MISTICISMO E FINE CRISTIANESIMO
Se perde la componente mistica il cristianesimo è finito. Ma quanto è stato importante e quanto lo è tuttora nello sviluppo storico del cristianesimo? Oggi la ragione assolutizzata è divenuta una forma di totalitarismo intellettuale
di F.Lamendola
Se una religione perde la propria componente mistica, per essa è arrivata la fine: non sopravvivrà, in quanto religione, ma, al massimo, in quanto vuoto simulacro che esprime e tramanda contenuti di ordine essenzialmente non religioso: sociali, politici, culturali, perfino igienico-sanitari, o giuridici, ma non più autenticamente religiosi.
Questo assunto vale anche per il cristianesimo, anzi, per il cristianesimo più che per qualsiasi altra religione. Esso è la sola religione ad essere riuscita a tener insieme, per duemila anni, la dimensione orizzontale – l’apostolato, la missione, la testimonianza, le opere pie – e la dimensione verticale della fede – la teologia, la lectio divina, il misticismo, l’ascetismo -, in un equilibri talvolta instabile e precario, ma quasi sempre efficace e maturo.
Nel cristianesimo, infatti, le istanze orizzontali e quelle verticali sono entrambe presenti ed entrambe necessarie: la fede senza le opere è morta, ma anche le opere senza la fede non hanno più un significato religioso. A seconda dei contesti e delle situazioni storiche, è parso prevalere ora l’una, ora l’altra tendenza; tuttavia, la verità è che esse si sono sostenute a vicenda, poiché dalla loro sintesi, o, quanto meno, dalla loro compresenza e della loro collaborazione, discende il cristianesimo così come lo conosciamo, come esso si è definito, lentamente e progressivamente, nel corso dei secoli.
Nel lungo periodo medievale, in genere, è stato il misticismo a improntare di sé ogni altro aspetto della dimensione religiosa: il misticismo non negava lo studio razionale delle cose divine, e neppure svalutava l’operare fattivo nel mondo, però conferiva la priorità alla dimensione dell’incontro diretto, personale, immediato dell’uomo con Dio, attraverso una serie di tecniche, di pratiche, di esercizi, e, soprattutto, mediante uno stile di vita ascetico o addirittura eremitico (come per la famosa Tebaide), improntato alla ricerca della solitudine, della povertà, del distacco da ogni forma di lusinga terrena. Il misticismo era l’abito preferito dei monaci, degli asceti, degli eremiti; ma, in un certo senso, esso permeava tutta la Chiesa, anche nei suoi esponenti più mondani, i quali, se non altro, ne riconoscevano tutto il valore e, pur se sapevano di essere lontani da un simile modello, non osavano però metterne in dubbio l’importanza, anzi la necessità, per la sopravvivenza della Chiesa e per la salvezza delle anime, sia dei religiosi che dei laici.
Poi, a partire dall’avvento della modernità, vale a dire dal XVII secolo, e sempre più nel corso degli ultimi quattro secoli, il cristianesimo ha visto il graduale, ma sempre più netto, prevalere delle componenti improntate ad una religiosità prevalentemente orizzontale, aperta al sociale, sollecita del dialogo con il mondo e interessata a tutto ciò che attiene al secolo; fino al punto di pensare al sacerdozio secolare come alla forma “logica” e “normale” della vita consacrata, e a considerare l’ingresso in un ordine religioso regolare come una sorta di eccezione, di particolarità, se non proprio di bizzarria. In altre parole, nell’età moderna vi è stata una perdita di prestigio del modello di vita cristiana rappresentato dal monaco e dalla monaca, specialmente se di clausura, e ciò per l’ingresso, anche nella cultura cristiana, dei concetti provenienti dall’illuminismo, dal laicismo, dal giurisdizionalismo, secondo i quali la vita in convento è innaturale e malsana, e, inoltre, non reca alcun conforto, non è di alcuna utilità, esprime solo l’egoistica ricerca di “tranquillità” di quanti hanno deciso di fuggire dal mondo, e che rappresentano, pertanto, un inutile fardello per la società, un elemento economicamente improduttivo che, per la sua stessa esistenza, sottrae alla società delle energie che avrebbero potuto essere ben più utili, se fossero rimaste nel mondo.
