ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 22 maggio 2016

Chi aveva ragione?

CHIESA: DIALOGO O MUTAZIONE?

    La Chiesa deve dialogare con il mondo moderno? Se la civiltà moderna è l’abisso una Chiesa ipnotizzata dal miraggio del dialogo finirà per precipitare al suo interno divenendo qualcos'altro. Stanno stravolgendo il Vangelo? 
di Francesco Lamendola   

L'ultima delle ottanta proposizioni contenute nel Sillabo di Pio IX, pubblicato nel 1864, affermava essere falsa la dottrina secondo cui il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà: e in tale prospettiva si è tenuto, pochi anni dopo, il Concilio Vaticano I, dominato dall'autorità del pontefice e dallo sforzo di restaurare la civiltà cristiana, contro gli errori del liberalismo, del socialismo, della secolarizzazione e del materialismo. Eppure, un secolo dopo, il Concilio Vaticano II è stato concepito e condotto, e viene tuttora presentato, come quello che ha aperto una nuova strada alla Chiesa, che le ha indicato una nuova prospettiva e che ha segnato una "svolta antropologica" nella stessa teologia cristiana: e ciò perché è stato il concilio che ha definito l'identità della Chiesa a partire dal suo rapporto, costruttivo e dialogante, proprio con il mondo moderno. E dunque, come stanno effettivamente le cose? 
Chi aveva ragione: Pio IX e il Concilio Vaticano I, oppure Giovanni XXIII e il Vaticano II? La Chiesa può e deve dialogare con il mondo moderno, giungendo a un accomodamento con esso? E che cosa significa dialogare? Significa accettare integralmente il punto di vista dell'altro, anche quand'esso vada a confliggere diametralmente con i propri valori, compresi quelli assolutamente irrinunciabili?
Facciamo un esempio concreto: la pratica legalizzata dell'aborto. Dialogare con il mondo moderno equivale a rinunciare, da parte della Chiesa, a proclamare che tale pratica è gravemente peccaminosa e del tutto inammissibile, e fare finta di niente? Significa comportarsi come papa Bergoglio, che loda pubblicamente la memoria di Marco Pannella, massimo artefice della legge 194, e riserva la sua stima ed amicizia a Emma Bonino, la quale, a suo tempo, si faceva fotografare con in mano la pompa per bicicletta, con la quale voleva reclamizzare la libertà di abortire per tutte le donne, con qualunque mezzo? Come si vede, non stiamo parlando di questioni accademiche, fatte di pura teoria: stiamo parlando, al contrario, di cose estremamente concrete, sulle quali un cattolico è chiamato, anzi, è letteralmente obbligato, a pronunciarsi, a schierarsi, a esprimere la sua convinzione, che poi coincide con l’insegnamento ufficiale della Chiesa. La sana teologia cattolica, infatti, ha sempre insegnato che si è responsabili non solo del male che si compie, ma anche di quello che si vede e che non si fa nulla per impedire, o, almeno, per denunciare; e che correggere il fratello che sta peccando gravemente è non solo una cosa opportuna, ma doverosa, perché tale, e non altro, è il vero amore di carità: correggere chi sbaglia per il bene della sua anima, bene che non si fa, tacendo e fingendo di non vedere.
