ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 29 giugno 2016

Tornare a Dio

VERITA' E' COME DIO CI VEDE

    La verità è vedere noi stessi come Dio ci vede. Che altro è il peccato, se non essere al buio, lontani dalla verità? E che altro è la verità, se non tornare a Dio, ove la sete si placa e il cuore trova la pace? 
di Francesco Lamendola  


Uno degli aspetti più caratterizzanti della civiltà moderna è il suo atteggiamento nei confronti della verità: che è passato, nel corso del tempo, da un senso di euforia, e quasi d’onnipotenza, tipico della fase iniziale (dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo) ad una condizione di dubbio sempre più forte, a un crescente scetticismo, poi alla negazione e al rifiuto; per giungere, da ultimo, a una specie di odio contro la verità, un odio che si esprime rabbiosamente, o con ironia, o con derisione, o con disprezzo, ogni qual volta ci si trova in vicinanza di essa, per esempio quando si vede qualcuno che la antepone ad ogni altra cosa e che, per essa, appare pronto a qualunque sacrificio, compreso quello della vita.
In simili casi, l’atteggiamento complessivo della nostra società, a cominciare dai cosiddetti intellettuali, ondeggia fra l’incredulità, il sarcasmo e il compatimento, come se ci trovasse alle prese con un povero demente, o con un ingenuo presuntuoso, oppure con un fanatico, potenzialmente assai pericoloso. Ciascuno si fa queste domande: Come osa, costui, affermare che la verità esiste e che essa è conoscibile dall’uomo? Chi si crede di essere? Pensa, forse, di essere migliore di tutti gli altri, dal momento che la verità - è cosa nota - o non esiste, oppure, se anche esistesse, sarebbe molto al di là della nostra portata?
Infatti, i seguaci e i fautori del soggettivismo esasperato e del relativismo radicale, i due macigni che ostruiscono il nostro cammino verso la verità, ci hanno quasi persuasi che le cose stanno come affermano loro: che non esiste una verità assoluta, ma che ciascuno ha il diritto di coltivare la sua piccola verità personale, e che non esistono certezze o valori forti, perché tutto è relativo, tutto dipende da come lo si guarda e da come lo si interpreta.
Questa, ovviamente, è una filosofia che può adattarsi solamente a dei folli, ma dei folli che siano anche disperati: perché solo un folle disperato può pensare davvero di vivere in un mondo siffatto, dove non esistano né la verità, né la certezza di poterla trovare: folle, perché vivere in una simile maniera diventa, alla lettera, impossibile; disperato, perché equivale alla perdita totale della speranza.
Se fossero coerenti, quei signori la smetterebbero di intronarci gli orecchi con le loro litanie e cambierebbero mestiere; rinuncerebbero spontaneamente alle loro comode poltrone e alle loro prestigiose cattedre universitarie; la smetterebbero di scrivere articoli e libri, di partecipare a talk-show televisivi, di prestarsi a rilasciare interviste, a tenere conferenze, a presentare l’ultimo parto editoriale dell’amico, o dell’amico degli amici; se fossero coerenti, si ritirerebbero in campagna, a coltivare fagioli e pomodori, e le loro considerazioni le loro perle di saggezza le regalerebbero, tutt’al più, a pochissimi intimi, oralmente e quasi di nascosto, con un senso i pudore, se non proprio di vergogna.
Quale saggezza, infatti, sarà mai possibile, in un mondo totalmente abbandonato dalla speranza, ove non esistono né la verità, né la certezza di poterla trovare? No: se si vuole esser coerenti, dopo aver proclamato che il mondo è una nave dei folli, bisogna mettersi in capo il berretto coi campanelli ed unirsi, volonterosamente e con la massima convinzione, alla follia generale; bisogna fare come i dadaisti o i surrealisti, e scrivere commedie dell’assurdo, o dipingere quadri senza senso, o costruire strade che non portano da nessuna parte, o gettare ponti fra due isole deserte, o varare navi con un pescaggio maggiore del bacino di collaudo, o costruire aerei con le ali di piombo, o tenere conferenze ai cani e ai gatti, o candidare al Nobel per la pace il più grande criminale della storia. Queste son le cose da fare (e alcune, in effetti, sono state fatte, o almeno tentate) se davvero si vuol essere coerenti;e abbandonarsi a pazzie tali che l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, al confronto, appaia come uno scherzo da bambini.
