Francesco e Kirill, una Santa Alleanza per il futuro dei cristiani e del mondo
L’incontro fra il papa e il patriarca di Mosca era desiderato da Kirill da molto tempo. Atteso ai tempi di Giovanni Paolo II; sperato ai tempi di Benedetto XVI, si compie ora. Cattolici e ortodossi di fronte alle stesse sfide della persecuzione e del relativismo. Il freno del nazionalismo ortodosso, sostenuto da Putin. La crisi in Medio oriente e il rischio di isolamento della Russia spingono alla collaborazione.
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Mosca (AsiaNews) - La lunga attesa ha finalmente raggiunto il suo compimento: il 12 febbraio la Terza Roma si riconcilia con la Prima Roma, per salvare la Seconda, le Chiese perseguitate dell’Oriente. Il patriarca Kirill di Mosca ha voluto approfittare della visita del Papa Francesco in Messico, per segnare a Cuba un passo storico che non avrebbe in alcun caso lasciato a un suo successore. Divenuto patriarca della Chiesa Ortodossa Russa sette anni fa, Kirill (Gundjaev) si preparava a questo evento fin dagli anni Settanta dello scorso secolo.
Da giovane monaco, e poi giovanissimo vescovo dell'ultima fase dell'era sovietica, era stato lanciato nel mondo della diplomazia politico-ecclesiastica dal suo mentore, quel metropolita Nikodim (Rotov) di Leningrado che aveva stupito il mondo presentandosi, unico vescovo ortodosso, all'apertura del Concilio Vaticano II. A lui si unirono poi gli altri rappresentanti dei vari patriarcati d'Oriente, per prendere parte a quella formidabile stagione ecumenica che ha visto i russi guidare il mondo cristiano a un nuovo livello di comprensione reciproca, nell'audacia dell'Ostpolitik che riuniva i nemici della Guerra Fredda. Quella fase si concluse, in un certo senso, con la morte di Nikodim il 3 settembre 1978 nelle braccia del papa Giovanni Paolo I, eletto da soli tre giorni e a sua volta scomparso pochi giorni dopo. Il trentenne Kirill era diventato vescovo l'anno precedente e accompagnò il metropolita in quell'ultimo viaggio, comprendendo bene la missione che gli veniva affidata dai misteriosi disegni divini: tornare a quell'incontro come protagonista di una nuova era per la cristianità.
Questo destino oggi si compie, nel momento in cui la Chiesa universale di Oriente e Occidente è posta di fronte a una prova decisiva: la grande offensiva del radicalismo islamico e delle altre forze del male, di fronte all'estrema secolarizzazione e alla perdita dell’identità del cristianesimo storico, richiede un nuovo inizio dell'annuncio evangelico, pena la definitiva emarginazione dei cristiani nelle catacombe del XXI secolo. Il patriarca di Mosca sente su di sé tutto il peso di questa sfida apocalittica e percepisce nella personalità non usuale del papa Francesco una tensione analoga, una volontà di rifondazione della fede perduta che urge nell'animo di chi lo Spirito Santo ha voluto mettere a presiedere le più grandi Chiese del mondo cristiano di oggi.
L'incontro tra i due capi della Prima e della Terza Roma era stato a un passo dall'essere realizzato quasi 20 anni fa, all'Assemblea delle Chiese Europee di Graz nel 1997, quando il patriarca Aleksij II aveva accettato di incontrare il Papa Giovanni Paolo II in terra austriaca. Il contesto storico era assai differente: la Chiesa Russa negli anni Novanta si trovava nell'imbarazzo di doversi liberare dal passato di collaborazionismo col defunto regime sovietico, e temeva il proselitismo diffuso delle Chiese occidentali e delle sètte sul proprio territorio. Il rifiuto al papa polacco segnò l'inizio di una nuova consapevolezza dell'Ortodossia russa, che non volle farsi ancella del papa trionfatore del comunismo, ponendo così le basi dell'orgoglio nazionalista ortodosso della Russia di Putin, sorta negli anni Duemila dalle ceneri della convulsa rivoluzione eltsiniana. Da allora il Patriarcato di Mosca ha ripetuto senza tentennamenti le sue rimostranze ai cattolici, colpevoli di proselitismo e uniatismo anti russo, e Kirill stesso si trasformò da fautore in primo oppositore dell'abbraccio all'Occidente, ergendosi a profeta della nuova Russia, unica salvezza di un mondo traviato e ormai privo dell'anima cristiana.
Eppure quando finalmente la parabola del giovane vescovo e metropolita di scuola sovietica, nel gennaio 2009, si concluse con l'agognata conquista del trono patriarcale, divenne evidente che, se mai tale incontro tra le due Rome fosse potuto avvenire, questo sarebbe stato solo con il patriarca Kirill. Del resto, ancora da metropolita e ministro degli Esteri della Chiesa russa, Kirill era venuto a Roma nel 2006 ad abbracciare il Papa Benedetto XVI, che da teologo e maestro di sapienza aveva fornito anche agli ortodossi gli argomenti della grande opposizione al relativismo contemporaneo. Con Ratzinger non si è potuto arrivare a un esito del processo di riavvicinamento, anche perché Kirill non voleva apparire discepolo di fronte a un Pontefice di così evidente superiorità teologico-politica, mentre con Bergoglio la Provvidenza non poteva fare migliore scelta: un papa non europeo, senza pretese dottrinali, di grande e aperta umiltà pastorale come Giovanni XXIII, l'amico di Nikodim, a capo di un cattolicesimo incerto e diviso sulle prospettive future. Il patriarca di Mosca, in terra amica di Cuba con il profumo del comunismo sovietico che emana dai sigari presidenziali, avrà buon gioco nell'apparire padrone della situazione, chiamando il Papa argentino, a sua volta figlio della religione popolare di quelle terre, e farsi alleato di una nuova rinascita cristiana universale.