La Chiesa postconciliare ha deciso di fingere di non vedere il male? Di non denunciare più il peccato? Di non riprendere, né correggere, i fratelli che sbagliano, peccando contro Dio e contro il prossimo? E, a proposito dei personaggi che abbiamo sopra ricordato, potremmo citare anche il caso del divorzio, della libertà di drogarsi, dell'eutanasia, della libertà assoluta d’immigrazione (islamica) e dei cosiddetti matrimoni omosessuali. Tali pratiche, o  richieste, configgono frontalmente con i valori cristiani; eppure sono diventate delle tipiche espressioni della libertà, così come la intende la cultura moderna e come le "sente" la civiltà moderna. Il cristiano deve ignorarle, deve girare la testa dall'altra parte, in nome del dialogo? Il dialogo equivale al silenzio sui punti di dissenso, anche quando si tratti di questioni assolutamente decisive. Dialogare significa capire il punto di vista dell'altro, sospendere il giudizio, accettare quel che chiede la maggioranza, sempre e comunque (ammesso e non concesso che si tratti realmente della maggioranza, e non di una minoranza aggressiva, sfrontata ed estremamente decisa, forte, oltretutto, del sostegno dei poteri finanziari e politici al più alto livello mondiale)? È questo che deve fare la Chiesa del terzo millennio: stare zitta davanti allo scempio delle cose più sacre in cui crede, pur di non litigare col mondo?
Dal momento che sono proprio i celebratori acritici del Vaticano II a presentare quel Concilio come qualificato dalla "scoperta" del dialogo (contrapponendolo al concilio "cattivo" per eccellenza, il Vaticano I, impregnato di autoritarismo papalino e accecato da una irrimediabile ottusità reazionaria), non possiamo eludere la discussione su che cosa si intenda, in realtà, con l'espressione "dialogo". In effetti, il Vaticano II non ha dato una definizione soddisfacene; al contrario, ha tracciato un vero e proprio circolo vizioso, e questo proprio nei suoi due documenti più importanti e caratterizzanti: la Lumen gentium e la Gaudium et spes, che furono definite, con molta enfasi, la Magna charta, rispettivamente, dell'identità e del dialogo cristiani. In altre parole: nella Lumen gentium si è affermato che l'identità della Chiesa si definisce mediane il dialogo, mentre nella Gaudium e spes si è allargato al massimo il raggio del dialogo con le realtà esterne alla Chiesa cattolica. Tutti gli altri documenti del Concilio (quattordici, per un totale di sedici: quattro costituzioni dogmatiche, nove decreti e tre dichiarazioni) sono stati un corollario e un approfondimento di questi due. Ma se l'identità della Chiesa è data dal fatto di essere una Chiesa perennemente in dialogo col mondo, e se il dialogo consiste nel riconoscere una pluralità di verità, aventi ciascuna il medesimo valore e la medesima dignità intrinseca, che cosa è, realmente, la Chiesa? Non rischia di diventare, come direbbe Luigi Pirandello, una, nessuna e centomilaNon rischia di svaporare, di scomparire, di dissolversi, per un eccesso di volontà dialogante con tutti e con ciascuno, ad ogni costo, anche a quello di perdere se stessa?
Il buon vecchio Nietzsche affermava che nessuno può guardare troppo a lungo nell’abisso, senza che l’abisso, a un certo punto, non finisca per guardare dentro di lui. Ora, se la civiltà moderna è l’abisso, una Chiesa che sia letteralmente ipnotizzata dal miraggio di dialogare con essa, finirà per precipitare al suo interno, e, senza praticamente rendersene conto, finirà per cessare di essere se stessa, e diverrà qualcosa d’altro, qualcosa che si definisce a partire dalle categorie del mondo moderno, che ragiona come ragiona il mondo moderno, che sente come sentono gli uomini della modernità. Ad esempio, una Chiesa che non sente più il dramma del peccato e della grazia; che non guarda più all’uomo come a una creatura, fatta, sì, a immagine di Dio, ma scivolata nel peccato e bisognosa di redenzione; per vedere il Vangelo come una delle tante opzioni possibili, e Gesù come una delle tante guide spirituali, non come il