Lo ripetiamo: la civiltà attuale non si limita a negare la verità e a dichiarare impossibili, o fasulle, tutte le certezze; si è spinta molto più avanti: essa ha dichiarato guerra contro la verità, l’ha presa in odio, la combatte con accanimento ovunque se ne offra l’occasione. Strano comportamento: se la verità non esiste, se fosse fatta – per usare un’immagine di Shakespeare – della stessa sostanza dei sogni, dovrebbe essere sufficiente ignorarla, anzi, non parlarne e non pensarci neppure, perché già il solo fatto di parlarne e di pensarci, sia pure per dichiararla inesistente, le conferirebbe una qualche forma di esistenza, e sia pure fantastica e soggettiva. In un certo senso, l’atteggiamento della cultura e della società attuali nei confronti della verità è analogo a quello che esse dimostrano nei confronti di Dio: non ci credono, però lo considerano un nemico pericoloso; lo negano, però non desistono dal combatterlo accanitamente, o dal combatterne la credenza; ridono di Lui e di tutti coloro che ci credono, però scattano in piedi, pronti a menare fendenti a destra e a manca, non appena sembra loro di udire dei passi nella stanza che ha lasciato vuota e deserta, come se, in fondo al cuore, temessero di vederne uscire un fantasma, e quel pensiero trasmettesse loro una paura tremenda che, per dispetto, per non darla vinta al Dio defunto, camuffano in furore.
Ma che cos’è la verità? La verità – non possiamo procedere senza darne una definizione, e ci sembra che quella classica sia sempre valida – è l’accordo del giudizio con la cosa. Se il giudizio è in accordo con la cosa, siamo nella verità; se è in disaccordo con essa, siamo nell’errore. Tuttavia, vi è differenza fra dire che cosa è la verità e come la si posa definire; nel secondo caso, stiamo già ragionando non sulla verità, ma su quel che la verità appare a noi, o su quella parte di verità che è a noi accessibile. Ecco, dunque, che le parole acquistano un peso determinante: dare una definizione della verità non equivale forse ad ammettere che altro è la cosa in sé, altro ciò che della cosa noi possiamo dire? Probabilmente sì; però questo accade a proposito di qualunque enunciato, anche se il carattere paradossale di ciò emerge con più forza quando si parla della verità, perché la verità, per definizione (appunto), fornisce il criterio di discriminazione necessario a qualsiasi discorso, su qualsiasi argomento. Se non si definisce cosa sia la verità, non si può parlare né di geometria, né di chimica, né di giurisprudenza, né di finanza; nondimeno, definire la verità significa anche un po’ tradirla, perché la definizione fissa dei paletti, traccia dei confini, mentre la verità, come e più di qualunque altra cosa, non sopporta di essere limitata a priori, la sua vera dimensione eccede sempre le nostre categorie, i nostri concetti e le nostre parole.
Cercheremo di essere ancora più chiari. La verità ultima, la Verità che regge tutte le altre verità, o tutto quel che ci appare come vero, è una sola: Dio. Dio solo è vero per se stesso; Dio solo garantisce la verità delle cose che noi constatiamo essere vere; Dio solo vede ogni cosa con verità (cioè con amore e con giustizia), per cui, se noi pure vogliamo rendere limpido il nostro sguardo, e cercare la verità delle cose, dobbiamo adeguare la nostra vista a quella di Dio. Questo, umanamente parlando, è impossibile: ed è proprio qui che inizia il cammino della fede. La fede diviene possibile e necessaria laddove la ragione ha condotto a termine il suo percorso: essa non è una negazione della ragione, ma una prosecuzione del cammino da quella intrapreso. La fede non nega la ragione, ma le dà la possibilità di portare a compimento quel che essa aveva incominciato, ma non è, né sarà mai capace di concludere.
