EBREI E IDEOLOGIE RIVOLUZIONARIE
Perché tanti ebrei aderirono alle ideologie rivoluzionarie del primo Novecento? gli ebrei d’Europa, specialmente giovani sono stati i principali esponenti di quel laboratorio culturale e intellettuale che chiamiamo "modernità" di Francesco Lamendola
Nella rivoluzione bolscevica dell’Ottobre 1917 si rimane colpiti dal numero dei Trotzkij, dei Zinoviev, dei Kamenev, dei Radek, per non parlare delle figure rimaste nell’ombra, ma, in realtà, occupanti dei ruoli decisivi, almeno nella fase organizzativa, come i Parvus (senza il quale Lenin non sarebbe mai riuscito a rientrare da Zurigo a Pietroburgo). Si rimane anche colpiti dal numero esorbitante di intellettuali ebrei aderenti alle avanguardie artistiche e letterarie e a tutte le esperienze di innovazione radicale e iconoclasta, di rottura con il passato, di rigetto della tradizione, di critica spietata dell’esistente, di dissacrazione dei valori più cari alla borghesia, o anche soltanto di sotterranea e non appariscente demolizione di tutto ciò sui poggiava l’ordine razionale del mondo. Proust, Kafka, Svevo, sono solo le cime del gigantesco iceberg: in realtà, si direbbe che gran parte della cultura del sospetto e del rifiuto, a partire da Freud e da molti dei suoi seguaci, anzi, a partire da Marx e da molti dei suoi discepoli (Eduard Bernstein, Rosa Luxemburg), sia stata un fatto essenzialmente giudaico; senza tralasciare il teatro, la musica, la pittura e, soprattutto, il giornalismo, mediante il quale tali avanguardie furono in grado di esercitare un’influenza culturale assai superiore alla loro consistenza effettiva.
Il fatto può essere irritante o indifferente, però è quello, e rappresenta, da sempre, un punto di frizione tra coloro i quali lo giudicano casuale e coloro che vi vedono una conferma all’analisi della situazione mondiale fatta a suo tempo da fascisti e nazisti (senza per ciò concordare, ovviamente, con le conclusioni pratiche che costoro ne traevano): nelle ideologie rivoluzionarie degli ultimi anni dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento vi è un numero assolutamente sproporzionato, in termini percentuali, di ebrei.
Fascisti e nazisti “lessero” questo fatto in termini assai semplicistici: per loro, era la prova della grande congiura del giudaismo internazionale contro le nazioni “gentili”, mirante a scalzare i valori tradizionali, sui quali poggiava la loro stabilità, per favorire il diffondersi dell’insicurezza spirituale, del disordine intellettuale, dell’angoscia esistenziale e rendere, così, più facile la sua subdola penetrazione al loro interno, al fine di sottometterle senza che se ne rendessero conto. Questa, peraltro, secondo i fascisti e soprattutto i nazisti, era soltanto una delle due branche della minacciosa tenaglia con cui il giudaismo internazionale stava attuando la scalata al potere mondiale; l’altra, solo apparentemente opposta, ma in realtà complementare, era quella finanziaria, rappresentata dai grandi banchieri e industriali ebrei, i quali stavano gettando la rete del loro invisibile potere sul mondo intero, la rete dell’usura, rendendo il lavoro schiavo del capitale finanziario e depredando, senza averne l’aria, la linfa vitale accumulata dall’Europa (e dagli Stati Uniti) attraverso generazioni di abili imprenditori e di tenaci lavoratori.
Aggiungevano, soprattutto i nazisti, che tutto questo era facilitato dal fatto che gli ebrei, mantenendosi uniti, prolifici ed evitando al massimo di mescolarsi con i “gentili”, stavano dimostrando una vitalità biologica immensa e nefasta; laddove i popoli ariani – vedi specialmente il caso della Francia -, ormai declinanti sul piano demografico, altro non sapevano fare, per evitare lo spopolamento, che importare gente di colore dalle proprie colonie, imbastardendosi e affrettando, così, la propria fine. Questo, del crollo delle nascite, era uno dei chiodi fissi dei teorici della destra europea e americana, non solo di area ideologica fascista o nazista (vedi Houston Stewart Chamberlain o Theodor Lothrop Stoddard, tanto per fare un paio di nomi); dato al quale essi contrapponevano quello della fortissima prolificità delle razze “inferiori” o “di colore”.