Nelle dichiarazioni alla stampa esposte dal metropolita Ilarion, erede di Kirill alla diplomazia patriarcale, queste intenzioni escatologiche sono risuonate in modo inequivocabile: il Patriarcato di Mosca vuole che il 2016 sia l'anno della riscossa dei cristiani contro le persecuzioni in tutto il mondo, e per questo la Chiesa Russa - sono parole del metropolita - ha deciso di mettere tra parentesi le ragioni del dissidio con i cattolici, che pure rimangono intatte come la divisione degli uniati in Ucraina, per unirsi in difesa della fede in tutti i Paesi. Non va dimenticato che a giugno di quest'anno tutte le Chiese ortodosse si riuniranno a Creta, in un Concilio di valore epocale, in cui la Chiesa Russa sarà grande protagonista. La Terza Roma, prima di regolare i conti con la Seconda, si assicura i favori della Prima. Non mancano inoltre ottime ragioni di opportunità politica a fronte del perdurante conflitto ucraino, in cui il Patriarcato di Mosca ha tutto da perdere, e che non vuole lasciare in balia dell'estremismo nazionalista dello stesso Putin. A questo sono legate le condizioni della profonda crisi economica della Russia stessa, prostrata dai ribassi petroliferi e dalle sanzioni occidentali. Non c'è dubbio che lo stesso Putin, a sua volta recatosi di recente da papa Francesco, abbia grande bisogno di sponde occidentali per evitare di finire strangolato dall'abbraccio cinese e dall'irrilevanza economica. Tanto più che alla debolezza sui mercati fa da contraltare la pretesa egemonica della Russia in Medio Oriente, che a nessun costo vuole cedere all'America o all'Europa, o tanto meno all'odiata Turchia: è proprio in quelle terre che i russi si giocano il proprio futuro. La protezione dei cristiani in Siria e Iraq dalle mire dell'Isis fornisce la perfetta cornice della nuova Santa Alleanza con i cattolici, a loro volta desiderosi di trovare nelle periferie del mondo l'occasione per annunciare l'era di un nuovo cristianesimo, proprio nell'anno giubilare della Misericordia divina.
Vladimir Rozanskij
http://www.asianews.it/notizie-it/Francesco-e-Kirill,-una-Santa-Alleanza-per-il-futuro-dei-cristiani-e-del-mondo-36609.html
E’ “l’ecumenismo del sangue” di cui più volte ha parlato anche Francesco, già evidente nelle terre ferite dall’avanzata islamista, ove i presuli cattolici e ortodossi sono da tempo un’unica voce nello scuotere la comunità internazionale ad agire per fermare l’esodo e la scomparsa dei cristiani in quelle regioni.
Il menù del colloquio è top secret, ma da Mosca fanno sapere che se il piatto forte sarà la situazione dei cristiani in medio oriente, tempo adeguato sarà riservato a fare il punto sullo stato delle relazioni internazionali e, più in generale, sulla politica globale. Al termine dell’incontro, il Papa – che subito dopo partirà alla volta del Messico per il previsto viaggio apostolico – e Kirill firmeranno una dichiarazione comune, che si preannuncia articolata. Nessun evento religioso collaterale è previsto, forse anche per la location aeroportuale scelta. Già tra il 1996 e il 1997 le due parti sembravano ormai prossime ad accordarsi su un incontro tra Giovanni Paolo II e Alessio II in territorio austriaco, ma i negoziati saltarono all’ultimo a causa di problemi legati a quello che Mosca definì (e lo fa ancora oggi, senza attenuare i toni bellicosi dell’epoca) “il proselitismo dei missionari cattolici nel territorio canonico del Patriarcato” e l’attivismo “dei greco-cattolici in Ucraina”.
Russia Perché è importante l’incontro tra il Papa e il Patriarca Kirill
La crisi mediorientale avvicina il Vaticano e Mosca. Il ruolo di Raúl Castro come mediatore. Il plauso di Bartolomeo I di Costantinopoli
di Matteo Matzuzzi | 05 Febbraio 2016
Il Papa incontrerà Kirill all'Avana il prossimo 12 febbraio
Roma. "Non è un incontro improvvisato", ha tenuto a ribadire più volte Padre Federico Lombardi annunciando l'imminente incontro del Papa con il Patriarca di Mosca Kirill, in programma all'Avana il prossimo 12 febbraio, in una stanzetta dell’aeroporto cittadino. Francesco, infatti, si fermerà sull’isola caraibica prima di recarsi in Messico per il programmato viaggio apostolico, approfittando così della presenza in quelle zone del Patriarca. Si lavorava da tanto allo storico evento (è la prima volta che "i due gerarchi" si incontreranno di persona, seppure in terra neutra), e "da almeno un paio d'anni si stavano studiando le possibilità per rendere possibile questo incontro", ha aggiunto il portavoce vaticano. Il fatto poi che al colloquio (che sarà lungo, un paio d'ore) seguirà una corposa dichiarazione comune, rende ancor più rilevante l'appuntamento riservato, aperto solo agli interpreti. Cruciale appare il ruolo del presidente cubano Raúl Castro, una sorta di mediatore che ha offerto l'aeroporto della capitale per ospitare l'incontro.
ARTICOLI CORRELATI Il genocidio dei cristiani mediorientali è il motore dell’incontro Papa-Kirill Il Papa: "La Chiesa non può illudersi di brillare di luce propria. Non faccia proselitismo" Putin ha un alleato in più nella guerra in Siria: il patriarca KirillNon è il compimento del sogno di Giovanni Paolo II, che era sì quello di incontrare il Patriarca ortodosso russo, ma a Mosca e non in una città "terza". Il passo in avanti rappresenta comunque una svolta storica nel cammino ecumenico, che relativamente alla realtà ortodossa era avviato in modo concreto solamente con il Patriarcato di Costantinopoli, prestigioso dal punto di vista storico ma non per il numero di fedeli rappresentato.
Dialogare con Mosca – la più grande chiesa ortodossa al mondo – al livello più alto apre significative prospettive per il futuro, anche sul piano geopolitico. Più volte dal Patriarcato (e dallo stesso Kirill) era stato manifestato l’auspicio che Mosca e Roma potessero far fronte comune nel denunciare le persecuzioni dei cristiani nel vicino e medio oriente.