La ragione umana cerca la verità; non questa o quella piccola verità, ma la Verità assoluta; quindi, anche se non lo sa, essa cerca Dio. Trovare Dio è la stessa cosa che trovare la Verità; non trovarlo, o non cercarlo, è la stessa cosa che voler travasare tutta l’acqua del mare in una piccola buca scavata nella sabbia, presso la riva. Ecco perché l’anima ha sete di Dio: perché la mente dell’uomo ha sete di verità, e non ha pace, né riposo, fino a quando non l’abbia trovata. Però non la troverà mai, se non la cerca là dove essa si trova: troverà solo delle mezze verità, delle false verità, delle ombre, o larve, o fantasmi di verità: e li scambierà ogni volta per la verità intera, si illuderà e poi resterà atrocemente delusa. Di delusione in delusione, l’anima dell’uomo moderno ha dichiarato che la verità non esiste. Però, la sete di essa non si estingue per il fatto di dichiararla inesistente; ed ecco la radice dell’odio, tutto moderno, contro la verità. L’anima moderna odia la Verità perché si sente delusa e tradita in un suo bisogno fondamentale; e, soggettivamente parlando, ha ragione di sentirsi così, delusa e tradita, e perciò anche arrabbiata. Solo che non si rende conto di essere lei stessa la causa della propria delusione e del proprio senso di tradimento e di abbandono: e continua a prendersela non con se se stessa, che è la vera responsabile della propria infelicità, ma con la verità, per la “colpa” di non esistere. Di fatto, è impossibile prendersela con qualcuno che non c’è, che nemmeno esiste: allora, inevitabilmente, un po’ alla volta, si finisce per trasferire la propria rabbia e la propria disperata ribellione contro questa o quella cosa, poi contro altre cose, e, alla fine, contro tutte.
L’anima moderna è come in preda a una possessione demoniaca, perché odia il mondo, odia la vita e, soprattutto, odia se stessa, senza rendersi conto di ciò che realmente prova, e, in ogni caso, dirigendo la sua aggressività verso il bersaglio sbagliato. Come l’idrofobo anela alla frescura dell’acqua, però, nello stesso tempo, la detesta e se ne tiene lontano, così l’anima moderna anela al possesso della verità, però non sa avvicinarsi ad essa, non lo vuole, e preferisce illudersi che le piccole verità parziali – quelle della scienza, ad esempio; o quelle che le suggeriscono l’edonismo, il relativismo e l’indifferentismo – potranno placare la sua sete. Ma rimane ogni volta delusa, e, ogni volta, afflitta da un più grave senso di frustrazione e di vuoto.
Ora, è evidente che la verità più importante, per l’uomo, è quella relativa a se stesso; e non già una verità astratta e generica, bensì la verità concreta e vitale di ciascun singolo individuo, come giustamente insegnava Kierkegaard. A che cosa mi servirebbe conoscere mille verità lontane, se ignoro la verità del mio stesso io, se sono nell’ignoranza riguardo a me stesso? Infatti, dalla conoscenza di me, potrò poi procedere alla conquista di altre verità, e, alla fine, giungere alle soglie della Verità ultima; mentre il cammino inverso risulta praticamente impossibile. Ma eccomi di nuovo preso in trappola: come giungere alla verità di me stesso, se io, come parte in causa, non posso, per definizione, innalzarmi a un punto di vista superiore, e vedermi così come sono, cioè come sono veramente, e non come appaio a me stesso, probabilmente in maniera illusoria e ingannevole? Chi o cosa mi darà la forza d’innalzarmi al di sopra di me stesso, per uscire al di fuori di me stesso, e guardarmi con sguardo veritiero, cioè con sguardo realmente oggettivo? È evidente che questa forza non me la posso dare da solo; e Nietzsche, che sosteneva esattamente questo, in realtà stava indulgendo a un sofisma, del tutto simile a quello del Barone di Münchhausen allorché, sprofondato nella palude con tutto il cavallo, se ne trasse fuori afferrandosi e tirandosi in su per i capelli. Solo da Dio mi può venire questa forza, che si chiama Grazia; ma, per poterla ricevere, devo essere disposto ad accoglierla, e, pertanto, devo riconoscermi debole e privo di quel che mi occorre. Il segreto della fede è tutto qui: essa resiste agli orgogliosi e ai superbi, proprio come ha detto Gesù, mentre Dio la dona ai semplici e agli umili di cuore. Lui solo, infatti, ci vede come siamo realmente, sino in fondo; Lui solo ci conosce in maniera veritiera, perché siamo opera Sua. Di nostro, possiamo metterci solo la possibilità di dire no a Lui, e quindi alla verità. Ma se ci facciamo umili e diciamo , abbandonandoci a Lui, allora noi saremo, anzi, noi resteremo uniti alla Verità, dalla quale abbiamo avuto origine, così come ha avuto origine tutto ciò che esiste. In fondo, la cosa è abbastanza semplice: siamo noi stessi, con i nostri vani ragionamenti, con i nostri sofismi e con le nostre fumisterie, che abbiamo reso tutto così terribilmente complicato. Essere in Dio, vuol dire essere nella verità: e chi è nella verità, non s’inganna e non costruisce nel vuoto. Non ha bisogno di fare il buffone, di mettersi il cappello con i sonagli e di costruire strade che non portano da nessuna parte. La sua vita acquista una profonda serietà, perché la verità è una cosa seria; acquista un valore e una direzione, perché fuori dalla verità non ci sono valori di sorta, né mete da raggiungere, ma solo emozioni fuggevoli, ed un vagabondare capriccioso e insensato. Questo vagabondare, è, in termini cristiani, il peccato: un oziare lontano da Dio, un voltargli le spalle.