All’origine di questa perdita di credibilità e di prestigio, di questo disincanto nei confronti del modello della vita monastica, vi è la diffusione di un modo di pensare utilitarista, pragmatico, tendenzialmente o esplicitamente materialista, secondo il quale solo le opere contano e sono benefiche per l’umanità, mentre il raccoglimento, la preghiera, la contemplazione, l’ascesi, non hanno alcun valore per gli altri e si traducono, di fatto, in una forma di alienazione anche per coloro i quali vi si dedicano. La preghiera stessa, il digiuno, la ricerca della solitudine, il dialogo interiore con Dio, tutto questo incomincia a non essere più al centro della prospettiva di moltissimi cristiani e persino di molti teologi e uomini di Chiesa. A partire dagli inizi del XX secolo, poi, la tendenza si accentua; cresce la diffidenza verso gli ordini contemplativi, verso la dimensione contemplativa, verso la religione vissuta come silenzio, come nascondimento, come ricerca della perfezione fuori dal mondo; si rafforzano, invece, le posizioni di quanti vedono il futuro della cristianità, e della Chiesa stessa, in una collaborazione sempre più stretta con il mondo, in un impegno sociale sempre più forte, in un coinvolgimento mondano sempre più significativo.
Ma quanto è stato importante, il misticismo, e quanto lo è tuttora, nello sviluppo storico del cristianesimo? Per farsene una idea esatta, bisogna ritornare alla sua epoca d’oro, cioè al Medioevo, quando le figure dei grandi mistici rappresentavano dei modelli di vita così ammirati, con un tale potere di suscitare entusiasmi e vocazioni, specialmente fra i giovani, da imprimere un particolare orientamento all’intera cristianità, compresi, e sia pure indirettamente, gli ambienti più lontani che sia dato immaginare, come quelli delle corti e dei castelli, o come quelli della mercatura e degli affari, o, ancora, dei cavalieri, dei nobili senza terra e senza denaro, ma ricchi di ambizioni, di sogni, di virtù guerriere, di spirito d’avventura; e, alla fine, delle stesse aule universitarie, ove si insegnava la regina delle scienze, ossia la teologia.
Tra i grandi pensatori medievali spicca il francescano san Bonaventura (nato a Bagnoregio, presso Viterbo, fra il 1217 e il 1221, e morto a Lione il 15 luglio 1274), che fu, nello stesso tempo, anche un grande mistico, e, soprattutto, l’autore di un trattato di spiritualità che ebbe un’importanza fondamentale nel XIII secolo, come pure nei secoli successivi: l’Itinerarium mentis in Deum, dal quale ci piace riportare alcun passaggi particolarmente significativi (G. Ferroni, Storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2002, e Milano, Mondadori, 2006, vol. 1, pp. 202-205, traduzione dal latino di D. Scaramuzzi):
Beato l’uomo, o Signore, che da te riceve aiuto: egli ha disposto nel suo cuore le ascensioni, nella valle di lacrime, nel luogo che egli ha fissato.
La beatitudine non è che il godimento del Sommo Bene. Il Sommo Bene è al di sopra di noi. Nessuno, quindi, può essere beato se non elevandosi al di sopra di se stesso, non già col corpo ma col cuore. Ma non possiamo elevarci al di sopra di noi stessi senza una virtù superiore. Qualunque siano le nostre disposizioni interiori, a nulla valgono senza un soccorso dall’alto. E questo è dato solo a coloro che lo chiedono di tutto cuore, umilmente, e con devozione, a coloro, cioè, che si rivolgono a Dio, in questa valle di lacrime, con ardente preghiera. La preghiera è, dunque, il principio e la sorgente della nostra elevazione a Dio. Difatti Dionigi, nel libro “La mistica teologia”, volendo istruire sui rapimenti dell’anima, pone, innanzi tutto, la preghiera.
Preghiamo, dunque, e diciamo al Signore: Conducimi, o Signore, nella tua via, e io camminerò nella tua verità. Si rallegri il mio cuore nel temere il tuo nome.
Pregando così, la nostra mente s’illumina per conoscere i diversi gradi della nostra ascesa a Dio. Nella presente condizione, della nostra natura, l’universo è la scala per salire a Lui. Fra gli esseri creati, intanto, alcuni sono il VESTIGIO del Creatore, altri ne sono l’IMMAGINE; alcuni sono materiali, altri spirituali, alcuni temporali, altri immortali; e quindi, alcuni dentro, altri fuori di noi.
Per arrivare alla considerazione del Primo Principio, essenzialmente spirituale, eterno e al di sopra di noi, è necessario passare prima per il vestigio o l’orma che è materiale, temporale ed esterna. Questo significa mettersi nella via di Dio.
Bisogna, inoltre, che noi entriamo nella nostra mente, che è l’immagine di Dio, immortale, spirituale, e dentro di noi. Questo significa entrare nella verità di Dio. È necessario, infime, che noi ci eleviamo sino all’Essere eterno, spiritualissimo e trascendete, mirando al Primo Princpio. Questo è allietarsi nella conoscenza di Dio e nel rispetto della sua maestà.