Il genocidio dei cristiani mediorientali è il motore dell’incontro Papa-Kirill
L’annuncio del colloquio tra il Pontefice e il Patriarca di Mosca. Lo stato dei rapporti bilaterali, le partite geopolitiche
di Matteo Matzuzzi | 05 Febbraio 2016
L'incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill avverrà il 12 febbraio all'Avana
Roma. Per capire le ragioni dello storico incontro tra il Papa e il Patriarca di Mosca Kirill in programma all’aeroporto internazionale dell’Avana, il prossimo 12 febbraio (con la benedizione del presidente cubano Raúl Castro, gran mediatore dell’evento), è necessario leggere la nota diffusa ieri all’ora di pranzo dal Patriarcato russo. Il comunicato stampa congiunto dà conto della “gioia” provata nel dare il lieto annuncio e mette nero su bianco lo stato dei rapporti tra Santa Sede e Mosca. Pur essendo un punto di vista parziale, si sottolinea subito che i problemi sul tappeto rimangono tutti, e le due ore di colloquio riservato previste alla presenza dei soli interpreti non potranno sciogliere nodi che si trascinano da decenni e in qualche caso da secoli. C’è la questione degli uniati (i cristiani d’oriente fedeli a Roma) che – si legge nel corposo messaggio russo – “hanno devastato tre diocesi del patriarcato di Mosca nell’Ucraina occidentale tra gli anni Ottanta e Novanta”.
ARTICOLI CORRELATI Il Papa: "La Chiesa non può illudersi di brillare di luce propria. Non faccia proselitismo" Perché è importante l’incontro tra il Papa e il Patriarca Kirill Putin ha un alleato in più nella guerra in Siria: il patriarca KirillLa crisi tra la Russia e l’Ucraina non ha fatto altro che aggravare il problema e ciò “impedisce la piena normalizzazione delle relazioni tra le due chiese”. Tuttavia, quanto sta accadendo nel vicino oriente, nell’Africa centrale e settentrionale e in altre regioni del mondo “ha richiesto misure urgenti e una cooperazione più stretta tra le chiese cristiane”, sottolinea il comunicato moscovita che parla esplicitamente di “estremisti che stanno perpetrando un vero genocidio della popolazione cristiana”. E’ questo il presupposto fondamentale che ha mosso Kirill ad acconsentire al colloquio con Francesco, e cioè “la necessità di mettere da parte i disaccordi interni e unire gli sforzi per salvare il cristianesimo nelle regioni in cui è sottoposto alla persecuzione più dura”. E’ stato il Patriarca, si chiarisce in Russia, a escludere fin dal principio la possibilità che l’incontro – preparato a lungo, ha fatto sapere padre Federico Lombardi – si potesse tenere in Europa, troppo segnata da una storia di scismi, conflitti e divisioni.
Putin gioca la carta dei cristiani
La Stampa
(Cesare Martinetti) È difficile non vedere la regia di Vladimir Putin dietro l’annunciato incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill. Se infatti il gesto del pontefice romano non è sospettabile di ingerenze temporali esterne, al contrario è impensabile che il Patriarca di tutte le Russie si sia deciso allo storico passo senza il consenso del Cremlino.
E probabilmente molto di più. Che poi il tutto avvenga a Cuba, aggiunge altra valenza simbolica e politica non trascurabile.Il passo di riconciliazione tra le chiese di Roma e Mosca, atteso almeno dalla caduta dell’Urss, avrebbe dovuto logicamente compiersi, se non nella capitale russa, in qualche monastero dell’Est, a metà strada, dove davvero si sarebbe potuta allestire anche scenograficamente la riconciliazione di un doppio strappo storico: prima lo scisma, poi i settant’anni di ateismo comunista. Questo avrebbe voluto dire incontrarsi da qualche parte in terra d’Ucraina, dove pure avvenne - secondo storia e mito, così coltivato da Putin - intorno all’anno Mille il battesimo della «Santa» Russia. Ma l’evocazione stessa dell’Ucraina fa capire che l’ipotesi era insostenibile. Dunque Cuba, attraverso la mediazione - vera? posticcia? - di Raul Castro, luogo che da improbabile diventa invece probabile perché il pontefice non è più un polacco intagliato nel marmo dell’anticomunismo, ma un pastore venuto da quella parte del mondo e che ad essa continuamente si rivolge.
Lo sfondo occasionale di questo incontro, come ieri è stato detto a Roma e Mosca dai due portavoce, è la difesa dei cristiani nella crisi mediorientale, in Siria e Iraq, oggi il primo punto dell’agenda internazionale. In Siria la Russia è un attore pienamente in campo: papa Francesco trova dunque un alleato non neutrale. È pur vero che la missione della Chiesa è universale e come tale in grado di purificare anche il supporto più interessato. Ma la Russia è la Russia e a distanza di due anni dalla crisi ucraina che ha segnato l’isolamento del Cremlino e il ritorno a un clima di guerra fredda con sanzioni e contro-sanzioni e una effettiva guerra calda mai davvero conclusa nel Donbass, l’annuncio dell’incontro tra Francesco e Kirill è oggettivamente una clamorosa riapertura a Putin. Ed è ora lecito immaginare che ne seguiranno altre perché il fronte delle sanzioni si è largamente indebolito e le pressioni del mondo economico sui governi occidentali per la riapertura del mercato russo sono fortissime.
Ma il disegno di Putin è ancora più ambizioso, ed è quello di diventare un punto di riferimento per la cristianità, addirittura il difensore della cristianità per il mondo occidentale laddove questa è in crisi. Gli ambienti ultraconservatori francesi già lo considerano tale, una specie di araldo dell’onda antimodernista che si è espressa nelle «manif pour tous», le manifestazioni contro il matrimonio omosessuale. Un personaggio come Philippe de Villiers, ex sottosegretario di un governo Chirac dell’86, lui stesso candidato alle presidenziali, ma a lungo emblema di un «souveranisme» nostalgico e marginale ma vivo e oggi sostanzialmente collaterale al movimento della Le Pen, in un libro di memorie («Le moment est venu de dire ce que j’ai vu», ed. Albin Michel) uscito a fine anno ha raccontato il suo incontro in Crimea con Putin. Gli accenti sono colorati («Lo zar è tornato») ma la sostanza politica è impressionante. Scrive de Villiers: «Ormai la Russia liberata da tutte le ideologie rivoluzionarie assiste ai tentativi della Nato di asservire il mondo al modello americano… E se oggi le nazioni europee vogliono uscire dall’Europa che nega i valori cristiani devono rivolgersi al mondo ortodosso che resiste alla decadenza occidentale…». Non dimentichiamo che Putin è un cospicuo finanziatore di Marine Le Pen e di altri movimenti «populisti». Una strategia che non si sottrae a interventi anche mirati, com’è accaduto a dicembre quando il governo russo ha donato il grande abete natalizio che tradizionalmente viene allestito sul sagrato di Notre Dame: il rettore della cattedrale di Parigi aveva fatto sapere che la chiesa non aveva ricevuto abbastanza offerte per sostenere gli 80 mila euro necessari e in poche ore l’ambasciatore russo Alkeksandr Orlov ha provveduto. Un aneddoto non banale.