Figlio di Dio, fattosi uomo per amore dell’umanità, perseguitato, ucciso, morto e risorto per mano degli uomini, e venuto fra essi perché, dopo il suo ritorno al Padre, potesse scendere sulla terra lo Spirito di verità, il Consolatore, il Paraclito, destinato a rimanere con essi ogni giorno, sino alla fine del mondo. Una chiesa “risucchiata” dalla mentalità del mondo moderno sarà una Chiesa che smarrisce il senso di sé, e si dimentica delle parole di Gesù: Io sono la via, la verità e la vita; che si pone sullo stesso piano delle altre religioni, che si auto-mortifica, che smette di annunciare il Vangelo per non offende la sensibilità degli altri uomini, e si avvia all’auto-distruzione in nome di un pluralismo e, in ultimo, di un indifferentismo religioso, che si configurano come un ritorno al deismo illuminista, allo gnosticismo massonico, al culto del Grande Architetto dell’universo.
Inevitabilmente, la questione che si pone è il giudizio complessivo che si dà della civiltà moderna. Per chi sostiene che la Chiesa del Vaticano II ha fatto bene, benissimo, a definirsi a partire dal dialogo con essa, il giudizio, come è evidente, non sarà mai del tutto negativo, al contrario; si scorgeranno in essa molti aspetti meritevoli di attenzione e persino di valorizzazione: l’attenzione alla persona umana, per esempio, o alla sua “dignità”. Questo, naturalmente, se si ha abbastanza pelo sullo stomaco da non vedere che la “dignità” massonica non si estende ai nascituri, i quali possono essere sacrificati in nome dei “diritti” delle mamme che non vogliono averli; o se si finge di non accorgersi che il pluralismo religioso e lo stesso ecumenismo finiscono per tornare a esclusivo vantaggio di chi sta mirando a islamizzare l’Europa e a ridurre il cristianesimo a una religione residuale, destinata all’estinzione con la volonterosa collaborazione dei suoi stessi pastori e dei suoi stessi sedicenti teologi. Se, invece, si riconosce nella civiltà moderna il risultato di una operazione, pianificata a tavolino, di distacco dal cristianesimo e di progressiva distruzione di esso, che parte perlomeno dai libertini del XVII secolo, prosegue con l’illuminismo e culmina nelle aperte persecuzioni del XX secolo (dal Messico alla Russia, dalla Spagna ai Paesi arabi), allora il giudizio sulla volontà – e sulle velleità – di dialogo della Chiesa cattolica con il mondo moderno cambia radicalmente, e diventa un giudizio severo, d’inappellabile condanna: quale fu, guarda caso, quello formulato da Pio IX ai tempi del Sillabo.
Ora, dal Vaticano II in poi, una legione di teologi modernisti e progressisti non si stanca mai di ripetere quanto sia stato bello, buono e necessario l’avvio di un dialogo costruttivo con il mondo, e di come se ne sentisse la mancanza, e di come la Chiesa, grazie ad esso, abbia ritrovato la sua vera vocazione e la sua vera ragion d’essere: non più roccaforte di David, come hanno detto, con una fiorita e zuccherosa similitudine, quei tali teologi progressisti, ma una realtà itinerante e pellegrina, alla maniera di Abramo: ossia, fuor di metafora, non chiusa e ripiegata in se stessa (come era, a loro giudizio, la Chiesa di Pio IX; e senza dubbio, anche quella di Pio X, visto che ha condannato il modernismo…), ma aperta e dialogante, come quella di Giovanni XXIII. Da questa prospettiva si comprende meglio anche il fatto che il Vaticano II è stato, da un lato, il solo concilio ecumenico della storia che non sia stato convocato per dirimere e comporre delle questioni dottrinali, ma per una generica “esigenza pastorale” e per una volontà di “rinnovamento liturgico” (obiettivi che possono sembrare modesti e perfino minimalisti, mentre sono estremamente ambiziosi, perché mettono in questione lo “spirito” stessa della Chiesa); e, dall’altro, perché sia stato il solo concilio che non ha pronunciato condanne verso le false dottrine, né stabilito dogmi per rafforzare, illuminare e chiarire le verità cristiane.