Ha scritto padre Livio Fanzaga (in: La confessione. Dove il cuore trova pace, Milano, Sugarco, 2008, p. 71): Che cos’è la verità? Nel nostro caso è vedere noi stessi come Dio ci vede. Infatti noi siamo nella realtà non come noi pensiamo di essere, ma come Dio ci guarda e ci giudica. Quando siamo immersi nelle tenebre del peccato non vediamo la nostra vita così com’è. Siamo ciechi e non ci rendiamo conto della nostra miseria e del pericolo che incombe sulla nostra esistenza mentre siamo lontani da Dio e chiusi alla sua grazia. Che altro è il peccato, se non essere al buio, lontani dalla verità? E che altro è la verità, se non tornare a Dio, ove la sete si placa e il cuore trova la pace?


La verità è vedere noi stessi come Dio ci vede

di Francesco Lamendola

DIFFICOLTA' DI CREDERE E SUPERBIA

    La radice della difficoltà di credere è la superbia della civiltà moderna. Credere in Dio: i sedicenti cristiani ne parlano con un misto d’incredulità e scoraggiamento gli altri con un tono beffardo d’ironia e quasi d’irrisione 
di Francesco Lamendola  



Credere in Dio; credere alla possibilità di giungere alla Verità; credere alla possibilità di realizzare in se stessi la vita buona, di rispondere affermativamente alla chiamata alla santità rivolta a tutti gli uomini, nessuno escluso: tutto ciò, per l’uomo moderno, sembra divenuto impossibile, o comunque difficilissimo: i sedicenti cristiani ne parlano con un misto d’incredulità e scoraggiamento; gli altri, con un tono beffardo, d’ironia e quasi d’irrisione.
Partiamo dalla fede in Dio, cioè dalla fede che sorregge la fede in tutto il resto: nella verità e nella possibilità di raggiungerla; nella santità e nella possibilità di realizzarla. La fede in Dio, si dice, è diventata difficile, pressoché impossibile, perché la civiltà moderna ha demolite, una dopo l’altra, le credenze dei nostri progenitori, mediante il progresso della scienza: sicché noi non possiamo più credere come credevano loro, e, anche se lo facessimo, ci macchieremmo di una duplice colpa, intellettuale e morale: intellettuale, perché getteremmo nel cestino secoli di progresso scientifico, morale, perché mostreremmo di non avere il coraggio di guardare avanti, di accettare la nostra condizione di animali evoluti e intelligenti, i quali devono affrontare la realtà e vivere contando solo su se stessi, senza coltivare favole religiose per consolarsi della duplice, tragica scoperta del sapere moderno: che il mondo è senza senso, perché non è scaturito da un atto d’amore di Dio; e che la morte del corpo è la fine di tutto.