D’altra parte nella complessa ideologia putiniana la chiesa ortodossa ha un ruolo fondamentale per la ricostruzione del «mondo russo» disperso dalla scomparsa dell’Urss. Nel 2007, all’atto di riconciliazione tra il patriarcato di Mosca e la chiesa ortodossa russa fuori dalla Russia, Putin ha detto: «La rinascita dell’unità ecclesiale è una condizione essenziale per restaurare l’unità perduta di tutto il mondo russo». Nei riguardi dell’Europa gli accenti sono sempre irridenti: «declino economico e decadenza morale», bisogna aiutare l’Europa a restare fedele alle sue radici cristiane e ai suoi valori tradizionali. Altre ironie in un incontro con le agenzie di stampa a San Pietroburgo nel maggio 2014: «Ho più volte detto ai miei amici europei che se non prendono in conto l’umore delle loro popolazioni, il nazionalismo crescerà».
Kirill è a suo modo un personaggio speculare a Putin. Alla caduta dell’Urss era praticamente il vice di Aleksij II, un patriarca anziano ed immobile, un’iconostasi vivente. Pragmatico, poco diplomatico, uno dei primi ad usare il telefonino. Quando Wojtyla nel 1993 andò in Lituania, fece allestire l’altare della messa in direzione di Mosca e alla fine della celebrazione fece ad alta voce in russo un’invocazione dai toni mistici: «Rossìa-Rossìa», Russia-Russia fu il suo grido. Ma non ci fu risposta. Allora, in un’intervista a La Stampa, proprio Kirill escluse qualunque riavvicinamento con Roma: «Il risveglio dell’attività ecumenica è oggettivamente ostacolato dall’attività dei predicatori cattolici, soprattutto da quelli polacchi».
Tutto questo per dire che si tratta di una chiesa che nelle gerarchie vive all’ombra e in parallelo con il Cremlino, dove i piani di Putin non sono tanto per la riconciliazione ecclesiale, ma per una partita globale. Come quella di Francesco. E non sono la stessa partita.
Per il presidente russo l'insidia ora non viene più dalla fede del popolo o dalla Chiesa di Roma
MILLE anni fa, in quella stessa nuvola d'incenso che da allora galleggia davanti agli altari della Santa Russia, entrò Vladimir il Sole. Per lui che aveva sul capo la corona del principe guerriero avevano preparato la spada e il fuoco, come sempre. Ma per la prima volta chiese anche la croce. La portarono, e Vladimir il Bello chinò la testa per sottomettersi al Dio dei cristiani, lui che a Kiev aveva 800 donne, dieci figli e tutti gli idoli delle tribù riuniti sul colle davanti alle finestre del suo palazzo.
Quegli idoli, Volos e Stribog, Chors e Dazborg, che prima della cerimonia furono gettati su ordine del principe nelle acque del Dniepr, per ultimo Mokos, il dio dell'amore. Così il vescovo di Kherson potè alzare la mano per benedire la conversione e Vladimir divenne il Santo, battezzandosi con tutta la Rus' nel nome di Cristo, 6 mila 496 anni dopo la creazione del mondo. Solo la statua di Perùn terribile, dio del fulmine e del tuono, non voleva affondare nel fiume sacro e mentre la colpivano coi bastoni riaffiorava minacciosa con la sua testa d'argento e i baffi d'oro, profezia infallibile degli anni tremendi che il nuovo Dio avrebbe vissuto nelle Russie.
Tutto è cominciato così. Cercando non la fede più vera, ma la più bella del mondo, Vladimir aveva inviato in vari Paesi i suoi messaggeri che riferirono a lui, ai boiardi e agli anziani riuniti: i bulgari stavano nel tempio senza cintura, seduti, i tedeschi non avevano nulla di grandioso da mostrare nei loro templi mentre a Costantinopoli e in Grecia lo spettacolo delle chiese era incomparabile, e nelle funzioni il cielo sembrava aprirsi per scendere in terra. Così le tribù slave lungo il corso del Dnepr, in quella Rus' delle origini, si convertirono entrando nel fiume, alcuni fino al petto, altri fino al collo, e prese il via quella "sinfonia" tra verità e bellezza, ma soprattutto tra temporale e spirituale che segna tutta la storia dell'ortodossia russa.
Mille anni dopo, esattamente il 20 aprile del 1988, la Russia che era diventata Unione Sovietica celebrò solennemente il Millennio, e per la prima volta il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie entrò al Cremlino insieme con i cinque metropoliti del Santo Sinodo, per essere ricevuto dal Segretario Generale del Pcus. Mikhail Gorbaciov riconosceva così che i credenti erano cittadini a pieno titolo, col diritto di professare la loro fede per cui erano stati perseguitati nei decenni del comunismo di Stato. Pimen il Patriarca ringraziò, ricordando che la Chiesa russa "aveva sempre lavorato per l'unità della nostra patria" e chiedendo la benedizione di Dio "per voi e per lo sforzo della perestrojka".
Non era certo la prima volta che la Chiesa russa invocava il suo Dio a sostegno del potere sovietico, fin da quando il Patriarca Alessio chiamò alla preghiera tutti i credenti in favore di Stalin ammalato, e dopo la morte organizzò una veglia religiosa in sua memoria. Ma la capacità di subordinarsi ai riti sovietici, col clero appesantito dalle medaglie all'Ordine della Bandiera Rossa, le invocazioni liturgiche di fiancheggiamento alle politiche dell'Urss mascherate dalle invocazioni per la "pace" e il "disarmo", non bastarono ad evitare la furia delle campagne antireligiose, anche negli anni dell'apparente disgelo, come quelli di Kruscev.