Nel suo discorso di apertura del Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII ha, infatti, affermato: Sempre la Chiesa si è opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati con estrema severità. Oggidì però la Sposa di Cristo preferisce applicare il mezzo salutare della misericordia anziché del rigore.  Essa ritiene di poter meglio rispondere alle esigenze dell’epoca moderna mostrando il valore della propria dottrina, anziché decretando condanne. Belle parole, senza dubbio: ma parole realistiche, e, soprattutto, parole in linea con la dottrina cattolica di sempre, con l’eterna verità del Vangelo? Che cosa significa “preferire la misericordia alla condanna”, in un  momento storico in cui la Chiesa è sotto attacco e in cui la civiltà moderna, attraverso molteplici vie, sia materiali che culturali, si sta impegnando al massimo per estirpare o, non potendolo,  per snaturare dall’interno il messaggio di Cristo? Non ha parlato forse lo stesso Paolo VI, colui che ha accompagnato, per la maggior parte, lo svolgimento del Concilio, del fumo di Satana in Vaticano? E dunque: se il nemico di Cristo e della Chiesa è già dentro di essa; se sta sferrando attacco finale per distruggerla, che cosa significa rivolgesi proprio a quel nemico con la clemenza e non con la severità?
Inoltre: che cosa vuol dire astenersi dal condannare, davanti a tutta una serie di azioni e di comportamenti che, dal punto di vista cristiano, è non solo legittimo, ma assolutamente doveroso, condannare? Forse la salvezza delle anime si persegue assecondando lo spirito del mondo, e non già ammonendo il peccatore? Questi simpatici progressisti parlano sempre della misericordia: ma la misericordia, senza l’ammonizione, non conduce alla salvezza, bensì alla perdizione delle anime.Gesù, nel rimandare a casa l’adultera, non le disse: Va’, e continua a tradire tuo marito; bensì le disse: Va’, e non peccare più. Se si toglie la sua esortazione: e non peccare più, si stravolge il senso del suo messaggio: ed è quello che i teologi buonisti e i pastori troppo “misericordiosi” stanno facendo. Stanno stravolgendo il Vangelo: perché sia chiaro che il buonismo non è evangelico, è diabolico. Il buonismo corrisponde al fare finta di non vedere il male: il che non viene certo da Dio, ma è, alla lettera, un atteggiamento diabolico.
Ma c’è un’altra cosa ancora che non quadra, in quelle parole di Giovanni XXIII. Egli affermò, come si è visto, che la Chiesa ritiene di poter meglio rispondere alle esigenze dell’epoca moderna mostrando il valore della propria dottrina, anziché decretando condanne.Ora, domandiamo: la Chiesa deve porsi al servizio delle “esigenze” dell’epoca moderna? Ma quando mai? Questo sarebbe il Vangelo? Questo è ancora il cristianesimo? Gesù si era forse posto al servizio delle esigenze della sua epoca? Non ci risulta affatto; al contrario. Ogni qualvolta i Giudei tentarono di trascinarlo dalla loro, per esempio sul terreno politico, egli si ritrasse, ribadendo, fino all’ultimo (cioè davanti a Pilato) che il suo Regno non è di questo mondo. Più chiaro di così. Eppure, incredibile a dirsi, c’è ancora chi non vuol capire, non vuol sentire, non vuol vedere la pura verità…