Si tratta, a ben guardare, di una specie di ricatto, anzi, di auto-ricatto; se io credo in Dio, se mi affido a Lui, se leggo il Vangelo con fede, e non come uno dei tanto documenti dell’umana illusione d’immortalità, vengo meno al mio stesso statuto ontologico di essere razionale, e mi rendo colpevole di vigliaccheria e diserzione: è come se abbandonassi il mio posto nella battaglia per la civiltà, come se voltassi le spalle al vero, e così regredisco allo stato infantile, in un mondo fittizio, alienato, popolato di creature invisibili, angeli e demoni, nel quale tento di rassicurare le mie paure e di tacitare i miei dubbi, il timore che ho di comportarmi da persona adulta e di assumermi le relative responsabilità. I miei amici, che siano persone colte oppure no, mi guarderanno con stupore e commiserazione, come si guarda un fenomeno anacronistico o un povero individuo spaventato, che si rifugia nelle infantili sicurezze di un tempo trascorso per sempre.
Nella società attuale, infatti, tutte le simpatie, tutta l’ammirazione, vengono riservate alle persone audaci, intrepide, le quali rifiutano teorie e “storielle” consolatrici, e che mostrano il coraggio di vivere la vita accettandola per quello che è: un tempo breve, limitato, fra il nulla del prima e il nulla del dopo: un lampo di luce, inspiegabile e irragionevole, nel buio dell’universo; una occasione tutta immanente di gioire, di conoscere, di amare, sempre con i piedi bene attaccati alla terra, sempre con lo sguardo rivolto in avanti, non troppo in alto, perché in alto ci sono le nuvole, e, oltre le nuvole, il cielo, e il cielo non è la nostra vera patria, la nostra unica patria è questa qui, che abbiamo sotto di noi: la terra, con tutte le cose che contiene, belle o brutte che siano, e che, del resto, sta in noi rendere brutte o belle, perché noi, e noi soltanto, siamo i giudici della nostra vita e gli artefici del nostro destino.
Le donne ammirano l’uomo audace, intrepido, che non china la testa davanti a niente e a nessuno, che è sempre sicuro di sé, che non teme l’Aldilà, perché crede solo nell’al di qua; gli studenti ammirano il giovane professore di filosofia, originale, anticonformista (anche se non lo è poi tanto quanto essi credono), che non mostra alcun rispetto per la tradizione e che parla come se non occorresse neanche prendesi il disturbo di dimostrare che Dio non c’è, e che pensa unicamente a come migliore la società, magari per mezzo di una rivoluzione; i bambini ammirano la mamma disinvolta e innamorata di sé, che non va in chiesa, ma in palestra, e il papà intraprendente, concreto, che bada al lavoro e al guadagno, poi si gode le vacanze esotiche, senza fisime spirituali e senza troppi scrupoli di coscienza; i giovani ammirano gli amici i quali non hanno paura di niente e di nessuno, disinvolti, sfacciati, che inseguono mille piaceri e si lasciano sedurre da mille richiami, mentre disprezzano le anime pensose, introverse, meditative, profonde, sensibili; i giovani preti ammirano i vescovi che parlano male della Chiesa, della gerarchia, della “repressione” sessuale, che deridono la credenza nel Diavolo e che nascondono a fatica un sorrisetto di superiorità quando si parla della Madonna, della sua intercessione, del suo ruolo di suprema mediatrice; e i giovani parrocchiani ammirano i preti d’assalto che hanno sempre in bocca la “liberazione” e la “giustizia sociale”, che si gettano a capofitto in mille attività e non perdono mai tempo a pregare, perché pregare è una cosa poco utile e, per giunta, è una forma d’ipocrisia, perché vi si rifugiano quelli che non hanno voglia d’impegnarsi per cambiare in meglio la società.
