IL DIALOGO IMPOSSIBILE
Quante cose nel dialogo “impossibile” fra don Abbondio e il cardinale Federico Borromeo. Gli aspetti psicologici. Non si può aiutare chi non vuol essere aiutato, né farsi udire da chi ha deciso di chiudere gli orecchi di Francesco Lamendola
Nel XXV capitolo dei «Promessi sposi», Manzoni mette don Abbondio e il cardinale Fedeerico Borromeo a confronto, in un colloquio teso, toccante, a volte drammatico; e, dall’inizio alla fine, altamente edificante, perché vi emerge, con forza, l’altissimo concetto che il prelato ha della Chiesa, dei doveri del clero, della missione sacerdotale, mentre il parroco del paesino senza nome balbetta, tenta di scolparsi e, alla fine, tace, vinto e umiliato – ma non convinto.
E qui sta l’aspetto più profondo dell’episodio in senso psicologico, e più originale in senso artistico. Don Abbondio, che, con la sua pavidità, ha abbandonato i due promessi sposi alla loro sorte ed è stato causa, sia pure indirettamente, del loro mancato matrimonio e anche della loro separazione e delle molte sofferenze che li hanno colpiti, non solo non si mostra consapevole delle sue mancanze e contrito per non essere stato all’altezza dei suoi doveri di prete, calando subito le braghe davanti all’intimazione dei due bravi di don Rodrigo; ma rimane costantemente sordo ai richiami del suo vescovo e incaponito nella sua convinzione auto-assolutoria: si trovava in stato di necessità, rischiava la vita… come si fa a chiedere a un pover’uomo di essere un cuor di leone, se il coraggio non ce l’ha? Il cardinale tenta di fargli capire che la fede consiste appunto in questo: nel chiedere a Dio quel che ci manca, in questo caso il coraggio. Aggiunge che, se si fosse rivolto a lui, il cardinale, egli avrebbe ben saputo come proteggere sia i due sposi innocenti, sia il parroco: non li avrebbe lasciati da soli, in mezzo a simili angustie. Ma tutti i suoi discorsi e le sue esortazioni urtano contro un muro di gomma: don Abbondio continua a difendersi, tenta perfino di contrattaccare (raccontando il goffo tentativo dei due giovani di “sposarsi” davanti a lui, contro la sua volontà, per strappargli quella consacrazione che lui non aveva voluto dare alla loro unione): non gli entra proprio in testa di avere sbagliato, non si rassegna all’idea di meritare tutti quei rimproveri. Non solo: la santità di Federico, la sua evidente irreprensibilità, il suo coraggio, la sua fermezza, la sua coerenza, tutto, in lui, pare fatto apposta per ravviare in don Abbondio la consapevolezza della propria miseria di uomo e di sacerdote; ma non fa scattare la vergogna per aver male operato, né il pentimento per essere stato un mediocre pastore del gregge a lui affidato dalla Chiesa. Al contrario: la sproporzione fra la statura morale del cardinale e la sua gli sembra la conferma più evidente del fatto che un uomo comune come lui non può essere in alcun modo messo sullo stesso piano di un santo, e, che, pertanto, nessuno può richiedergli di rendere conto di non aver agito da santo. Un uomo è solamente un uomo, con tutte le sue debolezze: nessuno può pretendere da lui che faccia quel che non è in grado di fare, o che s’inventi quel coraggio che non possiede… non sarebbe ragionevole, non sarebbe umano. E questo atteggiamento di auto-assoluzione rende don Abbondio cieco e sordo, dall’inizio alla fine, ai richiami, ora severi, ora paterni e affettuosi, del suo superiore. Ad un certo punto decide di tacere, smette di difendersi, ma, dentro di sé, continua a recalcitrare: non è intimamente persuaso di aver mancato ai suoi doveri, di essere stato un cattivo prete per i suoi parrocchiani, per quei due poveri giovani, proprio quando essi avevano bisogno del suo aiuto, del suo consiglio, del suo conforto spirituale e religioso.
Si prova un senso di tristezza, di scoraggiamento, nel vedere quel pavido prete non cessare, neppure per un attimo, di pensare a se stesso; non lasciarsi mai sfiorare dal pensiero del dolore di quei due giovani, né lasciarsi toccare il cuore da un’ombra di rimorso; restare chiuso e corazzato nella difesa implacabile del proprio egoismo, e chiudere il cuore e la mente alle sollecitazioni paterne del cardinale; s’intuisce che, da quella tomba di menzogne, egli non uscirà mai. A che vale sprecare parole con questa razza d’uomini, per i quali non esiste altro dio fuori di loro stessi; totalmente murati nel proprio angolino e assolutamente incapaci di aprirsi ad una vita più umana, ad un minimo di consapevolezza riguardo a se stessi? E non solo non sanno, né desiderano redimersi: si permettono anche di covare del rancore nei confronti degli altri, di tutti quelli che sono migliori di loro e che sanno agire, buttarsi, rischiare, pur amando la vita, mentre loro, che considerano la vita un fastidio, anzi, una somma di fastidi, e che non amano se non la loro quiete, mai oserebbero esporsi, mettersi in gioco, azzardare la loro vita.