La Chiesa deve dialogare con il mondo moderno?

di Francesco Lamendola


LA RIVOLTA CONTRO IL "PADRE"

    La società moderna che ha detronizzato il padre non si salverà se non tornando al Padre. Il Progresso non si volge mai indietro e non rispetta la tradizione non sa che farsene dei vecchi pardon anziani e della loro saggezza di Francesco Lamendola  



Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te. Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi servi. Come il figlio prodigo, anche l’uomo contemporaneo, quando si sarà stancato di mangiare ghiande come i porci, una buona volta deciderà di rimettersi in cammino e tornare da suo Padre, che lo aspetta con il cuore trepidante, e presso il quale troverà tutto quello di cui ha bisogno per vivere una vita felice. Oppure seguiterà a mangiare le ghiande, rubandole ai porci di cui si è fatto custode, e finirà per morire di fame, perché i padroni del branco non gli danno neppure quelle, né si commuovono se la fame gli strazia i visceri.
C’è tuttavia una cosa che lo trattiene, che gli impedisce di rinsavire, anche se, nei rari momenti di lucidità, egli intuisce lo squallore della condizione in cui è precipitato, e rimpiange il tempo in cui viveva nella casa paterna, provvisto di tutto il necessario e circondato dall’affetto del genitore. Lo trattiene la cultura degli ultimi tre secoli, la quale, come un diabolico crescendo, non ha fatto altro che esprimere una ribellione sempre più acre, sempre più astiosa, sempre più violenta, contro la figura del padre, descritta come quella di un oppressore, di un nemico, di un tiranno disumano; e, più ancora, il fatto che la cultura moderna ha costruito se stessa, pezzo dopo pezzo, esaltando illimitatamente l’individualismo, il far da sé, il rifiuto delle radici, e la bellezza dell’andare avanti senza curarsi di nessuno e senza riconoscere o contrarre debiti nei confronti di alcuno. Tale è, per definizione, la cultura progressista: il Progresso non fa sconti, non si volge mai indietro, non rispetta la tradizione, non sa che farsene dei vecchi (pardon, quale mancanza di delicatezza; volevamo dire: degli anziani) e della loro saggezza; esso punta tutte le sue carte sulla gioventù, sul domani, sul futuro, quali che siano, dando per acquisito che il futuro è, per definizione, cosa migliore del passato, che il nuovo è sempre e comunque preferibile al vecchio, e che i giovani non hanno niente da imparare dai vecchi, anzi, tutto da dimenticare.
Da Freud in poi, del resto, la rivolta contro il padre è entrata di diritto nella sedicente scienza psicanalitica; così come, pochi decenni innanzi, la morte di Dio era entrata, grazie al pensiero di Nietzsche, nel quadro complessivo e imprescindibile della filosofia moderna, come uno di quei dati di fatto che possono piacere o non piacere, ma rispetto ai quali non è possibile, nemmeno volendolo, tornare indietro. Niente più Dio: ed ecco stuoli di volonterosi ”teologi” a smantellare, un mattone alla volta, l’intero edificio della teologia; via i miracoli, ridotti a simboli; via il soprannaturale, ridotto a mito; via il bene e il male, ridotti a valori contingenti e storicamente mutevoli; via la Resurrezione, ridotta a semplice ipotesi, peraltro azzardata; via il culto mariano, ridotto a superstizione; via la stessa divinità di Gesù, ridotta a metafora; e via, per finire, Dio in se stesso, perché l’uomo deve fare come se Lui non ci fosse ed è proprio Lui, in ultima analisi, che vuole così, per vedere se siamo cresciuti abbastanza e se siamo diventati adulti. E, allo stesso modo, niente più padre: ed ecco stuoli di “psicologi” spiegarci che dobbiamo oltrepassare il complesso di Edipo, che dobbiamo, appunto, dimostrare di esser cresciuti, di saper camminare con le nostre gambe, di non aver bisogno di attaccarci ai pantaloni del babbo (o alle gonne della mamma); insomma, che non siamo più dei bambocci viziati e tremebondi, ma esseri capaci di prendere in mano il proprio destino e di vivere la propria vita, così come noi stessi vogliamo determinarla, in piena libertà e senza farci ricattare dai vecchi e superati discorsi sul dovere, sul sacrificio, sul peccato, che ci sono stati rifilati al preciso scopo di perpetuare la nostra sottomissione.
Scriveva il teologo Giacomo Panteghini nel saggio Il ritorno ai Padri  in una società “senza padre” (nella rivista teologica Credere oggi, Padova, Edizioni del Messaggero, n. 3 del 1984, pp. 96-98):