Lo stesso tipo di atteggiamento esiste, ed è largamente diffuso, nei confronti del cinema, della televisione, della letteratura, dello sport, degli svaghi e del tempo libero: non sono apprezzati i film, i programmi, i libri, le persone che parlano del bene e che cerano di praticarlo, ma sono ammirati e ricercati tutti quei film, quelle opere, quelle persone e quei comportamenti che riflettono uno stile di vita materialista ed edonista, cinico e disilluso, dove l’importante è fregare il prossimo prima che sia il prossimo a fregare noi, e dove gli altri servono solo per il nostro piacere, per soddisfare la nostra vanità, per celebrare le nostre doti, vere o presunte, e gratificare e carezzare il nostro immenso, ipertrofico Ego. Un film che abbia come tema centrale la ricerca del bene, ad esempio, viene guardato con fastidio e malcelata ironia dalle giurie incaricate di assegnare i premi; e lo stesso vale per i romanzi, le poesie, i saggi, le opere d’arte, le opere musicali, il modo di comportarsi quando si è in vacanza o quando si gode del proprio tempo libero. Degne di ammirazione sono le persone le quali si fanno largo senza tanti complimenti (ad esempio, nell’ambito sportivo, quelle che assumono sostanze chimiche proibite, beninteso purché sappiano farlo con l’abilità necessaria per non essere scoperte), e afferrano al volo tutte le occasioni di piacere, di avanzamento e di carriera, perché quello che conta è il risultato, e, pur d’arrivarci, va bene qualsiasi mezzo.
Questo è il contesto generale in cui si inscrive la difficoltà della fede per l’uomo moderno. Dopo che legioni di filosofi, d’intellettuali e di romanzieri hanno sostenuto che l’unica realtà di cui possiamo disporre è quella materiale e contingente; dopo aver appreso, dai loro libri, che non vale nemmeno la pena di confutare la credenza in Dio, perché essa appartiene alla preistoria, e ad un filosofo moderno, ad esempio, non resta altro che trarre le conseguenze dalla non esistenza di tutto ciò che è trascendenza, e dalla convenzionalità di tutto ciò che era stato considerati sacro, è chiaro che la maggioranza delle persone finisce per introiettare l’idea che il discorso sia chiuso da un pezzo e che l’impossibilità di credere non sia affatto una anomalia, bensì, al contrario, che anomalo, e un po’ buffo, un po’ rétro, sarebbe il suo contrario, cioè rivolgere la propria fede a Dio. Ma è chiaro che gli effetti sono insiti nella premessa. Se si semina incredulità e disprezzo per la trascendenza e per il sacro, si raccoglieranno generazioni d’increduli e di cinici. Se si irride il bene da tutti i pulpiti e si tesse l’apologia del piacere ad ogni angolo di strada, nessuna meraviglia può esserci quando scopre il rovescio della medaglia: famiglie che si disgregano, rapporti di lavoro che si logorano, ansia ed angoscia che spingono milioni di persone verso la pace illusoria dei farmaci, delle cure psichiatriche, delle sette di esaltati che promettono di portare le persone fuori dal tunnel della depressione e di avviarle in un mondo paradisiaco, fatto di assoluta sicurezza in se stessi, esigendo, però, una cieca sottomissine degna di schiavi, non di uomini liberi.
E allora, vediamo un po’ meglio, un po’ più da vicino, quali siano i veri termini della questione. È difficile credere, oggi? Forse; può darsi. Ma non si ha il diritto di dirlo, né, tanto meno, di farsene una giustificazione, se si è coltivata una tale difficoltà con ogni mezzo, con ogni studio. La condizione privilegiata per credere è abbandonare il proprio Ego, staccarsi dagli idoli del potere, del piacere, del (falso) sapere, e mettersi sulla strada della vita buona. Se non si prova a fare questo, non ha senso, poi, parlare della difficoltà di credere: sarebbe come parlare della difficoltà di ottenere buoni risultati in una determinata pratica sportiva, se non si è capaci di smettere di fumare e di frequentare amici che sono fumatori accaniti. D’altra parte, la fede non viene su nostro comando: noi non possiamo darcela da soli. Dobbiamo domandarla, perché è un dono: un dono, ha specificato Gesù Cristo, riservato alle anime umili e semplici, e negato agli orgogliosi e ai superbi, i quali si credono tanto intelligenti e tanto superiori a quegli altri, ai “piccoli”. Dio, però, ama appunto i piccoli; come afferma il Vangelo: Se non diverrete come questi fanciulli, non entrerete nel Regno dei Cieli. Vorrà pur dire qualcosa. Ecco, dunque, che l’uomo moderno dovrebbe fare esattamente quel che facevano i suoi nonni e bisnonni: deporre la superbia intellettuale e farsi piccolo come un fanciullo. Molti ne sono incapaci, specialmente fra coloro i quali hanno studiato: giornalisti, professori, intellettuali, scienziati, artisti: proprio coloro dai quali dipende l’orientamento complessivo della società. Questo dimostra fino a che punto la ragione, concepita come staccata dalla fede e inconciliabile con essa, sia diventata la palla al piede dell’uomo moderno: ciò che gli impedisce di volare in alto, verso la libertà.