Ha osservato lo storico Ernst Nolte nel libro «Controversie. Nazionalsocialismo, bolscevismo, questione ebraica nella storia del Novecento» (titolo originale: «Streitpunkte», Ullstein Bichverlage, 1993; traduzione dal tedesco di Francesco Coppellotti, Milano, Casa Editrice Corbaccio, 1999, pp. 134-136):
«La questione [...] più spinosa è se dobbiamo attribuire [...] anche all"antisemitismo" nazionalsocialista un "nocciolo" razionale o se la scienza si debba per sempre accontentare di designazioni come "odio infernale contro gli ebrei". sarebbe solo un'altra formulazione affermare che Hitler avrebbe scelto gli ebrei come "capri espiatori", ma avrebbe potuto scegliere altrettanto bene e con altrettanta irrazionalità gli zingari o i fumatori. La posizione radicalmente contraria sarebbe che gi ebrei, di fatto, fossero i nemici più risoluti di Hitler, che lo avrebbero incessantemente avversato. Potrebbero essere in molti oggi a sottolineare positivamente questa tesi e in questo senso si muove spesso la storiografia ebraica: per Shlomo Aronson è evidente che gli ebrei erano "i nemici più duri di Hitler", e Raul Hilberg scrive: "Durante tutta la seconda guerra mondiale gli ebrei fecero propria la causa degli Alleati, alla quale posposero molte preoccupazioni per il loro benessere e contribuirono al trionfo finale. Questa concezione non viene però mai assunta nella storiografia tedesca, poiché si teme possa condurre alla giustificazione delle deportazioni e del concetto di "popolo nemico", per quanto essa non pregiudichi la condanna morale dell'assassinio di massa.
La storiografia tedesca sceglie perciò la prospettiva delle "vittime", di uomini che si fecero condurre senza resistenza "come pecore" al macello. Questa prospettiva è giustificata finché si tratta di ebrei tedeschi che, come Herta Nathorff, vennero progressivamente privati del loro lavoro e infine persino delle loro possibilità vitali, o come l'ex maggiore Arthur Weinberg, morto a Theresienstadt dopo un trattamento indegno, o come il dottor Arthur Meyer, che era stato un "nemico di tutti i partiti di sinistra" e non poteva capire come mai i tedeschi dovessero venir deportati dai tedeschi, o quale Maximilian Späth, che quale vecchio combattente dei Freikorps si suicidò, quando dovette lasciare la Germania. Gli ebrei emancipati e completamente integrati avevano dunque ragione di sentirsi vittime di un'ingiustizia immeritata. Proprio essi però, come risulta chiaro da molte testimonianze, giudicarono per la quasi totalità in modo molto negativo l'immigrazione degli "ebrei orientali", e in particolare l'attività dei rivoluzionari ebrei; e avevano ancora una volta ragione quando consideravano inammissibile il dover rispondere del comportamento e delle attività di questi "altri ebrei".
Il problema era però se gli "ebrei orientali" e i "rivoluzionari" fossero per essi semplicemente degli "estranei". Questi rivoluzionari erano infatti in gran parte i rampolli della grande borghesia ebraica, che si ribellavano contro i padri, poiché pareva loro intollerabile la posizione oltremodo autoritaria del padre, sancita dalla religione ebraica, che non senza motivo aveva suscitato la critica sia dei socialisti sia dei conservatori, ai quali essi si unirono, o protestando, come Arthur Trebitsch, contro la "giudaizzazione del mondo" e diventando più nazionali dei tedeschi nazionali, o allineandosi alle posizioni di Franz Werfel, che richiedeva la caduta di "Dio padre" nella religione, l'eliminazione del re "come padre dei cittadini" e l'eliminazione del'imprenditore come "padre degli operai".La lotta delle generazioni e lo scontro sul "capitalismo" e sull'"economia monetaria" assunsero fra gli ebrei di norma forme più acute che nella società non ebraica, poiché i "padri" erano molto spesso imprenditori d successo con molte caratteristiche del "capitalismo originario", e i figli si sentivano "oppressi" , rimproverando ai padri il tradimento delle massime morali del giudaismo, e al tempo stesso l'insufficiente autoliberazione verso il cosmopolitismo o verso l'integrazione nella società cristiana. L'anticapitalismo e l'odio che gli ebrei portavano verso di sé erano già molto diffusi prima della prima guerra mondiale nella generazione ebraica più giovane, e quindi è assolutamente impossibile negare loro un "nocciolo razionale". Se esso spinse Karl Kraus, Hugo von Hofmannstahl Carl Sternheim, e non pochi altri, ad accettare la cultura ufficiale e non quella ebraica, ma d'altra parte rafforzò anche la tendenza alla scelta dei partiti rivoluzionari.
Questa affinità di gran parte della giovane generazione ebraica con i partiti operai rivoluzionari può essere spiegata molto facilmente, ma una simile chiarificazione presuppone che la letteratura tedesca rompa un tabù finora inviolato e si ponga la domanda se vi sia stata un'intima affinità tra giudaismo e bolscevismo. Questo tabù è giustificato in quanto l'affermazione, forse giusta, che gli ebrei parteciparono sia in Germania che in Russia in misura notevole al movimento rivoluzionario, sembra essere vicina alla tesi dei nazionalsocialisti, da Hitler stesso formulata una volta in colloquio con Max Planck , per la quale tutti gli ebrei sarebbero stati comunisti.»