La vecchia Chiesa nata a Kiev con Vladimir, piegata già al potere dello Stato fin da Pietro il Grande, nell'Ottobre del 1917 contava 80 mila parrocchie con chiese e cappelle. Nel 1964 scendono a 10 mila, per arrivare due anni dopo a 7.500. In parallelo, crolla il numero dei preti, 30 mila nel 1959, appena 15 mila nel 1962. È l'anno in cui Kruscev profetizza lo sradicamento definitivo della religione entro due decenni, e fornisce anche la prova materiale del cielo vuoto di ogni divinità: "Avevamo sempre sentito i preti parlare del paradiso. Decidemmo dunque di rendercene conto noi stessi, mandando Gagarin e Titov nello spazio. Ebbene, non c'era niente lassù in alto".
Sulla terra, c'era l'anima russa insopprimibile, e di questa aveva confusamente paura il potere del Cremlino. Una religiosità per i lunghi decenni del sovietismo conservata nella cultura popolare, quella che spinge le donne anziane ad aspettare il pope in fondo alla chiesa per baciargli la mano, a mettersi in fila per lasciare al banco delle grazie il foglietto con la domanda d'intercessione, a tirar fuori dalle borse i mandarini sovietici e le uova per adornare i kulici, i dolci pasquali da benedire, ad accendere nel monastero Danilovski quei ceri rossi che costavano cinquanta copechi e che come ricorda Bulgakov non devono illuminare, ma solo ardere. Un popolo che porta nel cuore Dio e dunque basta salvaguardare il suo cuore, educandolo anche in silenzio, come garantiva Dostoevskij.
E nel silenzio materiale, fisico, pezzi di chiesa sono vissuti fino alla fine dell'impero, accettando quel taglio di radici sociali che porta la Chiesa a nutrirsi della sua sola tradizione, trasformandosi nell'icona di se stessa. L'ortodossia sperimentava nello splendore dei suoi riti l'equilibrio misterioso tra tradizione e la sottomissione, tra i fedeli e i sudditi, tra il Supremo e il Segretario Generale. Subiva le persecuzioni, vedeva circolare i 336 fascicoli di propaganda ateistica in 6 milioni di copie, contava 600 mila conferenze antireligiose in un solo anno, ma conservava la presenza della croce, come disse La Pira dopo aver visto i popi nelle chiese del 1959 a Mosca: "Se loro non tengono la candelina accesa adesso, quando una nuova generazione si accosterà dove andrà ad accendere il fuoco?".
Ma il Dio delle Russie non è arrivato soltanto dal Sud del mondo con l'ortodossia. C'è il Dio della Prima Roma, che ha vissuto di stenti nella Terza Roma, cioè Mosca. Bastava cercare la chiesa di San Luigi, parrocchia della capitale russa, ancora negli anni Ottanta per scoprire la sua vita irreale e fantasmatica: il sacrestano Ghenrich che come un uomo di catacomba accende il suo fiammifero ogni mattina alle 5,30 per chinarsi sul lucchetto e aprire il cancello della chiesa, il vecchio parroco Stanislao Mazhenka che scende dal filobus dieci minuti dopo e arriva a piedi portando in una cartella da scuola una tonaca antica come i suoi ottant'anni, le vecchie che sbucano ad una ad una dai loro sentieri misteriosi di fede. Poi alle 9,30 il lucchetto chiudeva di nuovo il cancello, fino al giorno dopo, perché la parrocchia di Mosca viveva quattro ore al giorno tra l'alba e il mattino e quando nevicava e tutti i segni sparivano nel cortile e sui gradini, sembrava che dentro la chiesa (in una città di dieci milioni di anime sovietiche) non fosse entrato nessuno da decenni.
Il punto più critico dei rapporti tra la Chiesa di Russia e la Chiesa di Roma era naturalmente quello degli uniati, i cattolici orientali che riconoscono l'autorità papale conservando il rito bizantino in Galizia, dove l'impero sovietico iniziava, o forse finiva. Quando Gorbaciov nel 1998 ha restituito agli uniati la cattedrale confiscata da Stalin, il vescovo di Leopoli, Andrei Sterniuk, non aveva nemmeno un semplice abito da prete per celebrare la funzione. Dal 1946, quando duemila sacerdoti furono arrestati di notte, settecento diventarono popi ortodossi e tutte le parrocchie dell'Unia furono decapitate, senza guida, non aveva più detto messa in una chiesa: il prete che era in lui - redemptorista - aveva dovuto mimetizzarsi in bibliotecario, boscaiolo, guardia forestale, ragioniere, autista di ambulanza, infermiere, assistente medico, dicendo messa di notte sulle pietre dei boschi. Il Kgb lo scoprì e lo mandò nel lager di Arkangheslshkoe, tra le foreste, perché prete di una chiesa che non doveva più esistere: in prigione diceva messa con un acino d'uva messo a fermentare tra la calce di una fessura nel muro, con una crosta di pane. Quando deve finalmente riprendere possesso della cattedrale, un monsignore canadese si sfila l'abito e glielo impresta, accorciandolo con gli spilli. Così a 83 anni padre Sterniuk si è vestito per la prima volta da prete e da vescovo insieme, per potersi inginocchiare finalmente alla luce del giorno davanti ad un altare vero della sua chiesa.
È stato un cristianesimo vero e insieme irreale, una sorta di prigionia babilonese, per una Chiesa stremata e insieme paradossalmente quasi appagata dal miracolo incomprensibile della sua sopravvivenza. Negli ultimi anni sovietici, gli anni del disfacimento, i fedeli sono aumentati, ma è aumentata anche la superstizione, il culto televisivo dei maghi, dei taumaturghi e dei prodigi, mentre le madonne sono comparse sui muri delle chiese chiuse d'Ucraina, circondate sempre da una forte chiarore, come nelle icone senza ombra. Era il segno della fine. Mosca oggi è una città libera per ogni fede ma convertita soltanto al consumo, dove resta immutabile, perfetto, il patto d'alleanza tra la chiesa ortodossa e il potere, tra le cupole dei monasteri e le torri del Cremlino, chiunque lo abiti.