La vera libertà, infatti, non è quella di cui parlano e straparlano in tanti, in troppi, ossia una libertà negativa, contro qualcosa o contro qualcuno: non è affatto quella, ma un’altra: è la libertà di mettere in accordo se stessi con la propria parte migliore, con gli altri e con Dio. Non è vera libertà quella che implica un danno, una sopraffazione, una ingiusta sofferenza riservati agli altri, o anche alla propria parte migliore. La parte migliore di ciascuno di noi è quella che anela al bene, al vero, al giusto, al bello; la parte peggiore, quella che vorrebbe soddisfare tutti i suoi istinti e appetiti, calpestando la verità e la giustizia, ingannando e tradendo l’amore, deformando orribilmente la bellezza. Prendiamo quest’ultimo caso: la bellezza. Il vero artista è colui che la sa ritrarre con occhio sempre limpido, benevolo e spirituale: il che è possibile anche nella rappresentazione del nudo, come alcune famose opere di grandi artisti testimoniano. L’artista mediocre, fasullo, mercenario, che tradisce la propria vocazione per piacere al pubblico con i mezzi più facili, è colui che degrada la bellezza del corpo e la intorbida con allettamenti sessuali, i quali divengono pornografici, perché staccano la parte dal tutto, il corpo dall’anima, e trasformano il corpo umano in un mero oggetto, da desiderare in maniera brutale.
Resta fedele alla propria vocazione colui che resta ancorato alla verità. La verità ultima è Dio. Se il cinema, la televisione, la letteratura, l’arte, la scienza, la filosofia, la stessa teologia (come purtroppo si è visto nell’ultimo secolo) si allontanano da questa via, esse tradiscono se stesse e diventano incapaci di fare un discorso di verità. La stessa cosa vale per la psicologia, la sociologia e tutte le cosiddette scienze umane. Una antropologia che ignori il bisogno di Dio, o che lo consideri con sufficienza e con disprezzo, come qualcosa che si dovrebbe eliminare affinché l’uomo possa infine diventare “adulto”, non potranno che restituirci una immagine deformata e distorta di ciò che l’uomo effettivamente è. Lo abbasseranno al rango di un animale stupido e ingordo, bramoso di sempre nuovi piaceri, instancabile nel vizio, nella prepotenza, nell’egoismo, vile davanti alle prove, alle difficoltà della vita, esperto nella maldicenza, nella calunnia, nella disonestà, nella patologica, compulsiva affermazione di sé. Le persone che si affidano, per i loro disturbi e per le loro difficoltà, a siffatti psicologi e psichiatri, e gli studenti che vengono guidati al sapere da siffatti maestri, impareranno, forse, molte cose, ma non la cosa essenziale, l’unica che conti veramente: come giungere alla Verità e come trovare, in essa e in essa soltanto, la pace del cuore.
La Verità è Dio; la pace sta in Lui. La cultura moderna, gonfia di superbia, ha negato questa saggezza, antica di secoli e millenni, per sostituirla con la sua “saggezza”, tutta mondana e immanente. Ma non ha trovato quel che cercava, e, in compenso, ha visto crescere sempre di più il fardello della propria infelicità. L’uomo moderno è infelice perché si è allontanato da Dio. Per vincere la sua infelicità e per tornare a Dio, è necessario che si sbarazzi della radice di tutti i suoi mali: la superbia intellettuale. Deve tornare a riconoscersi piccolo e fragile, e avere abbastanza umiltà da chiedere a Dio la Grazia di quella fede, senza la quale non starà mai bene, né con gli altri, né con se stesso. Talvolta, negli squarci di lucidità, egli lo intuisce e vorrebbe quasi fare il gran salto della fede: ma è sempre la superbia a trattenerlo. Eppure Dio continua a cercarlo, a chiamarlo a Sé... 


La radice della difficoltà di credere è la superbia della civiltà moderna


di Francesco Lamendola


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