Come si vede, una impostazione corretta della questione deve tener conto della diversificazione esistente all’interno della comunità giudaica europea nei primi decenni del Novecento. I figli erano generalmente “rivoluzionari”, i padri erano per lo più “uomini d’ordine”, felicemente inseriti, fino ai massimi livelli, nella grande industria e nell’alta finanza: si trattava, perciò, di un contrasto generazionale, ma i non ebrei, dall’esterno, non lo vedevano così e lo interpretavano volentieri come la prova di una duplice strategia ebraica per dare l’assalto al potere mondiale: mediante la rivoluzione marxista e mediante la speculazione finanziaria.L’ebreo, così, negli stereotipi degli antisemiti, diventava sia l’agente rivoluzionario che trama nell’ombra e prepara la rivoluzione comunista, sia il cinico e potentissimo banchiere che, dalle borse e dalle piazze d’affari principali, manipola la ricchezza mondiale ed espropria dei loro sudanti guadagni i lavoratori “gentili”, per accumulare sempre più oro nei suoi tenebrosi forzieri.
A questo punto, ci si può domandare come mai, all’interno delle comunità giudaiche europee, si fosse verificata una simile rottura generazionale, e come mai i non ebrei non la riconoscessero come tale. A nostro parere, la rottura generazionale si stava verificando anche fra i non ebrei, ma in maniera molto più lenta e strisciante: in pratica, essa sarebbe stata ritardata ancora per mezzo secolo, esplodendo, in forme clamorose, solo nel 1968 (e anche lì troveremo non pochi esponenti della comunità ebraica, a cominciare dall’ebreo tedesco Cohn-Bendit). Come mai la rottura si verificò molto prima e molto più in fretta entro la minoranza ebraica europea? Probabilmente per un insieme di fattori, il primo dei quali era appunto la condizione di “diversi” degli ebrei stessi: popolo senza patria, eternamente diviso e disperso, in rapporti conflittuali, o comunque delicati, con le società ospitanti, e portatore di una visione del mondo diversa e non suscettibile d’integrazione. Se l’uomo del Novecento si sentiva spiritualmente sradicato, l’ebreo si sentiva doppiamente tale, perché senza radici, o meglio, perché trapiantato lontano dalle sue radici.
Il sorgere del sionismo e del progetto di Theodor Herzl circa il “ritorno” degli Ebrei in Palestina (Congresso Sionista Mondiale di Basilea, agosto 1897) aggiunse un elemento d’irrequietezza in una comunità che già stava vivendo in maniera tumultuosa e, a volte, drammatica, il ricambio generazionale, con le nuove generazioni in rivolta, che rifiutavano con disprezzo il sapere dei “padri”, la loro cultura, la loro tradizione, e, soprattutto, il principio d’autorità paterno (si noti che anche il 1968 si può leggere come una gigantesca rivolta contro il principio d’autorità paterno). Gli ebrei della vecchia generazione si sentivano generalmente integrati, specialmente in Europa occidentale, dove erano anche assai meno numerosi (Inghilterra, Francia, Italia, Germania occidentale); quelli della nuova si sentivano apolidi, sradicati, disperati, pronti a qualsiasi avventura pur di mutare il loro destino, ma senza sapere bene in quale direzione andare, e cercavano una loro nuova identità, stentando però a trovarla, per cui, sovente, davano l’impressine di lavorare unicamente per la “distruzione”, la “sovversione”, la “confusione”, l’arte “degenerata”, oltre che per il bolscevismo e l’anarchismo (negli Stati Uniti, molti giovani ebrei tedeschi erano militanti anarchici; mentre i “padri”, come i Rotschild, occupavano posizioni-chiave nell’alta finanza).
Insomma: gli ebrei d’Europa, e specialmente le giovani generazioni, sono stati i principali esponenti di quel laboratorio culturale, intellettuale, spirituale, che siamo soliti chiamare “modernità”, nella sua fase di crescita decisiva. Qualunque giudizio si voglia dare della modernità, intesa come insieme di valori, comportamenti e stili di vita, le sue radici sono lì. Per cui vi è un buon grado di verità nell’interpretazione del fascismo e del nazismo come espressioni di una reazione e di una lotta contro la modernità. In tale lotta, il fattore dell’antisemitismo ha fatto da tragico detonatore…
Francesco Lamendola
Perché tanti ebrei aderirono alle ideologie rivoluzionarie del primo Novecento?
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Francesco Lamendola
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