Che cosa può significare il ritorno ai Padri [della Chiesa] in una società che vede in crisi la figura del padre? […] Il senso della domanda a prima vista può apparire retorico. La risposta che sembra suggerire è che si tratta di una reazione al processo di dissolvimento in atto nella società occidentale, di un ricupero della figura paterna e di tutto ciò che vi è connesso (autorità, tradizione, saggezza, ordine, disciplina, ecc.). La risposta che una più attenta considerazione del fenomeno invece ci porterà a dare è di ben altro genere. Il ritorno ai padri nella storia della chiesa ha normalmente caratterizzato le epoche non della conservazione ma del rinnovamento. Non si tratta quindi di un sintomo di “riflusso”, ma del ricupero dello slancio giovanile che ha caratterizzato l’era dei Padri. […] Ai nostri giorni non è possibile comprendere il significato profondo di questo ritorno senza tener presente il contesto socio-culturale che sembra dare l’ostracismo alla figura del padre. Stiamo veramente avviandoci verso una società senza padre, come un’abbondante letteratura degli ultimi vent’anni sostiene, oppure non si è trattato che di una breve parentesi “anarchica” già conclusa, come un certo “revival” autoritario e conservatore sembra dimostrare. Probabilmente quello che è morto non è il padre ma una sua immagine, che è antistorico voler a tutti i costi restaurare. In questione oggi non è tanto la paternità biologica o psicologica (come situazione affettiva), ma la paternità simbolica, cioè l’immagine che la società e la cultura del passatoi hanno elaborato della paternità come simbolo e strumento di conservazione di un certo ordine, basato sul potere, in una struttura patriarcale. Si è osservato che, mentre la maternità è un dato  di ordine prevalentemente naturale, la paternità si configura come un fatto prevalentemente culturale. E proprio perché definita “simbolicamente” dalla cultura e dalla società, la paternità è soggetta alle trasformazioni stesse della società e della cultura. Questo spiega come mai oggi essa sia contestata come sintomo di un assetto sociale in via di  dissolvimento, di una cultura permeata di maschilismo (da qui la contestazione femminista), di sessismo, di autoritarismo, con sbocchi razzisti, militaristi, colonialisti. La figura paterna avrebbe avuto una sua utile funzione nella costruzione della società di ieri ma sarebbe oggi superata dall’evoluzione stessa della società, avviata verso un nuovo assetto che on poggia più sulla proprietà schiavista o borghese ma sulla capacità del singolo o dei gruppi di progettare il futuro servendosi delle nuove tecnologie (Adorno). Il tramonto della società basata sul padre, sull’impresa familiare e privata fa sì  che l’autorità del padre come trasmettitore di ricchezza, di potere, di esperienza, sia sempre minore. Il padre avrà sempre meno da offrire (già oggi il figlio “istruito” supera facilmente le conoscenze del padre) e quindi anche da proibire (Fromm).
Le democrazie moderne aspirano ad un modello di società  in cui il rapporto con l’altro è vissuto attraverso il simbolo della fraternità e non attraverso quello della paternità.  In questo convergono le opposte ideologie borghese e marxista che hanno in comune l’utopia di una società fraterna.  
La contestazione del padre, anche se solo ai nostri giorni ha raggiunto le masse, fermenta da oltre due millenni la cultura occidentale. Il mito del figlio ribelle che detronizza il padre tiranno non  un’invenzione di Freud (“Totem e Tabù”): si pensi al mito di Prometeo che sottrae agli dei gelosi il fuoco (potere), eroe di una letteratura che da Esiodo a Platone, da Eschilo a Calderon de la Barca, da Goethe a Gide esalta in lui l’uomo stesso anelante alla propria autonomia. È poi a tutti noto il bisogno dell’adolescente di contestare l’autorità di cui il padre è simbolo. Si sa – anche se non se ne traggono le debite conclusioni – che a questa età si tende a perdere una fede religiosa troppo legata a modelli autoritari-paternalistici; fatto che spesso purtroppo fa della cresima – che dovrebbe essere il sacramento d’investitura della maturità cristiana – la cerimonia di commiato dalla pratica religiosa. Queste constatazioni inducono a pensare che in crisi non sia il padre in se stesso ma una sua immagine culturale “disumanizzante”, il padre cioè che impedisce al figlio di maturare, di progredire, di crescere, in altre parole  il padre-padrone. Questa immagine del padre è destinata a scomparire con la società di cui era simbolo e strumento di conservazione (Horkheimer).