Per Putin, l'insidia non viene più
dalla fede del popolo che faceva tremare il Politbjuro, e nemmeno dalla Chiesa di Roma. Viene dalla profezia nascosta in quella lettera dell'ayatollah Khomeini all'ultimo Segretario Generale del Pcus: Eccellenza, è chiaro come il cristallo che l'Islam erediterà le Russie.
Quegli idoli, Volos e Stribog, Chors e Dazborg, che prima della cerimonia furono gettati su ordine del principe nelle acque del Dniepr, per ultimo Mokos, il dio dell'amore. Così il vescovo di Kherson potè alzare la mano per benedire la conversione e Vladimir divenne il Santo, battezzandosi con tutta la Rus' nel nome di Cristo, 6 mila 496 anni dopo la creazione del mondo. Solo la statua di Perùn terribile, dio del fulmine e del tuono, non voleva affondare nel fiume sacro e mentre la colpivano coi bastoni riaffiorava minacciosa con la sua testa d'argento e i baffi d'oro, profezia infallibile degli anni tremendi che il nuovo Dio avrebbe vissuto nelle Russie.
Tutto è cominciato così. Cercando non la fede più vera, ma la più bella del mondo, Vladimir aveva inviato in vari Paesi i suoi messaggeri che riferirono a lui, ai boiardi e agli anziani riuniti: i bulgari stavano nel tempio senza cintura, seduti, i tedeschi non avevano nulla di grandioso da mostrare nei loro templi mentre a Costantinopoli e in Grecia lo spettacolo delle chiese era incomparabile, e nelle funzioni il cielo sembrava aprirsi per scendere in terra. Così le tribù slave lungo il corso del Dnepr, in quella Rus' delle origini, si convertirono entrando nel fiume, alcuni fino al petto, altri fino al collo, e prese il via quella "sinfonia" tra verità e bellezza, ma soprattutto tra temporale e spirituale che segna tutta la storia dell'ortodossia russa.
Mille anni dopo, esattamente il 20 aprile del 1988, la Russia che era diventata Unione Sovietica celebrò solennemente il Millennio, e per la prima volta il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie entrò al Cremlino insieme con i cinque metropoliti del Santo Sinodo, per essere ricevuto dal Segretario Generale del Pcus. Mikhail Gorbaciov riconosceva così che i credenti erano cittadini a pieno titolo, col diritto di professare la loro fede per cui erano stati perseguitati nei decenni del comunismo di Stato. Pimen il Patriarca ringraziò, ricordando che la Chiesa russa "aveva sempre lavorato per l'unità della nostra patria" e chiedendo la benedizione di Dio "per voi e per lo sforzo della perestrojka".
Non era certo la prima volta che la Chiesa russa invocava il suo Dio a sostegno del potere sovietico, fin da quando il Patriarca Alessio chiamò alla preghiera tutti i credenti in favore di Stalin ammalato, e dopo la morte organizzò una veglia religiosa in sua memoria. Ma la capacità di subordinarsi ai riti sovietici, col clero appesantito dalle medaglie all'Ordine della Bandiera Rossa, le invocazioni liturgiche di fiancheggiamento alle politiche dell'Urss mascherate dalle invocazioni per la "pace" e il "disarmo", non bastarono ad evitare la furia delle campagne antireligiose, anche negli anni dell'apparente disgelo, come quelli di Kruscev.
La vecchia Chiesa nata a Kiev con Vladimir, piegata già al potere dello Stato fin da Pietro il Grande, nell'Ottobre del 1917 contava 80 mila parrocchie con chiese e cappelle. Nel 1964 scendono a 10 mila, per arrivare due anni dopo a 7.500. In parallelo, crolla il numero dei preti, 30 mila nel 1959, appena 15 mila nel 1962. È l'anno in cui Kruscev profetizza lo sradicamento definitivo della religione entro due decenni, e fornisce anche la prova materiale del cielo vuoto di ogni divinità: "Avevamo sempre sentito i preti parlare del paradiso. Decidemmo dunque di rendercene conto noi stessi, mandando Gagarin e Titov nello spazio. Ebbene, non c'era niente lassù in alto".
Sulla terra, c'era l'anima russa insopprimibile, e di questa aveva confusamente paura il potere del Cremlino. Una religiosità per i lunghi decenni del sovietismo conservata nella cultura popolare, quella che spinge le donne anziane ad aspettare il pope in fondo alla chiesa per baciargli la mano, a mettersi in fila per lasciare al banco delle grazie il foglietto con la domanda d'intercessione, a tirar fuori dalle borse i mandarini sovietici e le uova per adornare i kulici, i dolci pasquali da benedire, ad accendere nel monastero Danilovski quei ceri rossi che costavano cinquanta copechi e che come ricorda Bulgakov non devono illuminare, ma solo ardere. Un popolo che porta nel cuore Dio e dunque basta salvaguardare il suo cuore, educandolo anche in silenzio, come garantiva Dostoevskij.
E nel silenzio materiale, fisico, pezzi di chiesa sono vissuti fino alla fine dell'impero, accettando quel taglio di radici sociali che porta la Chiesa a nutrirsi della sua sola tradizione, trasformandosi nell'icona di se stessa. L'ortodossia sperimentava nello splendore dei suoi riti l'equilibrio misterioso tra tradizione e la sottomissione, tra i fedeli e i sudditi, tra il Supremo e il Segretario Generale. Subiva le persecuzioni, vedeva circolare i 336 fascicoli di propaganda ateistica in 6 milioni di copie, contava 600 mila conferenze antireligiose in un solo anno, ma conservava la presenza della croce, come disse La Pira dopo aver visto i popi nelle chiese del 1959 a Mosca: "Se loro non tengono la candelina accesa adesso, quando una nuova generazione si accosterà dove andrà ad accendere il fuoco?".