Eppure, è un fatto: c’è qualcosa, in quel colloquio, che non torna. Don Abbondio è, alla fine, vinto e ammutolito, ma non è convinto. È stato schiacciato, ma non ha ammesso la sua colpa, non ha chiesto perdono, non si sente veramente in fallo; continua a pensare, in qualche angolo della propria coscienza, di essersi regolato in maniera pienamente legittima. Non solo: ma anche noi lettori sentiamo, a un certo punto, che lui, proprio lui, il vile, l’egoista don Abbondio, in fondo ha ragione: non è umano, non è nemmeno cristiano, pretendere da qualcuno ciò che egli, pur con la miglior buona volontà, non è capace di dare. Per cui il suo rancore è legittimo; ed è un piccolo rancore personale che si somma a centinaia, migliaia, milioni di piccoli rancori dello stesso genere, e tutti insieme fanno legione, creando l’orizzonte morale di una determinata società, in una determinata epoca.
Guido Piovene, in un articolo del 1957, intitolato «Il non eroe», ha rievocato un episodio assai lontano nel tempo: una conferenza su Manzoni, che aveva tenuto durante un soggiorno in Inghilterra (in: G. Piovene, «Idoli e ragione», Milano, A. Mondadori Editore, 1975, pp. 18-20):
«Di quello che dissi, del resto, non ricordo più nulla. Mi resta impresso solo l’episodio finale. Quando ebbi terminato, il prete che era un lettore di Manzoni, pronunciò un discorsetto, come usano da quelle parti, di ringraziamento ed elogio. Tra l’altro: “Ringrazio il conferenziere anche per i suoi commenti sul dialogo tra don Abbondio e il cardinal Federico. Dalle sue parole ho capito perché, quando rileggo quel dialogo, provo una simpatia sempre più forte per quel povero prete, e parteggio per lui”. A me pareva di aver detto proprio l’opposto; e pensai che anche lui non aveva capito niente.
Negli anni successivi rimuginai più volte su quelle parole; e sempre con minor contrarietà; tanto che adesso, se rileggo il dialogo, il mio sentimento vero non è molto lontano da quello del prete di Liverpool. Vi trovo il disagio che si prova sempre quando un uomo grandissimo dà lezioni a uno piccolissimo, quando lo schiaccia, soprattutto sotto il peso di argomenti giusti, e così prevale in due modi: con l’essere più forte e avere ragione; e insomma gli dimostra una immensa superiorità morale. Il piccolo uomo umiliato non ha nemmeno la rivalsa di potergli dar torto e disprezzarlo nel segreto Capisco ora perché il prete di Liverpool parteggiava per don Abbondio. Nel Manzoni troviamo sempre una morale di grandezza, e la palma finale spetta sempre all’eroe, anche se della fede e dell’umiltà. E la missione dell’eroe è quella di sconfiggere chi sta più in basso, anche mediante la pietà e la giustizia. Mentre nelle parole di quel prete di Liverpool era la morale antieroica dell’umile puro e semplice, del vero terzo stato, che è terzo stato anche morale, ossia mediocre, meschino, pauroso, giacché aspira soltanto alla propria conservazione; recalcitra davanti al grande carattere o al genio, e nel tempo stesso rifiuta di essere avvilito; e, come i fatti insegnano, può trovare in se stesso un’altra forma di coraggio per non essere sopraffatto.
È poi veramente il Manzoni il poeta degli umili, come si dice spesso? Io non l’ho mai creduto. Egli assolve coloro, popolani o signori, modesti frati o cardinali, che attingono allo stato di grazia dell’umiltà, e perciò si rendono grandi. E condanna chiunque, popolano o signore, pensa ed agisce da superbo: il feudatario prepotente come l’ometto scatenato nella sommosso, stravolto dal desiderio vendicativo di farsi giustizia da sé. La sua è sempre umiltà degna d’ammirazione, di carattere alto, che nasce dalle facoltà superiori, traslata su un piano ideale; invece della semplice umiltà di fatto, che può essere anche piccolezza morale e ristrettezza di orizzonte: tanto è vero che, la sua umiltà, esige il massimo coraggio.