Questo è un esempio quasi perfetto di quella teologia postconciliare progressista, modernista, buonista, sinistrorsa, demagogica, che infesta le facoltà teologiche e, attraverso di esse, la pastorale e la cultura cattolica nel suo complesso, con i suoi luoghi comuni spacciati per profonde verità, con le sue banalizzazioni di problemi complessi spacciate per ottimismo cristiano. Il cristiano non ha il dovere dell’ottimismo, quanto alle cose del mondo: il suo ottimismo è di tipo escatologico, non riguarda questa vita, ma l’altra; non questo mondo, ma il Regno di Dio, del quale, nella dimensione terrena, è possibile vedere solo una pallida anticipazione.
Dopo essersi premurato di chiarire che il “ritorno” ai Padri non deve essere inteso come un “riflusso” (neologismo creato dagli intellettuali progressisti negli anni ’70 per designare il volto becero della reazione), e dopo aver deprecato (ulteriore giaculatoria progressista) un certo qual “revival” autoritario e conservatore, egli dice di non rimpiangere la scomparsa di una certa figura di padre, autoritaria e patriarcale, adatta per altre epoche storiche, quella schiavista e quella borghese (accostamento tipico degli intellettuali marxisti), ma oggi superata e non più proponibile: la figura del padre che ostacola la crescita dei figli, che non vuole lasciarli diventare autonomi, insomma il padre-padrone. Che scompaia una tale figura paterna, è non solamente logico, dato il cambiamento della struttura socio-culturale (dove i padri non hanno più niente da dare ai figli; ma, ci permettiamo di chiedere, è proprio vero?), ma auspicabile e benefico. E via citando Freud e poi Adorno, Horkheimer, Fromm e tutta la compagnia bella della Scuola francofortese; ma non citando, guarda caso, nemmeno uno dei Padri della cui autorità si stava parlando: né Cipriano, né Ambrogio, né Atanasio, né Agostino, né Girolamo: nessuno. E allora lasciamo questi teologi cattolici progressisti nel loro brodo semi-marxista, che non hanno neanche la franchezza di riconoscere; lasciamoli, anche ai nostri giorni, rimestare fra le ceneri di un gigantesco abbaglio storico, del quale non hanno mai fatto ammenda e per il quale non hanno mai domandato scusa. Lasciamoli contrabbandare la svendita della vera teologia cattolica con una zuccherosa “apertura” verso” il mondo moderno, e seguitare a seminar confusione e turbamento fra le anime dei credenti, loro che, in teoria, dovrebbero aiutare il credente a credere sempre di più. Lasciamo gli Enzo Bianchi blaterare a sproposito sul “vero” spirito del Vangelo; lasciamo i Federico Lombardi tessere l’ammirato e compunto elogio funebre del nobile Marco Pannella, la cui massima benemerenza è quella d’essere stato un grande ammiratore di papa Bergoglio (e tacendo il trascurabile dettaglio che egli è stato il capofila dell’esercito diabolico che ha fatto passare in Parlamento, e, quel che è peggio, nella sensibilità morale degli Italiani, il divorzio, l’aborto, la droga, l’eutanasia e le nozze omosessuali).
Quanto a noi, abbiamo visto e toccato con mano che la rivolta della cultura moderna contro il padre non è affatto, come vorrebbero codesti teologi buonisti, la rivolta contro la figura paterna autoritaria e repressiva: perché, da che mondo è mondo, è il figlio che deve dimostrare a suo padre, con i fatti, d’essere divenuto adulto e di saper camminare da sé. Non è il padre che non lo lascia crescere, è il figlio che si rifiuta di crescere e che si costruisce l’alibi della durezza e dell’autoritarismo paterni, con Freud che gli ha fabbricato persino una sorta di attenuante per legittima difesa nelle sue velleità parricide: il “complesso di castrazione”. E quale corte di tribunale oserebbe condannare un figlio che ha ucciso suo padre, perché questi voleva castrarlo? Dostoevskij, che aveva capito cento cose più di tutti i Freud, i Fromm e gli Adorno messi insieme, ha dedicato al parricidio il suo capolavoro, I fratelli Karamazov: un libro nel quale si trovano più verità sulla condizione dell’uomo moderno e sul “dramma” dei figli complessati e ribelli, che in diecimila trattati di (sedicente) psicologia.
Nossignori: non è il padre-padrone che l’uomo moderno vuole ammazzare (e dove si troverebbe, ormai, un siffatto padre-padrone? Se quei tali signori progressisti hanno appena finito di spiegarci che il padre, oggi, non ha più nulla da offrire ai figli!), ma proprio il padre in quanto tale: per invidia, per rancore, per odio irragionevole. Lo vorrebbe disonorare, flagellare, crocifiggere, così come i Giudei fecero con Cristo. Lo vorrebbe seppellire (e fare la guardia al sepolcro, per esser certi che non ne esca mai più), cancellare, dimenticare. Un figlio sano si costruisce la sua vita, va per la sua strada: non sente il bisogno d’affermarsi con l’assassinio di suo padre. Ma l’uomo moderno è malato, ed è causa della sua stessa malattia. Ecco perché non si salverà, se non tornando al Padre…

La società moderna che ha detronizzato il padre non si salverà se non tornando al Padre

di Francesco Lamendola

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