Ma il Dio delle Russie non è arrivato soltanto dal Sud del mondo con l'ortodossia. C'è il Dio della Prima Roma, che ha vissuto di stenti nella Terza Roma, cioè Mosca. Bastava cercare la chiesa di San Luigi, parrocchia della capitale russa, ancora negli anni Ottanta per scoprire la sua vita irreale e fantasmatica: il sacrestano Ghenrich che come un uomo di catacomba accende il suo fiammifero ogni mattina alle 5,30 per chinarsi sul lucchetto e aprire il cancello della chiesa, il vecchio parroco Stanislao Mazhenka che scende dal filobus dieci minuti dopo e arriva a piedi portando in una cartella da scuola una tonaca antica come i suoi ottant'anni, le vecchie che sbucano ad una ad una dai loro sentieri misteriosi di fede. Poi alle 9,30 il lucchetto chiudeva di nuovo il cancello, fino al giorno dopo, perché la parrocchia di Mosca viveva quattro ore al giorno tra l'alba e il mattino e quando nevicava e tutti i segni sparivano nel cortile e sui gradini, sembrava che dentro la chiesa (in una città di dieci milioni di anime sovietiche) non fosse entrato nessuno da decenni.
Il punto più critico dei rapporti tra la Chiesa di Russia e la Chiesa di Roma era naturalmente quello degli uniati, i cattolici orientali che riconoscono l'autorità papale conservando il rito bizantino in Galizia, dove l'impero sovietico iniziava, o forse finiva. Quando Gorbaciov nel 1998 ha restituito agli uniati la cattedrale confiscata da Stalin, il vescovo di Leopoli, Andrei Sterniuk, non aveva nemmeno un semplice abito da prete per celebrare la funzione. Dal 1946, quando duemila sacerdoti furono arrestati di notte, settecento diventarono popi ortodossi e tutte le parrocchie dell'Unia furono decapitate, senza guida, non aveva più detto messa in una chiesa: il prete che era in lui - redemptorista - aveva dovuto mimetizzarsi in bibliotecario, boscaiolo, guardia forestale, ragioniere, autista di ambulanza, infermiere, assistente medico, dicendo messa di notte sulle pietre dei boschi. Il Kgb lo scoprì e lo mandò nel lager di Arkangheslshkoe, tra le foreste, perché prete di una chiesa che non doveva più esistere: in prigione diceva messa con un acino d'uva messo a fermentare tra la calce di una fessura nel muro, con una crosta di pane. Quando deve finalmente riprendere possesso della cattedrale, un monsignore canadese si sfila l'abito e glielo impresta, accorciandolo con gli spilli. Così a 83 anni padre Sterniuk si è vestito per la prima volta da prete e da vescovo insieme, per potersi inginocchiare finalmente alla luce del giorno davanti ad un altare vero della sua chiesa.
È stato un cristianesimo vero e insieme irreale, una sorta di prigionia babilonese, per una Chiesa stremata e insieme paradossalmente quasi appagata dal miracolo incomprensibile della sua sopravvivenza. Negli ultimi anni sovietici, gli anni del disfacimento, i fedeli sono aumentati, ma è aumentata anche la superstizione, il culto televisivo dei maghi, dei taumaturghi e dei prodigi, mentre le madonne sono comparse sui muri delle chiese chiuse d'Ucraina, circondate sempre da una forte chiarore, come nelle icone senza ombra. Era il segno della fine. Mosca oggi è una città libera per ogni fede ma convertita soltanto al consumo, dove resta immutabile, perfetto, il patto d'alleanza tra la chiesa ortodossa e il potere, tra le cupole dei monasteri e le torri del Cremlino, chiunque lo abiti.
Per Putin, l'insidia non viene più
http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/06/news/la_profezia_di_vladimir-132817889/
Francesco e Cirillo, quando il sacro detta la via per il dialogo
Il 12 febbraio Papa Francesco incontrerà a L'Avana il patriarca moscovita Kirill. Un avvenimento storico che segna l'ennesimo successo della geopolitica vaticana.
DI ANDREA MURATORE - 6 FEBBRAIO 2016
Il 12 febbraio, dopo che sulla pista d’atterraggio dell’aeroporto intercontinentale di L’Avana avrà rullato il velivolo sul quale viaggerà Papa Francesco, andrà in scena un dialogo atteso da quasi sei secoli. Ad attendere il Pontefice, infatti, vi sarà il patriarca della Chiesa ortodossa russa, Cirillo, guida spirituale di oltre 150 milioni di fedeli viventi in tutto il territorio del vecchio Impero zarista. Per la prima volta da quando, nel 1448, il patriarcato di Mosca optò per l’autocefalia, disconoscendo l’autorità spirituale del Papa di Roma a seguito del rifiuto delle deliberazioni del Concilio di Firenze, le due principali guide della cristianità si incontreranno a tu per tu per un dialogo di due ore, al termine del quale sarà siglata una dichiarazione condivisa. L’importanza di questo annunciato incontro è capitale. Esso giunge a coronamento del processo ecumenico condotto dall’ex arcivescovo di Buenos Aires nel corso dei suoi primi tre anni di pontificato, durante il quale Bergoglio si è speso in prima persona per mantenere un contatto costante e proficuo con le altre Chiese autocefale e le altre grandi religioni monoteistiche. Il dialogo tra Francesco e Cirillo, infatti, è la punta dell’iceberg di un processo lungo e meditato, durante il quale Francesco ha interpretato alla perfezione la definizione letterale del suo titolo, riuscendo a gettare solidi ponti verso le altre sponde della cristianità.
La forza del Sacro, del resto, è anche questa: la sua capacità di contribuire alla costruzione di un substrato comune e solido, base per il consolidamento di relazioni proficue, nel momento in cui gli interlocutori riconoscono le loro comunanze prima ancora delle loro differenze. Francesco e Cirillo sono riusciti in questo obiettivo: hanno rafforzato le similitudini e composto le divergenze, pur notevoli, riscontrabili tra le due confessioni, facendo leva su quanto avrebbe potuto portare a risultati favorevoli nel dialogo tra Roma e Mosca, ragionando su questioni dottrinarie ma, con minuziosa attenzione, anche su temi concreti, alcuni dei quali decisamente scottanti: dalla crisi ucraina, ai cristiani perseguitati in Medio Oriente, dalla difesa dell’ambiente alla pace, al dialogo fra i popoli, le religioni, le nazioni, infatti, la convergenza tra i due dialoganti è multilivello. L’equità dimostrata da Francesco nel prendere posizione riguardo tematiche importantissime per i fedeli e il clero ortodosso, come la spinosa questione del conflitto ucraino che ha portato all’emersione di una grave frattura interna al mondo della “cristianità orientale”, ha portato per il Papa il conseguimento di un credito di stima senza precedente per un Pontefice romano nel mondo della Chiesa ortodossa.