Io stesso, che ammiro il Manzoni, quando leggo quel dialogo, vedendo quel povero topo sperduto in una cattedrale, quel granello su cui gira la macina massiccia dell’intelligenza umana rinforzata dal sacro, quel pulcino che si dibatte fra gli artigli del falco, provo un senso di pena. Non mi riesce di convincermi che sia interamente giusto. Il cardinale Federico ci dice, come certo è vero, che egli sa agire come parla, e che nei panni del suo sottoposto codardo avrebbe affrontato il martirio. Ma questo è proprio il giro di vite finale, che rende la situazione di don Abbondio più disperata e senza scampo. Eppure potrebbe rispondergli qualche cosa di più che il Manzoni non gli metta in bocca. E per esempio che subire il martirio non è lo stesso per entrambi. “Quanto più l’uomo è grande, se subisce il martirio, tanto più grande è il suo compenso, e più pesante il conto ch’egli presenta. Non un conto nel senso vile. Ma nel senso che la grandezza incontra col martirio la sua perfezione. È la conseguenza finale d’una vita eminente, un’ultima azione esemplare, un debito pagato da un uomo grande al suo splendore che ne rimane confermato per sempre. Dirò di più: per te, cardinal Federico, è una necessità. Ma in me sarebbe un atto incongruo, quasi un0idea balzana che la mia vita non giustifica. Sarei un disgraziato prete, trovato morto in un viottolo di campagna, di cui nessuno parlerebbe, se non la gente come me, per dire: Garda quello stupido, è andato a rompersi la testa credendosi chissà cosa. Tu credi, con le tue parole, di diventare equanime; invece soprattutto adesso usi due pesi e due misure, per la ragione molto semplice che tu sei un grande cardinale, ed io un piccolo parroco”. Press’a poco così poteva dire don Abbondio, se il suo inventore l’avesse lasciato parlare, e certamente sarebbe rimasto nel torto. Il suo torto però non cancella in me l’impressione che provo di fronte a quel dialogo, di qualche cosa che non va.»
Guido Piovene, in questa magnifica pagina di prosa, ha sollevato un problema gigantesco: come devono regolarsi i buoni, le anime illuminate che molto hanno sofferto e lavorato su se stesse, prima di innalzarsi ad un livello di vita non egoistico, e perciò amorevole e compassionevole, con gli altri, e specialmente con quelli che non si sono mai messi in discussione, non si sono mai sentiti bisognoso di migliorarsi, né arrivano a capire la bassezza e la meschinità della loro esistenza. In pratica - e nel dialogo fra don Abbondio e il cardinale lo si vede benissimo – è come se si trattasse di due differenti specie umane, di due creature talmente lontane l’una dall’altra, da non riuscire nemmeno a intendersi, pur se parlano, apparentemente, una medesima lingua.
Questo, però, pone dei problemi enormi e pressoché irrisolvibili. Il rancore di don Abbondio è meschino, ma, a suo modo, legittimo: egli è stato umiliato, è stato offeso nel suo amor proprio; e, si sa, quanto più una persona è di mediocri qualità, tanto più è sensibile a tutto ciò che potrebbe ricordarglielo in maniera un po’ troppo esplicita. Il cardinale Federico offenderebbe don Abbondio anche se non lo rimproverasse, anche se lo ignorasse, perché la sua sola presenza è intollerabile: essa è un continuo, impietoso richiamo alla piccolezza, al nulla di don Abbondio. È chiaro che questi due personaggi non arriveranno mai a capirsi: e come lo potrebbero, se danno un significato tanto diverso alle parole, e se i concetti cui attingono, nel corso della discussione, giacciono su due piani di realtà tanto differenti, al punto che si direbbero appartenere a due universi paralleli, ma che non si toccano mai, benché si sfiorino spesso?
Il cardinale Federico rappresenta l’umanità che si apre davanti al mistero delle cose, che percepisce la propria fragilità e insufficienza, e che domanda apertamente l’aiuto di Dio, senza il quale non potrebbe fare nulla. Don Abbondio rappresenta l’umanità che conta solo su se stessa, che non vede altro che se stessa, che ama anche i propri difetti e che detesta tutto ciò che potrebbe disturbare la sua quiete: una umanità di zombie, di morti viventi. Pure, si tratta di una umanità maggioritaria: questo ci dice il principio di realtà, contro il quale è vano cavillare sulle parole. Ora, il principio di realtàgli uomini come Federico Borromeo lo possiedono, gli altri no; agli altri, non resta che la misera soddisfazione di coalizzarsi, milioni di nani contro una piccolissima razza di giganti, per sentirsi forti del numero e godere della propria “normalità”. Pertanto, se dialogo deve esserci, tocca agli uomini come Federico gettare un ponte verso gli altri: il che significa convincerli, se possibile, e non, semplicemente, vincerli. Se vinti, i nani accumulano del rancore, e si tengono ancor più lontani, per quanto sta in loro, da ciò che potrebbe aiutarli a uscire dalla propria prigione. Vero è che la cosa risulta quasi impossibile, perché non si può aiutare chi non vuol essere aiutato, né farsi udire da chi ha deciso di chiudere gli orecchi. Pure, bisogna almeno tentare: non sforzandosi di persuadere razionalmente i don Abbondio, come fa il cardinale; ma, semplicemente, amandoli…
Francesco Lamendola
Quante cose nel dialogo “impossibile” fra don Abbondio e il cardinale Federico Borromeo
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