen. Come conciliare il mio cristianesimo con il mio induismo? Il mio modo d'agire non è un trucco, non è un'astuzia. Non faccio il monaco hindu per operare conversioni, la mia vita monastica indo-cristiana è un fine, non un mezzo. La vita monastica è essenzialmente disinteressata. Essa è PER DIO SOLO, non per gli uomini. Ed è utile agli uomini in quanto è subordinata a Dio, e il monaco indiano è consacrato alla maniera indiana.
Ma devo rispondere innanzitutto alla domanda sulla conversione. Non sarei un cristiano autentico se non desiderassi di tutto cuore che il mio popolo ricevesse la piena illuminazione del Vangelo. Ma io non ho nessun desiderio di conversioni individuali. Che altri facciano di queste conversioni lo scopo della loro vita; è affar loro, a me non interessa. Quel che sogno è la cristianizzazione della mia gente. Non si tratta di utilizzare qualsiasi mezzo per utilizzare anime più deboli o senza difesa... si tratta di preparare un'India cristiana, di prepararla non con vari mezzi e varie vie, ma mettendomi anch'io tra le primizie; d'aprire una via. Non per il desiderio di aprirla, ma di entrarvi senza secondi fini, semplicemente perché mi sento nello stesso tempo profondamente cristiano e profondamente hindu.
Sogno un'India cristiana perché penso che soltanto in tal caso l'India troverà la pienezza spirituale. L'induismo "will merge into christianity"(si fonderà con il cristianesimo) senza perdere nessuno dei suoi valori positivi; lì l sue contraddizioni si risolveranno, i suoi simboli coglieranno la verità e forse assumeranno un senso più profondo. Non si tratta dunque, né nella mia vita né nei miei sogni, di un'impossibile conciliazione di elementi contraddittori, né di un trascendimento mistico di questi elementi divergenti. La realtà è molto più profonda e bella.
Si tratta d'incorporare nel mio cristianesimo tutti i valori positivi dell'induismo, pensiero, culto, devozione, rifiutando soltanto ciò che è nettamente e sicuramente incompatibile, e di reinterpretare sulla base dei valori cristiani ciò che non può entrare take e quale. Non bisogna dimenticare d'altronde il polimorfismo dell'induismo e la convivenza al suo interno di "darsana"[filosofie] così divergenti come quella di Sankara e quella di Madiva, per non parlare dell'ateismo del Samkhya. Non è dunque più possibile una reinterpretazione dell'induismo? I vari Ramakrisna, Vivekananda e Aurobindo l'hanno tentata recentemente.»
Da questo autentico pasticcio, pieno di tortuosità e di veri e propri giochi di parole, una cosa sola emerge chiaramente: che Henri Le Saux aveva deciso di farsi indiano al cento per cento, adottando anche un nome indiano e chiamano “mio popolo” il popolo dell’India; e che disdegnava la “volgare” attività missionaria, insinuando, anzi, che i missionari riescono a convertire le anime più deboli, da perfetti profittatori, ma, nondimeno, si augurava di vedere “tutta l’India” convertita al cristianesimo: e, a questo punto, Dio sa come. Tutto ciò dà l’impressione di uno che s’immagini la conversione dell’India come un fatto totale, improvviso e miracoloso, non come un fatto graduale, che si realizza nella storia, giorno per giorno, uomo per uomo, anima per anima. Henri le Saux è come quei massimalisti che vogliono la rivoluzione, ma non si sognano neppure di prepararla: si limitano a parlarne, ad auspicarla, a sognarla, a bramarla, a chiosarla: ma il lavoro pedestre di agire concretamente per renderla possibile, non lo fanno, e, anzi, criticano aspramente quelli che lo fanno, colpevoli, secondo loro, di non volare abbastanza alto, di non essere abbastanza puri e disinteressati, di essere troppo materiali e calcolatori.
Non c ‘è dubbio: uomini come Henri Le Saux, come Jules Monchanin, come Bede Griffiths e come Raimon Panikkar meritano stima e rispetto per la loro cultura, per la loro spiritualità, per il loro amore incondizionato verso le masse indiane fra le quali avevano deciso di stabilirsi. Peccato che, dalle loro parole, non emerga altrettanto rispetto, né stima, per le decine, centinaia e migliaia di preti, frati e suore missionari che si sono sparsi in ogni angolo del mondo predicando il Vangelo, come Gesù stesso ha comandato di fare: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Marco, XVI, 15). Se ne potrebbe stendere un elenco infinito; e sono uomini e donne che, mediamente, non hanno la vasta e profonda cultura di un Panikkar, che ha studiato e tradotto le Sacre scritture dell’India con una notevole competenza filologica, né toccano, forse, gli abissi e le vette teologiche di Le Saux, vagante da un santuario all’altro, da una grotta sacra all’altra; ma erano pieni di fede, speranza e carità e possiedono una capacità di amare e di donarsi assolutamente straordinaria. Anche se non hanno simpatizzato per il marxismo, amano la gente povera e bisognosa; anche se non hanno letto Teilhard de Chardin, erano e sono pronti a dare la vita – e moltissimi di loro l’hanno fatto e lo fanno – con l’eroismo della semplicità. Parliamo di uomini e donne umili, che non hanno scritto diari spirituali pubblicati da case editrici di successo, facendone dei best-seller e conquistandosi le simpatie dei cattolici progressisti e dei loro amici di sinistra, marxisti orfani del loro dio, gonfi d’invidia e rancore. Ma è di tali uomini e donne che c’è bisogno...
Francesco Lamendola
Henri Le Saux e la questione del rapporto fra il cristianesimo e le altre religioni
di Francesco Lamendola
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=7552:le-saux&catid=71:altre-religioni&Itemid=97
Un video di Papa Francesco per promuovere il dialogo tra le religioni
Primo messaggio su YouTube del Santo Padre che, ogni mese, lancerà in questo modo le sue intenzioni universali di preghiera GUARDA IL VIDEO
Un videomessaggio al mese. Papa Francesca conferma la sua volontà di dialogare con tutti e attraverso qualsiasi mezzo. E aderisce all'invito dell'Apostolato della Preghiera della Compagnia di Gesù. Durante il Giubileo le sue intenzioni universali di preghiera verranno lanciate attraverso dei video postati su YouTube e tradotti in 10 lingue. Il primo riguarda il dialogo tra uomini e donne di religioni differenti che, se promosso, porterà "frutti di pace e giustizia".
"Confido in voi - chiede il Papa - per diffondere la mia petizione di questo mese: perché il dialogo sincero fra uomini e donne di religioni differenti porti frutti di pace e di giustizia. Molti pensano in modo diverso, sentono in modo diverso. Cercano Dio o trovano Dio in diversi modi. Alcuni si dicono agnostici, non sanno se Dio esiste o no. Altri si dichiarano atei. In questa moltitudine in questa ampia gamma di religioni e assenza di religioni, vi è una sola certezza: siamo tutti figli di Dio".
"Solo attraverso il dialogo - prosegue - potremo eliminare l'intolleranza e la discriminazione".
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