Nemmeno un grande comunicatore come Giovanni Paolo II, che pure ha gettato le fondamenta più profonde per l’incontro del 12 febbraio con gli accenti fortemente ecumenici assunti dal suo pontificato, era mai giunto a un passo simile. Questo anche perché il Patriarcato di Mosca, dopo aver visto la sua opera pastorale repressa per decenni durante il periodo sovietico, in seguito alla dissoluzione dell’URSS aveva vissuto una lunga e delicata fase di ristrutturazione e riorganizzazione. Essa fu sapientemente condotta dal patriarca Alessio II, predecessore di Cirillo, che solo negli ultimi anni si era maggiormente rivolto alla questione del dialogo tra le Chiese, essendo stato per lunghi anni la sua attenzione assorbita dall’immane lavoro riguardante la situazione particolare russa. Tale compito sarebbe risultato impossibile se, durante tutto il periodo comunista, non fosse sopravvissuto nell’animo russo un forte senso del Sacro, un’omnipervasività della sfera religiosa nell’ambito della vita dei cittadini, cosa che ha favorito il rinvigorimento del Patriarcato di Mosca. Allo stato attuale, la Chiesa ortodossa autocefala di Mosca gode di piena salute, ed è una dei pilastri principali su cui si fonda la società della rediviva Russia, oramai affermato attore della dialettica multipolare, avendo inoltre stabilito una notevole sincronia di fondo col governo Putin, da sempre attento a dialogare con la principale istituzione religiosa russa. Uno splendido articolo scritto da Pietrangelo Buttafuoco per “Il Fatto Quotidiano” nello scorso mese di agosto rende alla perfezione l’idea della rinnovata forza della Chiesa ortodossa russa, arrivata alla situazione (impensabile per le altre confessioni) di ritrovare i propri seminari impossibilitati a ricevere ulteriori iscrizioni, testimonianza della sincerità del risveglio spirituale vissuto dal popolo russo.
L’interconnessione tra il Patriarcato e le autorità temporali della Federazione Russa aggiungono ulteriore significatività all’imminente incontro. Il ponte gettato tra Santa Sede e Patriarcato di Mosca è un esempio per tutto il mondo delle relazioni internazionali: il Vaticano antepone ora in maniera assoluta il suo ruolo ecumenico di rappresentante globale del cattolicesimo a quello particolare, ma molto a lungo ritenuto preminente in seno alla Curia, di garante di una versione occidentalista della fede cattolica. Papa Francesco ha, col suo operato, rafforzato il sistema multipolare venutosi a creare dimostrando una chiara visione della realtà e un forte pragmatismo nell’adattare la Chiesa di Roma al “segno dei tempi” anche nel campo della diplomazia, nel quale una Santa Sede attiva e propositiva si è dimostrata più volte negli ultimi decenni capace di un’influenza importante a livello globale. E l’incontro tra Francesco e Cirillo è sintomatico di questo rinnovato spirito: esso rappresenta la possibilità di giungere a un dialogo tra cristianità orientale ed occidentale, dunque a un sistema di relazioni stabili tra la Russia e l’Occidente, superando le visioni relativiste secondo le quali una qualsiasi conciliazione tra due sistemi definiti antitetici sarebbe impossibile, ma anche molto di più, proprio perché come detto le dimensioni della Chiesa di Bergoglio sono decisamente superiori a quelle ristrette entro cui la costringeva la prospettiva occidentalista. Il dialogo che andrà in scena all’aeroporto di L’Avana ribadisce infatti l’importanza del “Dialogo” in senso generale, della cooperazione attiva di “tutti gli uomini di buona volontà” (per citare le parole dell’enciclica Pacem in Terris di San Giovanni XXIII) per giungere a una risoluzione dei grandi problemi che affliggono l’umanità. Un Dialogo che non esclude alcun interlocutore per ragioni di nazionalità, visione politica o religione, in cui nessuno delle parti in causa si arroga la convinzione di stare dal lato giusto della Storia. Un Dialogo in nome del quale Francesco si è già speso attivamente, non trascurando nella sua azione ad ampio raggio nessuna delle questioni più scottanti.
Il Vaticano ha accolto il presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, con cui Francesco si è personalmente intrattenuto, ha avviato le negoziazioni per l’apertura di un canale diplomatico con la Cina, si è fatto portavoce della difesa degli ecosistemi e di una più giusta ripartizione delle risorse naturali attraverso l’enciclica Laudato si, ha favorito e apertamente sponsorizzato la riconciliazione tra USA e Cuba. Proprio Cuba assurge a teatro dello storico incontro, e non poteva essere altrimenti: l’isla bonita è in qualche modo simbolo della modernità dell’azione di Bergoglio, che ha messo in moto la diplomazia vaticana per appianare una contrapposizione antistorica quale era divenuta quella tra Washington e L’Avana e portare all’annullamento di sanzioni divenute oramai obsolete e assurde, e che è stata scelta dal Papa venuto “dalla fine del mondo” come base operativa per diffondere la sua azione di dialogo nel continente latinoamericano, e anche oltre. Cuba si apre al mondo, il mondo si apre a Cuba sulla scia tracciata dal Papa che prende il nome dal Santo di Assisi, il Santo del Dialogo, colui che conversando col Sultano d’Egitto non ebbe problemi, in un contesto d’endemica intolleranza religiosa, a rispettare la visione del mondo che animava il suo interlocutore. Il precetto sul quale, nella celebre versione del dialogo narrata da Tiziano Terzani nelle sue “Lettere contro la guerra”, Francesco e il Sultano si trovano concordi è lo stesso in nome del quale Francesco porta avanti la sua diplomazia fortemente ispirata da uno spiccato senso del Sacro: “ama il prossimo tuo come te stesso”. Analoghe intenzioni animano sicuramente anche il patriarca Cirillo, ed è bello vedere al dialogo che andrà in scena venerdì a L’Avana come a una grande vittoria di questa regola universale, che assume proporzione maggiore in un mondo che ha visto gli uomini violarla fin troppe volte negli ultimi, turbolenti decenni.
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