È questo il viaggio dei tre giorni nella soluti dine. (Cfr. Esodo, 3, 18 e 5,3). Questo è il triplice splendore di un sol, giorno, di cui il primo può essere paragonato al vespro, il secondo al mattino, il terzo al meriggio. Questo ancora rappresenta la triplice esistenza delle cose: nella materia,l cioè, nella nostra intelligenza e nel’arte divina, secondo si legge nella Sacra Scrittura: Sia fatto, fece, fu fatto (cfr. Genesi, 1, 3 ss.). E questo ha pure rapporto alla triplice sostanza di Cristo, nostra vera scala: al suo corpo, cioè, alla sua anima e alla sua divinità.
Secondo questa triplice maniera di elevarci a Dio, la nostra mente ha tre visioni principali: l’una sulle cose esteriori, per cui chiamasi animalità, sensualità; l’altra su se stessa e dentro se stessa, e si chiama perciò spirito; la terza al di sopra di sé e dicesi mente. Queste tre facoltà devono servirci per elevarci a Dio, per amarlo con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutta l’anima, nel che consiste l’osservanza perfetta della legge e tutta la sapienza cristiana.
Ma siccome ciascuno dei prefetti modi è duplice, secondo che consideriamo Dio come alfa e omega (Apocalisse, 1, 8), come principio e fine di tutto; secondo che lo contempliamo in ciascuno di essi come per mezzo di uno specchio, o dentro di uno specchio; secondo, infine, che consideriamo ciascun grado in se stesso, separatamente, o nel suo rapporto a un altro, è necessario portare al numero di sei i gradi della nostra elevazione a Dio. Di guisa che, come Dio ha creato l’universo in sei giorni e il settimo si riposò,così il piccolo mondo, l’uomo, vien condotto, con ordine perfettissimo, al riposo della contemplazione, passando per i sei gradi dell’illuminazione progressiva.
Questi sei gradi sono simboleggiati nella Sacra Scrittura: per sei gradini si saliva al trono di Salomone; i Serafini che videro il trono di Isaia erano sei; Dio chiamò Mosè dalla caligine dopo sei giorni; similmente Cristo, dopo sei giorni, condusse i suoi discepoli sul monte e si trasfigurò alla loro presenza (cfr. Libro dei Re, 10, 19; Isaia, 6, 2; Esodo, 24, 16; Matteo, 17, 1-2).
A questi sei gradi dell’elevazione a Dio corrispondono le sei potenze del’anima, onde noi saliamo dalle cose inferiori alle superiori, dalle esterne alle interne, dalle temporali alle eterne, cioè: i sensi, l’immaginazione, la ragione, l’intelletto, l’intelligenza e la coscienza.
Queste facoltà, formate in noi dalla natura, deformate dalla colpa, riformate o restaurate dalla grazia, devono essere purificate conforme a giustizia, esercitate con la scienza, perfezionate con la sapienza.
In questa pagina ispirata, san Bonaventura ci ricorda che tutto viene da Dio e tutto a Dio ritorna; che egli è l’Afa e l’Omega di ogni cosa e di ciascun ente; e che non vi è altro bene effettivo al di fuori di Lui, per cui, come già aveva detto s. Agostino, la nostra vita gira a vuoto e la nostra anima vaga inquieta e assetata fino a quando non riconosciamo e non troviamo in Lui tutte le risposte e ogni perfetto appagamento alla nostra brama di assoluto. Queste cose, per l’uomo medievale, erano chiarissime, e anche la persona più incolta, ascoltando la predicazione dei francescani o dei domenicani, osservando l’indefessa laboriosità materiale e spirituale dei benedettini, o l’infaticabile slancio architettonico e devozionale dei cistercensi, o anche, semplicemente, osservando le grandi vetrate istoriate delle cattedrali, raffiguranti le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, dalla Creazione del mondo al Giudizio finale, egli sentiva di essere parte di una storia sacra, chiamato a partecipare alla vita divina e a lottare contro il disordine del peccato, che allontana irreparabilmente l’anima dal suo Creatore, sorgente di ogni felicità. Verità troppo semplici, forse, per l’uomo moderno, per il quale la ragione, assolutizzata e divenuta una forma di totalitarismo intellettuale, rappresenta ormai una pietra d’inciampo, più che un aiuto, come dovrebbe essere e come è stato per secoli, verso il conseguimento della pienezza e serenità della vita interiore. Se l’uomo moderno non ritornerà al cristianesimo, e se questo non tornerà ad attingere alle sorgenti della spiritualità e del misticismo, ben difficilmente le prossime generazioni potranno sperare di avere ancora un futuro...
Se perde la componente mistica, il cristianesimo è finito
di Francesco Lamendola
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